Trasferimento del lavoratore e relativa motivazione

Trasferimento del lavoratore e relativa motivazione

1.Considerazioni preliminari e di merito

Va premesso che il trasferimento dei lavoratori da una sede ad altra dell’azienda (rectius, da un’unità produttiva ad altra funzionalmente autonome tra di loro, ex art. 35, l. n. 300/1970, cd. Statuto dei lavoratori) è disciplinato dall’art. 2103 cod. civ. che, al comma 8, così dispone «Il lavoratore non può essere trasferito da un'unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive».

Venerdi 28 Gennaio 2022

Con due recenti sentenze la Cassazione (8 novembre 2021 n. 32506 e n. 19143 del 6 luglio 2021), si è nuovamente espressa in ordine all’onere datoriale di motivazione delle ragioni che hanno determinato la decisione aziendale di trasferire il lavoratore da una sede ad un’altra della stessa azienda.

La sentenza n. 32506/2021 ha riguardato un trasferimento individuale da una sede del Centro sud (Napoli) a Milano di un dipendente, trasferimento necessitato - ad avviso aziendale, peraltro riscontrato non pretestuoso ma realistico dalla sentenza, pertanto condiviso - da una significativa riduzione delle attività del settore "Health Care" del Centro-Sud Italia, implicante una sensibile diminuzione di fatturato determinativa di una riduzione di organico, con ottimizzazione di impiego del personale, il tutto giustificato anche in ragione delle politiche regionali di austerity introdotte nell'anno di riferimento. L’antecedente sentenza n.19143/2021 ha, invece, riguardato un trasferimento collettivo attuato da un’azienda, che aveva spostato in altra sede un intero settore.

Nella fattispecie del trasferimento collettivo esaminata da Cass. n.19143/2021, i lavoratori ricorrenti contro il trasferimento hanno eccepito che il datore non aveva comunicato i motivi del trasferimento e non aveva altresì indicato loro le modalità di attuazione dei criteri di scelta (carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive ed organizzative) mutuati dalla legge n. 223 del 1991 (disciplinante il licenziamento collettivo), che - a loro avviso - sarebbero stati recepiti dal contratto collettivo applicato dall’azienda datrice di lavoro. Mentre la Corte territoriale ha accolto le loro argomentazioni, la Cassazione è andata di diverso avviso – avendo, peraltro, ritenuto inapplicabile, per il trasferimento, il richiamo ai criteri di scelta ex lege n. 223/1991 disposti per il licenziamento – giungendo, pertanto, a censurare le conclusioni raggiunte dalla Corte d’appello.

Nella fattispecie di cui alla sentenza n. 32506/2021 – riguardante un trasferimento individuale da Napoli a Milano per riduzione di attività nella sede originaria – la Cassazione ha invece confermato le argomentazioni della Corte d’appello che aveva ritenuto legittimo il trasferimento e disatteso il ricorso del dipendente.

2. I principi di diritto asseriti in motivazione dalla Corte di Cassazione nelle due sentenze

Le motivazioni di rigetto dei ricorsi dei lavoratori - avverso i provvedimenti aziendali di trasferimento - sono pressoché identiche per entrambe le fattispecie e sono sintetizzabili nelle seguenti affermazioni:

a) quanto all’eccepita mancata (o carente) comunicazione aziendale dei motivi del trasferimento, entrambe le sentenze fanno rilevare che: «la comunicazione del trasferimento del lavoratore, come pure la richiesta dei motivi e la relativa risposta, in difetto di una diversa previsione, sono assoggettate al principio generale di libertà delle forme» e che, pertanto, salvo che l’obbligo della forma scritta non risulti introdotto dal ccnl ad essi applicato, anche la forma orale é da considerarsi legittima; asserendo altresì che il provvedimento aziendale che dispone il trasferimento «non deve necessariamente contenere l’indicazione dei motivi, né il datore di lavoro ha l’obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda (…), salvo che sia contestata la legittimità del trasferimento, avendo in tal caso il datore di lavoro l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e non potendo limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte» costituita dal lavoratore; precisando, comunque, che Il controllo giurisdizionale sulla legittimità del provvedimento datoriale, a norma dell’art. 2103 cod. civ., deve effettuarsi anche alla luce dei principi generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 del cod. civ. .

