Violenza Sessuale e il dissenso della Vittima

Violenza Sessuale e il dissenso della Vittima

Il delitto di violenza sessuale è stato introdotto dalla L. n. 66/1996 ed è previsto dall’art. 609bis c.p., inserito all’interno del titolo XII, capo III dedicato ai delitti contro la libertà individuale.

Lunedi 5 Febbraio 2024

La predetta riforma è espressione, dal punto di vista normativo, della rivoluzione culturale e sociale che ha investito la concezione della sessualità nella società moderna.

Il cambiamento dei costumi sessuali ha infatti contribuito ad elaborare una nuova nozione di sessualità come estrinsecazione della libertà della persona e dei valori ad essa connessi ed ha evidenziato gli effetti della violenza sessuale sulla personalità della vittima.

Oltre alla Legge n.66/1996,recentemente,la Legge n.69/2019 (c.d. Codice Rosso),con le successive modifiche untrodotte dalla Legge 168/2023 ,ha ridisegnato la cornice edittale del delitto di violenza sessuale prevedendo inasprimenti di sanzione.

La fattispecie obiettiva della violenza sessuale sia per costrizione, sia per induzione è costruita sul sintagma “compimento di atti sessuali.”

Il principio cardine della tutela della Vittima è che ai fini della consumazione del reato di violenza sessuale è richiesta la mera mancanza di consenso e non la manifestazione di dissenso.

Si tratta di un sano principio affermato più volte dalla Suprema Corte,specie nei casi in ci l’imputato,a propria discolpa,affermi che la Vittime del grave reato era consenziente al rapporto,che chiarisce una diatriba che si trascina da lungo tempo su tale delicata materia ma che tuttavia, necessita di una sollecita modifica della normativa vigente,innanzi citata,in tal senso.

  • L’orientamento della Cassazione

Nondimeno,la Corte di Cassazione,con la sentenza n.47018/2023, è tornata a pronunciarsi sul confine tra “mancanza di consenso” e “manifestazione di dissenso” da parte della persona offesa.

Nel caso in esame la contestazione era stata formulata ai sensi dell’art. 609 bis c.p. comma 1, tuttavia, secondo i giudici di merito non vi era stata una violenza con costrizione fisica, perché la paziente era allettata, ancora sotto gli effetti dell’anestesia per l’intervento pomeridiano, e quindi in condizioni di minorata difesa.

In relazione alla fattispecie per costrizione,si riconosce che oggetto della tutela sia la libertà sessuale dell’individuo come diritto fondamentale della persona.

Per quanto riguarda la fattispecie per induzione,contemplata dal secondo comma della norma,si pone il problema se bene protetto sia la libertà sessuale o l’intangibilità sessuale; tuttavia, ragioni di coerenza sistematica fanno propendere per la prima tesi.

Di qui, la riqualificazione del fatto come induzione senza che fosse ravvisabile una modifica sostanziale dello stesso posto che nella descrizione formulata nel capo di imputazione si dava conto delle condizioni della vittima, limitata nella sua libertà personale dopo un intervento chirurgico,nonché della circostanza di tempo notturna, e del delicato contesto stante il rapporto non paritario tra un paramedico e la paziente.

La Corte ha quindi escluso nella specie la violazione del principio di correlazione precisando che l’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1, non si identifica solo con una subdola attività di persuasione della vittima per convincerla a prestare il proprio consenso all’atto sessuale, ma si estrinseca in qualsiasi forma di sopraffazione posta in essere dall’agente, anche senza ricorso ad atti costrittivi ed intimidatori nei confronti della vittima, la quale soggiace al volere dell’autore della condotta, non risultando in grado di opporsi a causa della sua condizione di inferiorità; quest’ultima è concetto ampio che colpisce qualunque condizione di menomazione permanente o transeunte della vittima che venga strumentalizzata a fini sessuali come, ad esempio,la disabilità mentale, a prescindere dall’esistenza di una vera e propria patologia; la subdola opera di persuasione o di ricatto morale dell’agente; l’abuso di alcol e stupefacenti che possono eventualmente anche annientare del tutto la percezione della violenzasessuale, come nel caso del dormiente.

