Si è già evidenziato come, in relazione alle misure di contenimento del Covid-19 e di limitazione degli spostamenti, il sistema di repressione penale, nonché la prassi di far “autocertificare” al cittadino i motivi degli spostamenti, presentasse serie criticità.
Tale sistema e tale prassi, difatti, presentavano vari punti di plausibile attrito con la Carta costituzionale e con le leggi vigenti applicabili, quali il Codice di procedura penale, il Testo unico delle leggi sanitarie e, infine, il Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa (D.P.R. n. 445/2000).
Simili dubbi sono stati espressi, seppur in termini parzialmente diversi, da indiscusse personalità del calibro del Presidente emerito della Corte Costituzionale, Dott. Flick ma anche da parte della magistratura (per esempio in una nota della Procura di Genova del 16 marzo 2020). Alcune obiezioni, qualora abbracciate dalla giurisprudenza, avrebbero reso in buona parte inapplicabile il sistema sanzionatorio penale appena costruito.
Forse anche a seguito di queste voci, il governo, con l’art. 4 del D.L. n. 19 del 25 marzo 2020 ha corretto il tiro, prevedendo, in sintesi, che “salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento […] è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall'articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità”. In caso di utilizzo dei veicoli la sanzione risulta aumentata ed è ammesso, per espresso richiamo al Codice della Strada, il pagamento in misura ridotta; anche con il “famoso sconto” del 30 % nei primi 5 giorni o in alcuni casi, nelle mani dell’agente accertatore.
L’intervento del citato D.L. nel quadro normativo emergenziale di questi tempi ha superato alcune problematiche esistenti causate dal D.P.C.M. che ha esteso all’intero territorio nazionale le misure delle “zone rosse”, ma non ha – invece - escluso ogni criticità, lasciandone viva più d’una.
In primo luogo ci si chiede se, al posto di varie ordinanze e norme emergenziali di dubbia natura, continuamente emesse creando confusione tra i cittadini, non sarebbe stato meglio utilizzare gli strumenti ed i poteri previsti dal T.U. delle leggi sanitarie. Eventualmente aggiornando tale Testo e migliorandolo con atti aventi forza di legge (quali i Decreti legge), chiamando in causa il Legislatore, sino ad allora pressoché scomparso dagli scenari politici; tutto ciò in virtù della riserva di legge di cui, fra gli altri, all’art. 16 della Costituzione.
In ogni caso, tornando al D.L. del 25 marzo 2020, balza subito agli occhi una prima apparente contraddizione nel “nuovo” sistema sanzionatorio: esso, esplicitamente, esclude l’applicazione dei cc.dd. reati contravvenzionali (quali quello previsto dall’art. 650 c.p.), lasciando il posto alla sanzione amministrativa dal limite minimo di € 400. Nel far ciò, lascia salva l’applicabilità, ovviamente, dei più gravi delitti quali quello di epidemia, che prevedono importanti (e giuste) pene detentive. Escludendo l’applicazione dei reati contravvenzionali previsti “da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità”, esclude l’applicazione dell’art. 260 T.U. leggi sanitarie, salvo poi, cadendo in apparente contraddizione, incrementarne le sanzioni ivi previste, innalzando, nel limite massimo, l’arresto da “ 6 mesi”, a “18 mesi”; anche le sanzioni pecuniarie irrogabili sono state elevate.
È cristallina la contraddizione consistente nell’incrementare le sanzioni previste da una norma salvo poi sancirne la non applicabilità.
L’unica apparente applicazione possibile dell’art. 260 T.U. leggi sanitarie, per espresso richiamo, è quella in caso di violazione del “divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena purché risultate positive al virus”; ciò, salvo che il fatto costituisca più grave reato, come ad esempio la tentata epidemia dolosa, l’epidemia dolosa e, infine, l’epidemia colposa. Questi ultimi delitti richiamati sono spesso citati dalla stampa, data l’entità delle pene previste, tra cui, ex multis, l’ergastolo in caso di epidemia dolosa. Tuttavia essi, se venisse confermata la scarsa giurisprudenza esistente (non avendo, per nostra fortuna, quasi nessuno diffuso alcuna epidemia in passato in Italia), avrebbero scarsa applicazione pratica.