La ragionevole sussistenza – a nostro avviso – di un onere datoriale di comunicazione (anche sommaria e non necessariamente circostanziata) delle ragioni aziendali giustificative dello sradicamento/allontanamento geografico del lavoratore dall’originaria ed abituale sede di lavoro, ci porta, umanamente ed eticamente, ad esprimere un dissenso (seppure del tutto improduttivo dal lato giuridico) dal precitato orientamento, la cui affermazione giuridicamente più rigorosa va fatta risalire alle motivazioni rese, eminentemente, da Cass. 5.1.2007 n. 43. Motivazioni, poi, condivise da sentenze successive della Suprema corte e, pertanto, costituente oramai orientamento consolidato, secondo cui non sussisterebbe un obbligo datoriale di “contestuale” notifica al lavoratore dei motivi giustificativi del trasferimento, stante la  successiva comprovabilità datoriale delle esigenze giustificative in giudizio Comprovabilità che legittimerebbe la comunicazione (sempre successiva, cioè ex post, ed in giudizio) dei motivi  al lavoratore solo dietro espressa richiesta dello stesso (1). Sempreché – è stato detto dalla Cassazione – la richiesta venga avanzata dal lavoratore con un ricorso in giudizio intrapreso entro il termine di decadenza di 8 giorni dalla comunicazione del provvedimento di trasferimento (elevati a 15 dalla l. n. 108/’90, che ha riscritto l’art. 2 della l. n. 604/’66), fondandosi, a tal fine, sul richiamo analogico dell'art. 2, L. n. 604/'66, attinente ai motivi del licenziamento;

b) fatta salva l’ipotesi di ricorrenza di previsioni contrattuali di miglior favore per il prestatore d’opera, impositive di oneri datoriali aggiuntivi a quelli legali, il trasferimento del lavoratore è condizionato dalla legge esclusivamente alle «comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive» aziendali, ove la Cassazione ritiene che per «comprovate» si debbano intendere quelle riscontrate, ex post, sussistenti dal magistrato cui il lavoratore abbia ricorso in contestazione con l’azienda, e non già quelle che dovrebbero essere palesate, ex ante, dal datore di lavoro ai fini di un riscontro della loro fondatezza da parte del candidato al trasferimento. Questa rigorosa interpretazione è stata sostenuta non solo dalla Cassazione a sezioni semplici ma anche dalla Cassazione a sezioni unite fin dal 1986 (2), seguita da diverse altre, comprese la n. 32506/2021 e la n. 19143/2021 di cui ci stiamo occupando specificatamente,

Va soggiunto che, in dottrina - relativamente all’interpretazione da fornire all’aggettivo “comprovate”- si sono registrate opinioni difformi da quelle della Suprema corte; tra tutti si menziona l’opinione del Prof. Pera – giuslavorista fra i più autorevoli e vero maestro del diritto del lavoro – che ha, ragionevolmente e pragmaticamente, affermato quanto segue: «Inoltre le esigenze tecniche debbono essere ‘comprovate’. Se vogliamo dare un senso alla parola, è da escludere ch’essa possa significare prova di dette esigenze in giudizio, nell’eventuale controversia; perché qui, secondo i principi ed in relazione al disposto, l’onere della prova della sussistenza del giustificato motivo grava sul datore di lavoro. Pertanto è da ritenere che il giustificato motivo debba essere “dedotto stragiudizialmente al fine di consentire al lavoratore di controllare la causale dedotta»(3).

Tuttavia, in caso di controversia sottoposta al vaglio giudiziale, quel che più conta è l’oramai consolidata interpretazione della Cassazione che, sebbene meno condivisibile e oggettivamente di sfavore per il lavoratore, appare più rispondente alla lettera della legge che il magistrato è tenuto ad applicare, giacché “comprovate” presuppone il giudizio di un soggetto/organismo terzo che valuti le contrapposte posizioni e si esprima in merito; altrimenti il legislatore dell’art. 2103 cod. civ. avrebbe usato l’aggettivo “documentate”, o “notificate” per imporre al datore di lavoro l’obbligo - del tutto umanamente e civilmente condivisibile in fatto - di comunicare al candidato al trasferimento le ragioni della determinazione aziendale, al fine di rendergliele valutabili per un consenso o per un dissenso. In quest’ultimo caso risolvibile in un eventuale, successivo, giudizio.

Ancora, e come abbiamo già anticipato, secondo la Cassazione,  la comunicazione del trasferimento sarebbe libera nella forma - cioè non necessariamente “scritta”- sussistendo tale obbligatorietà per gli atti giuridici specificatamente indicati dalla legge . Tanto meno sussisterebbe,  per il datore di lavoro, un onere di «tempestività» di risposta scritta, una volta che la tempestività risulti assolta dalla comunicazione orale dei motivi del trasferimento (4).