Nel caso di specie la donna aveva subito la condotta nelle particolari condizioni sopradescritte e nell’ignoranza della pratica medica, di cui aveva acquisito piena consapevolezza solo dopo il confronto con il sanitario il giorno successivo.

La Corte, pertanto, ravvisando la ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie,ha confermato la declaratoria di responsabilità annullando la sentenza limitatamente all’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche con rinvio per nuovo giudizio sul punto.

Sempre la Corte di Cassazione (Sez. III, sent . 10 maggio 2023 n. 19599) ha affermato che “il consenso della persona offesa nel reato di violenza sessuale non può essere desunto dal fatto che la vittima si sia fatta riaccompagnare a casa in automobile dal violentatore in seguito all’atto sessuale; né tale circostanza, al pari dell’assenza di evidenti lesioni corporali, può rilevare ai fini della valutazione sull’attendibilità della sua testimonianza”.

Come si legge nella decisione – «integra l’elemento oggettivo del reato di violenza ses suale non soltanto la condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessuale altrui realizzata in presenza di una manifestazione di dissenso della vittima, ma anche quella posta in essere in assenza del consenso, non espresso neppure in forma tacita, della persona offesa, come nel caso in cui la stessa non abbia consapevolezza della materialità degli atti compiuti sulla sua persona».

E’stato,affermato più volte che «l’esimente putativa del consenso dell’avente diritto non è configurabile nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l’errore sul dissenso si sostanzia, pertanto, in un errore inescusabile sulla legge penale»;

ne deriva che «ai fini della consumazione del reato di violenza sessuale, è richiesta la mera mancanza del consenso, non la manifestazione del dissenso, ben potendo il reato essere consumato ai danni di persona dormiente».

In sostanza – precisa la Corte – «nei reati contro la libertà sessuale, il dissenso è sempre presunto, salva prova contraria» poiché.«affermando che la stessa persona offesa ha riferito di avere bevuto qualche bicchiere di vino insieme agli imputati, ma non tanto da ubriacarsi e non ragionare, sembrerebbe lasciare intendere, sia pure in modo larvato, una sorta di “consenso implicito“.

Tanto sembrerebbe ravvisare la non punibilità degli atti sessuali compiuti in mancanza di un esplicito dissenso della vittima,finendo così per porre in capo ad essa l’onere di resistere all’atto sessuale che le viene imposto,quasi gravasse sulla vittima una “presunzione di consenso” agli atti sessuali da dover di volta in volta smentire, ciò che si risolverebbe in una supina accettazione di stereotipi culturali ampiamente superati»

In particolare, la Suprema Corte ha affrontato due distinti ambiti di indagine:

  • sotto un profilo sostanziale,il costante orientamento secondo il quale non è possibile desumere il consenso della persona offesa dai suoi comportamenti successivi alla violenza;

  • sotto un profilo processuale,invece,il tema del rapporto tra rinnovazione dibattimentale in appello e tutela della vittima vulnerabile nei casi di overturnig da assoluzione a condanna.

Per meglio analizzare le questioni giuridiche affrontate dalla Corte di Legittimità, occorre ripercorrere brevemente i fatti che hanno portato alla pronuncia in esame.

Il Tribunale di Lodi assolveva l’imputato dal reato di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis c.p., ritenendo che le dichiarazioni della vittima non fossero pienamente attendibili, essendo il suo comportamento successivo alla violenza (ossia il farsi riaccompagnare a casa in automobile dall’imputato) logicamente incompatibile con un rapporto non consensuale.

La Corte di Appello di Milano riformava la sentenza di primo grado e condannava l’impu tato,ritenendo pienamente attendibili, invece, le dichiarazioni della persona offesa. Avverso la sentenza l’imputato ricorreva in Cassazione lamentando ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett b) ed e) cod. proc. pen, la contraddittorietà della motivazione nella parte relativa alla valutazione delle prove.