Questo, poiché non sarebbero applicabili nei confronti di “chiunque, in qualsiasi modo, provochi un’epidemia, come ad es. chi, sapendosi affetto da male contagioso, si mescoli alla folla pur precedendo che infetterà altre persone. Infatti la norma…non punisce chiunque cagioni un’epidemia, ma chi la cagioni mediante la diffusione di germi patogeni di cui abbia il possesso, anche “in vivo”, mentre deve escludersi che una persona affetta da malattia contagiosa abbia il possesso dei germi che l’affliggono” (Tribunale di Bolzano, 13 marzo 1979).
Ciò porterebbe alla applicazione del citato art. 260 T.U. leggi sanitarie anche nei casi di chi, con o senza intenzione, uscisse di casa sapendo di essere positivo al virus. Nel caso ciò avvenga con l’intenzione, ossia con dolo, la pena prevista dall’art. 260 T.U. leggi sanitarie appare bassa. Circostanza, inoltre, difficilmente avverabile, tenuto conto del fatto che i tamponi eseguiti in queste settimane sono senza dubbio inferiori – e di molto – rispetto ai soggetti effettivamente contagiati, seppur asintomatici.
Per ciò che concerne la sanzione amministrativa (da € 400 a € 3000) prevista per chi violi il dovere di “restare a casa”, va detto in primis come chi scrive sia senza dubbio concorde nel revirement normativo in quanto il previgente sistema sanzionatorio penale appariva inefficace (si pensi all’oblazione per il reato di cui all’art. 650 c.p.), oltre che lesivo di numerose disposizioni costituzionali e para-costituzionali. La sanzione amministrativa, invece, sarà immediatamente pagabile in misura ridotta, similmente alla maggior parte di quelle previsti per violazioni al Codice della Strada. Tuttavia, in caso di mancato pagamento, la sanzione definitiva verrà irrogata dal Prefetto, in applicazione della L. n. 689/1981 disciplinante le sanzioni amministrative ed espressamente richiamata dal D.L. del 25 marzo 2020. Sembrerebbe, da una prima lettura, possibile il solo ricorso immediato al Prefetto e non all’Autorità Giudiziaria; quest’ultima potrebbe essere direttamente adita in caso di atti immediatamente afflittivi (sequestri, fermi amministrativi) che però non sembrano essere possibili nel caso di specie.
Ciò premesso, è innegabile che vi siano delle criticità non superate dalla riforma. Innanzitutto, non avendo previsto la norma che il verbale di accertamento non pagato diventi immediatamente titolo esecutivo, le singole Prefetture verranno gravate da vari procedimenti –anche molto lunghi- se il sanzionato, eventualmente dopo scritti difensivi presentabili a seguito della contestazione entro 30 gg. (art. 18 L. n. 689/1981), richieda di essere ascoltato. I Prefetti, secondo la giurisprudenza maggioritaria, avranno 5 anni per irrogare l’ordinanza ingiunzione definitiva del procedimento amministrativo sanzionatorio. Sarebbe stato, forse, più opportuno - al fine della reale repressione - prevedere che il verbale non pagato divenisse, automaticamente, titolo esecutivo (consentendo poi la trasmissione del ruolo e la notifica di cartelle esattoriali).