Tornando ai principi di diritto espressi in motivazione dalle due sentenze di Cassazione di cui si discute (n. 19143 del 6 luglio 2021, rinvenibili altresì nella successiva n. 32506 dell’8 novembre 2021), va detto che, in aggiunta, è stato dalle medesime asserito - per contestare e disattendere le argomentazioni della difesa del lavoratore in giudizio - che: «il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato deve essere, infatti, diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa, e, trovando un preciso limite nel principio di libertà dell'iniziativa economica privata (garantita dall'art. 41 Cost.), non può essere dilatato fino a comprendere il merito della scelta operata dall'imprenditore per verificare se essa sia idonea, o meno, a soddisfare tali esigenze o se sia inevitabile»; quest'ultima, non deve presentare necessariamente i caratteri dell'inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una delle possibili scelte, tutte ragionevoli, che il datore di lavoro può adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo»; che:«in conseguenza neppure è ravvisabile un onere del datore di lavoro analogo a quello - invece, sussistente in caso di licenziamento per soppressione del posto di lavoro - di provare l'inutilizzabilità del dipendente nella sede originaria in altra collocazione» (cd. repêchage); che: «in particolare deve ritenersi che l'art.2103 cod. civ., richieda come unico presupposto di legittimità la sussistenza di "comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive", restando pertanto circoscritto il controllo giudiziale all'accertamento del nesso di causalità tra il provvedimento di trasferimento e le predette ragioni poste a fondamento della scelta imprenditoriale, senza che sia sindacabile il merito di tale scelta al fine di valutarne l'idoneità o inevitabilità».

3. Le previsioni attenuanti il rigore legislativo-giurisprudenziale, introdotte nei CCNL

Quanto in precedenza delineato costituisce rigorosa applicazione interpretativa delle condizioni legittimanti il trasferimento del lavoratore da parte dell’impresa, titolare del potere organizzativo dei fattori costitutivi della stessa, comprese le risorse umane ivi impiegate.

Compito della giurisprudenza è quello di fornire una interpretazione, la più aderente possibile, alla volontà del legislatore quale esplicitata nella formulazione della norma. Quindi, se rigidità e rigorosità può essere riscontrata – come indiscutibilmente risulta, a nostro avviso - nelle precitate formulazioni interpretative dell’art. 2103 cod. civ., disciplinante il trasferimento, l’addebito va fatto risalire direttamente, ed in primis, al legislatore codicistico, evidentemente intenzionato a minimizzare gli ostacoli alla discrezionalità gestionale dell’impresa, anche mediante una marginalizzazione delle esigenze individuali e familiari del lavoratore fatto oggetto di trasferimento da una sede all’altra.

Nell’asserire i principi di diritto enunciati al paragrafo precedente, la Cassazione ha specificato implicitamente che gli stessi sono applicabili in linea generale, in quanto discendenti dalla norma legale, vincolanti «in difetto di una diversa previsione»; locuzione utilizzata quasi per sollecitarne la deroga da parte dei soggetti a ciò abilitati, cioè a dire le Oo. Ss. e le associazioni datoriali, tramite apposite e più circostanziate pattuizioni, raggiungibili nella stipula dei contratti collettivi.

Nella stragrande maggioranza dei settori industriali, tale rigidità o rigorosità non è stata affatto mitigata dagli agenti contrattuali contrapposti per comodità/resistenza della parte datoriale, mentre una ragionevole attenuazione la si riscontra nella formulazione degli articoli disciplinanti il “trasferimento” nei settori bancario e assicurativo.

Nel vigente (e precedenti) ccnl del settore creditizio è reperibile uno specifico articolo afferente ai “Trasferimenti” di personale, così formulato:

«Trasferimenti: 1. Il trasferimento del lavoratore/lavoratrice ad unità produttiva situata in comune diverso, può essere disposto dall’impresa solo per comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive. Nel disporre il trasferimento l’impresa terrà conto anche delle condizioni personali e di famiglia dell’interessato.

2. Il trasferimento deve essere comunicato con un preavviso non inferiore a 15 o 30 giorni di calendario a seconda che la distanza per la piazza (per il comune) di destinazione sia rispettivamente inferiore o superiore ai 30 km.