In particolare, denunciava la violazione dell’art. 192, commi 1, 2 e 3 cod. proc. pen. nel giudizio di attendibilità della persona offesa e riteneva inverosimile il difetto di consenso, logicamente incompatibile con la condotta serbata dalla vittima,evidenziando l’assenza di lesioni sul suo corpo e la modesta entità del turbamento conseguito alla violenza,in base alle quali si poteva configurare l’ipotesi meno grave di violenza sessuale di cui al terzo comma dell’art. 609 bis cod. pen.

La Suprema Corte, nel dichiarare l’inammissibilità del ricorso, escludeva la sussistenza dei vizi motivazionali dedotti dal ricorrente, da un lato, evidenziando come la reazione della vittima fosse in realtà compatibile con la violenza subita; dall’altro, osservando che le dichiarazioni della persona offesa avevano trovato puntuale riscontro nell’esito della visita ginecologica e nelle testimonianze dei vicini di casa e della compagna, con i quali la vittima si era confidata.

Sotto il profilo processuale, la Corte ha condiviso le motivazioni della Corte di appello, ritenendo che la stessa avesse correttamente valutato l’attendibilità delle dichiarazioni della vittima, superando, così, l’opposta valutazione compiuta dal Tribunale.

In particolare, la Corte ha affermato la legittimità della motivazione alla luce del consolidato orientamento secondo cui le dichiarazioni della persona offesa possono ritenersi veritiere e idonee ad essere valutate quale mezzo di prova, quando la loro attendibilità risulti da elementi testimoniali e documentali.

Le regole dettate dall’art. 192, terzo comma, cod. proc. pen., infatti, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa,le quali, pertanto, possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di responsabilità dell'imputato, senza la necessaria presenza di riscontri esterni.

Qualora, invece, si acquisiscano riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo ad escludere l’intento calunniatorio del dichiarante,non dovendo risolversi in autonome prove del fatto.

Non di rado nel reato di violenza sessuale l’imputato e la parte offesa sono gli unici depositari della vicenda, con la conseguenza che l’accertamento dei fatti dipende dalla valutazione del contrasto delle loro opposte versioni.

Per tale ragione, occorre vagliare la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità intrinseca del suo racconto in modo più penetrante e rigoroso rispetto a quanto avviene per le dichiarazioni di qualsiasi testimone,dovendo l’esito del relativo giudizio essere sempre supportato da un’idonea motivazione.

La Corte ha del resto ribadito il principio per cui detto giudizio può svolgersi anche sulla base di valutazioni di carattere logico,di massime di esperienza o di fatti notori, i quali devono risultare indicati nella motivazione.

In particolare,ha evidenziato come le modalità della prima rivelazione dell’abuso (ai vicini di casa ed alla compagna) costituissero un indice di genuinità e come non fossero emerse ragioni plausibili per ritenere calunniose le accuse.

Inoltre, la circostanza che, nell’immediatezza dell’episodio,la Vittima si fosse fatta riaccompagnare a casa in automobile dall’imputato non poteva in alcun modo costituire un fatto idoneo a minarne la credibilità né un elemento utile da cui desumere il consenso di quest’ultima all’atto sessuale,rappresentando, al contrario, una reazione conseguente alla portata traumatica dell’episodio.

Pertanto,nel caso in esame, la Corte ha ritenuto pienamente «compatibile con la violenza appena subita il fatto che la vittima si fece riaccompagnare a casa in automobile dall’imputato»,sottolineando come la motivazione della Corte di appello fosse «caratteriz zata dal necessario confronto critico con la motivazione della sentenza assolutoria di primo grado e immune da vizi logici, […] fondata su una corretta e approfondita analisi delle dichiarazioni della persona offesa».

La Corte, ponendosi in linea con la giurisprudenza precedente, contribuisce a valorizzare il ruolo della vittima di reato, per affrontare l’importante tematica delle dichiarazioni rese dalle vittime vulnerabili in caso di rinnovazione del dibattimento in appello.

