Ai fini della ripartizione del trattamento di reversibilità, vanno considerati una serie di elementi, tra i quali: l'entità dell'assegno di mantenimento riconosciuto all'ex coniuge, le condizioni economiche dei due aventi diritto e la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali senza, tuttavia, confondere la durata di queste ultime con la durata del matrimonio vero e proprio e “nè individuare nell'entità dell'assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all'ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso”.
Lunedi 25 Ottobre 2021 |
La vicenda posta al vaglio della Suprema Corte e decisa con la recente ordinanza n. 26651 del 30.09.2021 riguarda l'ipotesi della determinazione della quota della pensione di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite.
Nel provvedimento in commento, la Cassazione ha sottolineato che la ripartizione deve essere effettuata non solo sulla base del criterio della durata dei matrimoni ma anche sulla base della durata delle convivenze prematrimoniali, dovendosi riconoscere a queste ultime un autonomo e distinto rilievo giuridico. Già la Corte Costituzionale, con sentenza n. 419 del 1999, (con la quale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 3, l. n. 898/1970) , ha chiarito che “la ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite deve essere disposta tenendo conto della durata dei rispettivi rapporti matrimoniali"(art. 9, comma terzo, L. n. 898/70).
Dottrina e giurisprudenza hanno precisato che la durata del matrimonio coincide con la sua durata legale, vale a dire, quanto al coniuge divorziato, dalla celebrazione del matrimonio fino alla sentenza di divorzio ( ex multis: Cass. n. 10699/2007: Cass., n. 3037/2001). Accanto al criterio della durata legale del matrimonio, vanno presi in considerazione ulteriori parametri – cosiddetti correttivi – alcuni indicati dalla legge citata, altri frutto dell'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, vale a dire: le condizioni dei coniugi; le ragioni della decisione; il contributo personale ed economico alla conduzione familiare; il contributo per la formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune; il reddito di entrambi i coniugi.
Tanto premesso, appare opportuna una breve ricostruzione dei fatti occorsi nel caso di specie.
Il Tribunale di Roma, con sentenza del 2012, statuiva l'assegnazione del 70% della pensione di reversibilità alla coniuge divorziata e la rimanente quota alla coniuge superstite.
La Corte d'Appello, con sentenza del 2015, rigettava l'appello di quest'ultima sottolineando che della dedotta convivenza con il defunto, fin dal 1988, non vi era prova in atti e che, pertanto, si doveva tener conto della durata dei matrimoni, per l'esattezza trentaquattro anni il primo e pochi mesi il secondo e che, dunque, la ripartizione della pensione effettuata nella sentenza di primo grado era senz'altro congrua. La coniuge superstite proponeva ricorso per cassazione articolandolo in quattro motivi, il terzo dei quali eccepiva, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc, civ., la violazione dell'art. 9 della L. n. 898/1970 e ciò in quanto la Corte territoriale aveva fatto riferimento ai criteri correttivi dei redditi e delle proprietà delle parti “in modo apparente, erroneo e carente”, ignorando il periodo di assistenza fisica e morale svolta nei confronti del defunto.
La Suprema Corte ha precisato che la Corte d'Appello ha ben applicato i principi elaborati in tema di determinazione della quota della pensione di reversibilità da parte della stessa Corte, in particolare nella sentenza n. 26358/2020, nella quale ha statuito che: “la ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, entrambi aventi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata dei matrimoni, anche ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell'istituto, tra i quali la durata delle convivenze prematrimoniali, dovendosi riconoscere alla convivenza more uxorio non una semplice valenza correttiva dei risultati derivanti dall'applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale”.
Inoltre, per la ripartizione del trattamento di reversibilità, debbono considerarsi anche l'importo dell'assegno di mantenimento riconosciuto alla ex coniuge, le condizioni economiche dei due aventi diritto e la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali, senza confondere la durata di queste ultime con quella del matrimonio “nè individuare nell'entità dell'assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all'ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso” (Cass. 21 settembre 2012, n. 16093).
Sulla base dei motivi rappresentati, la Corte ha rigettato il ricorso e condannato la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.