3. Nei confronti del lavoratore/lavoratrice che abbia compiuto 45 anni di età ed abbia maturato almeno 22 anni di servizio, il trasferimento non può essere disposto senza il consenso del lavoratore/lavoratrice stesso.

4. La disposizione di cui al comma 3 non si applica nei casi di trasferimento ad unità produttiva, situata in comune diverso, che disti meno di 30 km. e, in ogni caso, al personale preposto o da preporre a succursali comunque denominate.

5. Se il trasferimento comporta l’effettivo cambio di residenza, il lavoratore/lavoratrice trasferito ha diritto al rimborso delle spese e al pagamento delle indennità di seguito indicate (…)».

La formulazione – pur sempre incrementabile sul versante del c.d. favor lavoratoris a beneficio dei prestatori d’opera – costituisce la migliore riprova dell’assolvimento del loro compito ed impegno da parte delle associazioni sindacali del settore (congiunta ad un’apprezzabile sensibilità delle controparti associative datoriali, su questo singolo istituto), dispiegato dalle Oo.Ss. nell’ottica di circoscrivere gli spazi di discrezionalità aziendale che, qualora eccessivi, risultano pregiudizievoli oltre misura per le normali esigenze o aspettative di stabilità individuale e familiare dei lavoratori, in modo particolare di coloro che per età ed anzianità aziendale hanno radicato, in una certa città ed in un certo ambiente, la loro esistenza.

4. Conclusioni

Il sopra riferito orientamento della magistratura in ordine alla vertenzialità sul trasferimento, ci porta a concludere che il suddetto istituto costituisce, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato – unitamente al conferimento dei superminimi e alle promozioni a scelta discrezionale (cioè agli avanzamenti di carriera non condizionati da procedure contrattuali volte a trasformarle in promozioni per merito comparativo, sulla base di seri e oggettivi fattori di valutazione sindacabili anche giudizialmente) – uno dei capisaldi della discrezionalità gestionale aziendale.

Infatti – salvo previsioni pattizie più astringenti, reperibili in un’assoluta minoranza dei contratti collettivi aziendali e/o nazionali – il trasferimento del lavoratore dipendente può essere disposto anche solo oralmente, con comunicazione scarna circa la rispondenza alle effettive (o solo dichiarate) ragioni organizzativo-produttive legittimanti la decisione datoriale che - qualora ritenuta dal destinatario del trasferimento inadeguata, irragionevole o pretestuosa - potrà contestarla solo tramite ricorso in giudizio. Nel frattempo egli è tenuto a recarsi con (relativa) immediatezza nella sede di destinazione, per ivi attendere, qualora l’abbia contestata giudizialmente, il responso del magistrato che qualifichi illegittimo (o legittimo) il suo spostamento geografico. Non potrà assolutamente rifiutarsi di prendere servizio nella sede di nuova destinazione, pena l’incorrere in un procedimento disciplinare per insubordinazione, normalmente destinato a concludersi con il licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Anche qualora al trasferimento di sede si accompagni – come non é peregrino ipotizzare - la sua assegnazione ad un ruolo ed a mansioni deteriori rispetto a quelle disimpegnate nella sede di provenienza – cioè a dire il lavoratore subisca altresì un demansionamento – la magistratura ha stabilito che il rifiuto di eseguire l’ordine datoriale costituisce comportamento unilaterale illegittimo e sanzionabile anche con il licenziamento, giacché assunto preventivamente (alla) e indipendentemente dalla valutazione del magistrato in ordine alla giustificatezza (o meno) delle determinazioni datoriali. Pertanto, solo in caso di accertata ingiustificatezza della disposizione aziendale da parte del magistrato, il lavoratore fruirà dell’ordine giudiziale di reintegra nella sede di provenienza e del risarcimento degli eventuali danni sofferti.