  • La tutela processuale della Vittima

L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si estrinseca in qualsiasi forma di sopraffazione nei confronti della malcapitata Vittima, che, a causa della sua condizione di inferiorità, soggiace al volere dell’autore della condotta

L’art. 190 bis, comma 1 bis del Codice di Rito prevede particolari cautele nell’esame di persone offese particolarmente vulnerabili, volte a ridurne quanto più possibile l’assunzione dell’esame testimoniale mentre l’art. 603, comma 3 bis. impone la rinnovazione dell’istruttoria in sede di gravame nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa.

In tali ipotesi, risulta problematico coniugare l’esigenza di immediatezza e di oralità con la protezione delle vittime vulnerabili. Invero, vengono in rilievo due interessi primari, rispondenti, il primo,al valore garantistico della presunzione di innocenza ed alla connessa esigenza di oralità nel giudizio di secondo grado che si risolva in una modifica in peius della sentenza; ed il secondo, all’esigenza di assistenza e protezione della persona offesa, in conformità con quanto stabilito dalla direttiva 2012/29/UE e dal codice di rito all’art. 190 bis, comma 1bis..

Occorre assicurare che siano ridotte al minimo le occasioni di necessaria partecipazione al processo, che rappresentano un momento di ulteriore sofferenza per la parte lesa, la quale è costretta a rievocare fatti difficili nel contesto particolarmente conflittuale del dibattimento.

In tal senso, deve essere letta la previsione dell’art. 20, lett b) della Direttiva 2012/29 UE laddove prevede che «il numero delle audizioni della vittima sia limitato al minimo e le audizioni abbiano luogo solo se strettamente necessarie ai fini dell’indagine penale».

Allo stesso tempo, è la medesima direttiva che nel considerando numero 12 precisa che i diritti enunciati «fanno salvi i diritti dell’autore del reato», e, in particolare «fa salva la presunzione di innocenza».

Pertanto, l’attenuazione del contraddittorio necessaria alla protezione della parte offesa deve comunque confrontarsi con i principi di oralità ed immediatezza, alla stregua dei quali il giudice è tenuto a percepire direttamente la prova nel momento stesso della sua formazione, così da coglierne tutti i connotati espressivi, utili nel giudizio di attendibilità.

A tal riguardo, peraltro, coerentemente con quanto più volte ribadito dalla giurisprudenza della corte di Strasburgo, si è affermato che il giudice di appello, per riformare in peius una sentenza assolutoria deve assumere direttamente la testimonianza della persona offesa, ritenuta inattendibile in primo grado, al fine di valutarne la credibilità sotto il profilo oggettivo e soggettivo, pena altresì la violazione dei principi del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, tra i quali il diritto dell’imputato a interrogare e far interrogare i testimoni a suo carico.

La soluzione prospettata finora in giurisprudenza, legata ad una interpretazione strettamente letterale dell’art. 603 cod. proc. pen., non convince, in quanto – incurante delle prioritarie esigenze di tutela della persona offesa delineate dalla direttiva 2012/29/UE – impone al Giudice del gravame di riascoltare la parte lesa, pena un vizio di motivazione censurabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen.

Se si vuole assicurare una protezione effettiva alla vittima vulnerabile – per evitare che il processo si trasformi in una reiterazione dell’esperienza traumatica – le misure di attenuazione del contradditorio dovrebbero operare anche e soprattutto in sede di gravame, per non vanificare i meccanismi di garanzia che, nel giudizio di primo grado, impediscono la formazione in dibattimento della prova testimoniale quando le dichiarazioni del soggetto vulnerabile siano già state acquisite nel corso delle indagini

A tal fine, la legge dovrebbe fornire parametri il più possibile chiari e precisi, partendo, ad esempio, dalla possibilità di prevedere l’utilizzo della registrazione audiovisiva dell’esame testimoniale anche in appello, così da trarne i necessari elementi di valutazione senza dover reiterare l’escussione della vittima.

Pertanto, tutti gli Stati membri, in virtù di quanto previsto dall’art. 3 e dall’art. 8 della CEDU,dovrebbero garantire l’effettiva criminalizzazione di ogni atto sessuale non consen suale,anche qualora la persona offesa non resista all’abuso. Laddove la disciplina positiva non lo consenta, prevedendo condotte tipicamente vincolate, l’interpretazione delle stesse dovrà essere di tale ampiezza da ricomprendervi tutti gli atti sessuali compiuti invito domino.