Dal momento che la contestazione deve essere (di norma) immediata (art. 14 L. n. 689/1981), inoltre, non si capisce quali strumenti abbiano a disposizione le ff.oo. sparse per il territorio nazionale per verificare immediatamente – e con ragionevole certezza - la causa e i motivi di uno spostamento. Nel caso di contestazione non immediata, invece, le Forze dell’ordine dovrebbero procedere ad accertamenti (art. 14. L. n. 689/1981), con obbligo di rapporto (art. 17 L. n. 689/1981) al Prefetto a seguito di notificazioni entro i 90 gg. dall’accertamento (art. 14. L. n. 689/1981). La problematica pratica sorge in caso di sospetta dichiarazione mendace del controllato rispetto ai motivi dello spostamento. Difatti gli operanti, insospettiti, dovrebbero in simili casi ottenere elementi probanti la mendacia, poiché la prova della pretesa sanzionatoria, in caso di contestazione, ricade sulla P.A. irrogante la sanzione (ex plurimis Cass. sent. nn. 7296/96, 1122/99, 8515/01, 1912/2019). Orbene, le ff.oo. dovranno, citando l’art. 13 della l. n. 689/1981, assumere informazioni e procedere a ispezioni di cose e di luoghi diversi dalla privata dimora. In altre parole dovrebbero, per ogni violazione, svolgere una vera e propria indagine ed in caso di perquisizione ottenere la previa autorizzazione della competente Autorità Giudiziaria. È evidente la difficoltà, se non l’impossibilità, dell’accertamento de quo.
Per quanto concerne le decine di migliaia di persone che, secondo quanto riportano gli organi di stampa, sarebbero state denunciate per la violazione del non più applicabile art. 650 c.p. nei giorni passati, i relativi procedimenti penali andranno di certo archiviati (con la ovvia eccezione di chi abbia violato la quarantena sapendo di essere positivo al coronavirus).
Secondo il D.L. 25 marzo 2020 si applicheranno a tali casi gli articoli 101 e 102 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, al fine di trasmettere gli atti alla Autorità amministrativa per l’irrogazione di una sanzione, che viene staticamente determinata in € 200 dal Decreto del 25 marzo 2020. Tale determinazione (inferiore ai 400 euro di sanzione minima previsti dal decreto stesso) è dovuta al fatto che, in base al principio della irretroattività delle leggi, applicabile quanto in tema di sanzioni amministrative, quanto in tema di diritto penale (cfr. art. 25 Cost.), una sanzione maggiore sarebbe stata superiore all’ammenda di € 206 prevista dall’art. 650 c.p. all’epoca “applicato e vigente” e sarebbe stata quindi incostituzionale. Tuttavia tale applicazione predeterminata, “asetticamente”, perfino per casi diversi tra loro e di gravità differente potrebbe - in futuro - comportare pronunzie giudiziali abroganti la sanzione o rimodulanti la stessa, poiché si violerebbe l’art. 3 Cost., nonché i generali principi di uguaglianza e proporzionalità, richiamanti finanche dalle norme comunitarie.
Last but not least, un commento sulla “autocertificazione” che viene fatta firmare ai cittadini durante i controlli. Essa è sempre più “complicata”: secondo i moduli oggi disponibili sul sito del Ministero dell’Interno richiama vari disposizioni normative, anche regionali, nonché richiama ancora l’art. 495 c.p. A giudizio di chi scrive, l’obbligare i cittadini a dichiarazioni “autoaccusanti” o comunque a presentare alla P.G. tale autocertificazione è illegittimo ed ingiusto.
Ciò, poiché tale autocertificazione riporta l’art. 495 c.p. il quale, tuttavia, non si applica assolutamente alle dichiarazioni mendaci in un atto pubblico, ma solo alle dichiarazioni mendaci riguardanti qualità personali relative alla identificazione (nome, cognome, stato civile etc.). Tale assunto è confermato dalla giurisprudenza più attenta oltre che dalla Procura di Genova, espressasi nella già richiamata nota del 16 marzo 2020.