A conferma di quanto sopra sintetizzato, si riferisce - a titolo esemplificativo – l’iter giudiziario di una fattispecie di rifiuto al trasferimento (da Montesilvano/Abruzzo a San Donato Milanese/Lombardia), posto in essere da un dipendente  di una società di perforazione pozzi petroliferi (inquadrato nell’area A2) il quale - a causa della conseguita inabilità specifica al lavoro in precedenza disimpegnato - non poteva più essere impiegato, secondo l’azienda, nella sede originaria di Montesilvano, per cui era stato trasferito d’imperio alla sede di San Donato Milanese, per lo svolgimento delle deteriori ed inferiori mansioni di fattorino (inquadrate nella sottostante area A1), senza richiedere il suo consenso al demansionamento. La Corte d’Appello de L’Aquila aveva pacificamente convenuto sulla sussistenza della dequalificazione accompagnante il trasferimento e, quindi, aveva ritenuto illegittimo il trasferimento dequalificante, ma aveva giudicato la mancata richiesta  aziendale del consenso alla dequalificazione quale  carenza tale da non legittimare il rifiuto da parte del lavoratore, in ragione della natura di inadempimento «parziale» (perdurando l’obbligazione retributiva e contributiva da parte della datrice di lavoro), a fronte della reazione del lavoratore, giudicata di inadempimento «totale», rinvenuta nel non presentarsi nella sede di destinazione e nel non dichiararsi disponibile a continuare a fornire la prestazione, in mansioni dequalificate di fattorino, nella sede originaria di Montesilvano. Ragioni, per le quali era stato licenziato per reiterata assenza ingiustificata conseguente al rifiuto di trasferirsi. 

La Corte d’appello de L’Aquila, quindi, evidenzia come il lavoratore - a fronte dell'illegittimo trasferimento (in quanto dequalificante, senza consenso), - aveva reagito, in applicazione dell'art. 1460 cod. civ. (inadimplenti non est adimplendum), non presentandosi nella nuova sede e al tempo stesso richiedendo il trattamento contrattuale per risoluzione del rapporto in conseguenza della non accettazione del trasferimento. Tale reazione, tuttavia – ad avviso della Corte - non poteva essere ritenuta proporzionata alla (ritenuta scarsa) gravità dell'inadempimento della controparte datoriale, il quale consisteva, non già nell'avere - senza ragione - posto in essere la dequalificazione, ma nella violazione dell'obbligo di richiedere preliminarmente il consenso del lavoratore all’assegnazione delle inferiori mansioni, per cui non si trattava di inadempimento particolarmente grave, mentre tale era quello del dipendente, che si era rifiutato di presentarsi nella nuova sede di lavoro, senza peraltro offrire la propria prestazione nella sede di provenienza. Questa reazione – il rifiuto al trasferimento - valutata sproporzionata dalla Corte, giustificava, pertanto, il licenziamento. Approdata in Cassazione la fattispecie in questione, con sentenza n. 43/2007, la Suprema corte - nel condividere l’impostazione della Corte d’Appello de L’Aquila ed in armonia con i precedenti di Cass. 9290/04, 8268/04, 1912/98, 2095/94, 4572/86 – sancì il principio, tuttora permanente ed incontestato, secondo cui: «Il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione  inadimplenti non est adimplendum, - cioè la valutazione di legittimità (o meno) del rifiuto di adempiere ad una richiesta illegittima (n.d.r.) - deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse. Qualora rilevi che l’inadempimento della parte (datoriale, in fattispecie, n.d.r.) - nei cui confronti è opposta l’eccezione di inadempimento (dal lavoratore, in fattispecie, n.d.r.) - non è grave ovvero ha scarsa importanza, deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia in buona fede e, quindi, non sia giustificato».

Con la consequenziale dichiarazione di legittimità, e conferma, del licenziamento del lavoratore, nel caso esaminato.

Prof. Mario Meucci - Giuslavorista

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1 Così Cass.14. 7. 2006, n. 16015, Cass.  n. 9290/04,  Cass. n. 8268/04,  Cass. n. 12812/99,  Cass. n.1912/98, Cass. n. 4823/96,  Cass. n. 909/95, Cass. n. 1563/94, Cass. n. 11339/92Cass. n. 9011/91, Cass. n. 480/89,  Cass. n. 167/88, Cass. n. 9276/87, Cass. n. 6400/87,  Cass. Su, n. 4572/86.

2 Cass. sez. un. 15.7.1986 n. 4572  nonché sez. lav. 26.1.1995 n.909, rispettivamente in Giust. civ. 1987, I, 392 (con nota di Pascucci P.) e in  Not. giurisp. lav.1995, 6. Conf. Cass. n. 480/1989, in Not. giurisp. lav. 1989, 6. Tale orientamento è stato riaffermato da Cass. n. 914/1999, Cass. n.109/2004,  e più di recente, nel nuovo secolo, da Cass. 5.1.2007, n. 43 (est. La Terza).

3 Cosi Pera G.,  Diritto del lavoro, Padova 1996, 450.

4 Così Cass. 5.1.2007 n. 43, cit., cui adde (tra le varie) Cass. 3.3.1994, n.2095 in Dir.prat.lav. 1994, 24,1663.

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