Così analizzati gli aspetti procedurali, la sentenza in commento contiene,altresì, importanti spunti di riflessione circa la nozione di consenso nel reato di violenza sessuale.

  • L’assenza di consenso e la manifestazione di dissenso

Dopo aver analizzato il delitto di violenza sessuale,occorre porre l’attenzione sulla nozione di “consenso” del soggetto passivo del reato e sulla rilevanza giuridica dello stesso.

La giurisprudenza prevalente ha affermato che la libertà sessuale dell’individuo è un diritto inviolabile dell’uomo (art. 2 Cost) e pertanto a integrare il reato di violenza sessuale è sia la condotta invasiva della sfera della libertà e integrità sessuale altrui realizzata in presenza della manifestazione di dissenso della vittima; ma anche quella posta in essere in assenza di consenso, non espresso neppure in forma tacita, dalla persona offesa.

Si deduce che il consenso deve essere validamente prestato e deve permanere per tutto il tempo in cui sono compiuti gli atti sessuali. Nei rapporti sessuali tra soggetti maggiorenni il compimento di atti sessuali deve essere sorretto da un consenso che deve sussistere al momento iniziale e deve permanere nell’intero compimento dell’atto sessuale.L’eventuale manifestazione di dissenso, che può essere non esplicita ma per fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà e può intervenire in itinere, esclude la liceità dell’atto sessuale.

Inoltre, la Cassazione ha recentemente affermato (sent 1558/2022) che ,per configurare l’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale,è sufficiente che l’agente sia consapevole del fatto che non sia stato manifestato chiaramente il consenso da parte della vittima al compimento degli atti sessuali.

È irrilevante l’errore sull’espressione del dissenso anche ove questi non sia stato esplicitato. Può fondarsi il dubbio sulla ricorrenza di un valido elemento soggettivo solo quando l’errore si basa sul contenuto espressivo ed equivoco di positiva manifestazione di volontà da parte dell’offeso.

Infine, è ormai pacifico che l’esimente putativa del consenso dell’avente diritto non è configurabile nel delitto di violenza sessuale, poiché la mancanza del consenso è un requisito esplicito della fattispecie e l’errore sul dissenso si sostanzia in un errore inescusabile su legge penale.

Come noto, la fattispecie di cui all’art. 609 bis cod. pen. si caratterizza per essere il soggetto passivo costretto a compiere o a subire l’atto sessuale, ove la nozione di costrizione esprime la necessaria mancanza di un libero consenso all’atto sessuale. Il consenso, pertanto, deve essere espresso e perdurare per l’intera durata del rapporto, non potendosi desumere dalla mera mancanza di reazioni esteriori oppositive delle vittime.

Al contrario, non è necessario che il dissenso sia manifestato dal soggetto passivo durante tutto il rapporto sessuale: anzi, agli effetti dell’art. 609 bis, è irrilevante che, nel corso della violenza, la persona offesa non abbia reagito in alcun modo all’atto sessuale o vi abbia persino apparentemente consentito per il solo timore di ulteriori ritorsioni

A questo proposito, si deve ritenere ormai superata tanto l’impostazione anacronistica della vis grata puellis quanto l’idea del costante onere di resistenza della donna stuprata, secondo il quale per aversi «violenza carnale deve la resistenza della donna essere seria e costante. Seria, che è quanto dire non affettata per simulare onestà, ma realmente espressiva di un volere decisamente contrario mantenuto fino all’ultimo momento”.

In particolare, il consenso non può in alcun modo essere dedotto in via diretta dal fatto che la vittima non abbia opposto un’efficace resistenza all'aggressore: devono ritenersi prive di rilevanza tanto l’assenza di lesioni personali sul corpo della persona offesa, quanto un comportamento remissivo, anche successivo all’abuso, in considerazione dello stato di paura in cui versa la stessa.