La c.d. “autocertificazione”, almeno nella versione odierna, richiama gli art. 46 e 47 del D.P.R. n. 445/2000. Tuttavia essi disciplinano, come emerge dalla lettura dello stesso D.P.R., le dichiarazioni rese nei rapporti con la pubblica amministrazione (cosa che non è la P.G. operante) e inoltre sono “sostitutive di certificazioni”(si pensi all’autocertificazione di un titolo di studio o di una qualità personale). Orbene, non si capisce quale “certificazione” prevista dalla legge stia sostituendo colui che, andando al lavoro, a fare la spesa o da un parente malato, autocertifichi il fatto. La risposta è “nessuna” perché nessuna certificazione è prevista dalla legge in tal senso e nessun obbligo di firmare detta autocertificazione è previsto dal nostro ordinamento, né, a giudizio di chi scrive, può essere – ad oggi - previsto, dati i principi costituzionali vigenti in tema di diritto alla difesa e giusto processo. Non solo: in caso di dichiarazione mendace non sarebbero applicabili le sanzioni penali di cui all’art. 483 c.p. (poiché tale autocertificazione non è obbligatoria e non è “finalizzata a provare la verità dei fatti esposti”, come notato dalla Procura di Genova del 16 marzo 2020) né quelle dell’art. 495 c.p. (che, come si è visto, riguarda le dichiarazioni mendaci in tema di identificazione).
La vicenda merita un’ultima nota prettamente pratica; fermo restando che le sanzioni amministrative – a parere di chi scrive – sono senza dubbio più efficaci (perché toccano il portafoglio) rispetto alle contravvenzioni penali, esse – però – devono pur sempre essere sostenute dai principi costituzionali e comunitari.
Sembra, difatti, assai incredibile costringere decine di migliaia di operanti a vigilare sulla corretta compilazione di un modulo prestampato di cui il quisque de populo – probabilmente – nemmeno riesce a comprendere appieno il significato (come a esempio il richiamo al D.P.R. 445 del 2000 o, più propriamente, ai vari atti amministrativi). Sarebbe stato, forse, più logico e costituzionalmente corretto lasciare ai predetti operanti la discrezionalità di richiedere la compilazione o l’esibizione di tale modulo autocertificativo a seconda dei soggetti sottoposti ai controlli e a seguito di una sommaria verifica dello stato dei fatti.
Si pensi a quanto avviene comunemente in sede di accertamento del tasso alcolemico: le ff. oo. verificano ictu oculi lo stato psico-fisico del conducente e, in caso di sospetti, procedono agli esami strumentali. L’attuale situazione, invece, porta a veri e propri blocchi del traffico nei quali le Forze di polizia sono costrette, in modo inquisitorio, a richiedere al cittadino dichiarazioni probabilmente nemmeno utilizzabili nel successivo procedimento amministrativo o in un successivo giudizio penale. In quest’ultimo ambito, infatti, vige il noto principio del diritto alla non auto-incriminazione (da qui appunto il titolo dell’articolo nemo tenetur se detergere), richiamato anche dal quinto emendamento della Costituzione statunitense. Secondo tale principio, non solo l’indagato-imputato può non auto-incriminarsi, ma, soprattutto, può mentire. Diritto platealmente violato dalla nuova “autocertificazione” che impone di dire la verità, anche a discapito dei principi costituzionali.
Si pensi, poi, ai tanti cittadini che sono costretti ad uscire (legalmente) di casa: dai medici ai postini, passando per tutti gli impiegati ai servizi di prima necessità. Il citato meccanismo porta al perverso risultato per cui essi possono essere fermati più e più volte e costretti – ognuna di esse – a sottoscrivere un modulo diverso. Se non fosse vero, penseremmo ad una opera di Kafka.
Un ultimo cenno merita, infine, la procedura di accertamento delle sanzioni amministrative: come già richiamato in precedenza, ci si chiede come possano le Prefetture (e per loro gli Agenti accertatori) verificare se in quel luogo e in quel giorno un cittadino stesse davvero andando dalla madre a portarle la spesa o dal medico per un dolore al collo. È indubbio che la situazione emergenziale richieda disciplina, polso, intolleranza verso i furbetti e, soprattutto, concretezza. Tuttavia chi scrive è fortemente convinto che i nostri principi costituzionali e comunitari ben potrebbero fornire i mezzi giuridici per fronteggiare l’emergenza senza intaccare uno dei Testi normativi primari comunemente ritenuto tra i migliori del mondo, la nostra Costituzione, e senza relegare a mero spettatore colui che (quasi) tutto può: il Parlamento.