Nel caso di specie, infatti, lo stato di paura in cui la vittima era venuta a trovarsi e la maggior prestanza fisica dell’imputato (il quale l’aveva sollevata, portata su un lettino posto nello spogliatoio della palestra, ove entrambi lavoravano, e bloccata con il peso del proprio corpo) le avevano materialmente impedito una concreta opposizione.

Parimenti, la previsione codicistica della violenza, minaccia o abuso di autorità quale elemento costitutivo del reato di cui all’art. 609 bis cod. pen. non può dare adito a interpretazioni pericolose, in forza delle quali desumere la sussistenza del consenso ogniqualvolta la costrizione derivi da condotte difformi rispetto a quelle descritte dalla norma.

In questa prospettiva, il Giudice sarebbe tenuto ad accertare non una generica mancanza di consenso, ma altresì la presenza di una condotta violenta, di una minaccia o di un abuso di autorità, come sostenuto da alcuni autori inclini a ritenere tale specificazione opportuna sul piano della determinatezza, potendo la violenza e la minaccia costituire utili referenti in grado di conferire un «minimum di obiettiva riconoscibilità ed un certo grado di disvalore» e si creerebbe un contrasto con la ratio stessa dell’art. 609 bis cod. pen.ai fini della tutela delle ragioni della Vittima.

Quest’ultima rischierebbe, infatti, di essere frustrata ove si ritenesse necessario, ai fini della configurabilità di un delitto contro la libertà sessuale, l’uso di mezzi coercitivi qualificati e non la mera volontà contraria della vittima.

Se, infatti,la norma mira a tutelare e valorizzare la persona offesa, appare arduo comprendere la ragione dell’incriminazione non dovrebbe consistere nel dissenso della stessa.

Sul punto, al fine di superare la rigidità della norma, che parrebbe configurare il reato di violenza sessuale come un reato a forma vincolata, la giurisprudenza ha progressivamen- te fornito interpretazioni sempre più ampie delle condotte tipizzate, tanto da privarle di una effettiva portata selettiva.

Tale evoluzione, sebbene indubbiamente conforme alla ratio della disposizione, risulta, tuttavia, un rimedio insufficiente al quale dovrebbe sopperire il legislatore.

A tal riguardo, risultano emblematici i moniti espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella pronuncia M.C. v. Bulgariadel 4 dicembre 2003 .

I Giudici di Strasburgo hanno ricordato che, storicamente, la prova di una condotta violenta da parte del molestatore, così come di una resistenza da parte della vittima, sono stati a lungo considerati requisiti tipici del reato di violenza sessuale in molti paesi, ma, ad oggi, gli stessi non possono più essere considerati tali dagli Stati Membri, cosicché ogni riferimento alla forza fisica dovrebbe essere rimosso dal diritto positivo.

Secondo la Corte, contrariamente a quanto si registra negli ordinamenti di alcuni paesi ove la nozione di violenza sessuale continua a contenere riferimenti alla violenza o alla minaccia usata dall’agente, è la mancanza di consenso e non la presenza di violenza a dover caratterizzare tale reato.

Più nello specifico, la Corte ha evidenziato che solo mediante la criminalizzazione di tutti gli atti sessuali non consensuali – indipendentemente dalla resistenza espressa dalla persona offesa – è possibile garantire un’effettiva tutela per le donne vittime di violenza e, in tal senso, tutte le legislazioni nazionali dovrebbero, quindi, implementare le proprie previsioni interne.

Inoltre, come emerso da un’analisi svolta dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, nel diritto internazionale ogni atto sessuale posto in essere senza il consenso della vittima viene qualificato come violenza sessuale, a riprova di una tendenza globale che identifica nella mancanza di consenso l’elemento essenziale del reato. Del resto, le vittime di abusi sessuali spesso non riescono a reagire attivamente per un ampio ordine di motivi, sia fisici che psicologici.

  • Conclusioni

In definitiva, la Legge n. 66/1996 ha introdotto un assetto di tutele imperniato sul rispetto della volontà della persona e sulla difesa dell’autodeterminazione della stessa soprattutto nell’ambito sessuale, elevando la libertà sessuale e individuale a diritti fondamentali della persona.

La giurisprudenza ha colorato di significato la nozione di consenso, precisando che il reato di cui all’art. 609bis c.p. si configura in presenza di una manifestazione di dissenso da parte della vittima, ma anche quando l’atto sessuale è posto in essere in mancanza di consenso, non espresso neanche tacitamente.

Inoltre, la Cassazione ha sottolineato che il consenso della vittima al compimento degli atti sessuali deve permanere per tutto il rapporto, potendo venire meno a causa di un successivo ripensamento o per la mancata condivisione delle forme di consumazione del rapporto.

Da tale ricostruzione risulta evidente l’intento del legislatore e della giurisprudenza di apprestare una tutela massima alle vittime di violenza sessuale.

Con la pronuncia esaminata, la Cassazione ha dato seguito ad un orientamento che, per quanto oggi possa apparire scontato, non ha sempre riscosso favore in passato. Infatti, non sono mancate, anche recentemente, decisioni fondate su di una considerazione riduttiva della deposizione della persona offesa, che sarebbe caratterizzata da una minore valenza probatoria.

In particolare, è ancora diffusa l’equazione testimone vulnerabile – testimone meno credibile, pur in assenza di un fondamento positivo o giurisprudenziale che consenta di qualificare tale testimonianza come debole.

Sebbene non possa negarsi che le dichiarazioni della vittima vulnerabile contengano delle specificità,queste non portano,tuttavia, a una minore valenza probatoria della dichiara zione o ad un aprioristico giudizio di inaffidabilità della stessa, ma impongono, piuttosto, particolari cautele nelle modalità di raccolta della prova, le quali devono essere idonee a garantirne la genuinità e ad evitare fenomeni di vittimizzazione secondaria.

A tal riguardo, si auspica un intervento volto a chiarire come le stesse cautele debbano essere presenti anche nella rinnovazione del dibattimento in appello, ove la protezione della vittima vulnerabile non può essere tout court sacrificata in nome del principio di immediatezza.

Nello stessso tempo una, maggiore chiarezza dovrebbe essere fatta sul concetto di consenso.

Sebbene con il termine consenso si intenda la presenza di una espressa volontà afferma tiva,talvolta esso viene ancora erroneamente ritenuto un complemento necessario di altra condizione, esterna al consenso stesso ed indipendente da questo.

Fortunatamente, tale tendenza risulta sempre più contrastata dalla recente giurispru denza, che più volte ha precisato come l'elemento oggettivo del delitto in esame possa dirsi integrato non solo se la condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessua le altrui sia realizzata in presenza di una manifestazione di dissenso da parte della vittima, ma anche qualora l’atto sessuale venga posto in essere in mancanza di un consenso della persona offesa, non espresso neppure tacitamente.

E’ stato anche affermato che il consenso della vittima al compimento di atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto, potendo quindi venir meno il consenso inizial mente prestato a causa di un successivo ripensamento ovvero per la non condivisione delle forme e delle modalità di consumazione del rapporto.

Viceversa, è stato chiarito come non sia necessario che il dissenso della vittima si manifesti per tutto il periodo di esecuzione del delitto,essendo sufficiente che si estrinsechi anche solo all'inizio della condotta antigiuridica

Ebbene, se risulta ormai pacifico che il consenso della vittima non possa essere dedotto da elementi diversi dal consenso stesso, il quale deve essere libero di formarsi ed esprimersi chiaramente,appare auspicabile quanto necessaria una riforma dell’art. 609 bis cod. penale volta ad inserire nella disposizione stessa la locuzione «contro il consenso della persona offesa», al fine di fugare ogni ulteriore margine di dubbio circa la sua interpretazione.

Allegato:

Cassazione penale sentenza 47018 2023

Vota l'articolo:
0 / 5 (0voti)

Iscriviti gratis alla nostra newsletter


Aggiungi al tuo sito i box con le notizie
Prendi il Codice





Sito ideato dall’Avvocato Andreani - Ordine degli Avvocati di Massa Carrara - Partita IVA: 00665830451
Pagina generata in 0.1 secondi