Due dati sono incontrovertibili.
Il primo è che, in forza dell’art. 17, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008, “il datore di lavoro ha l'obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda e, all'esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi, all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati” (così, ad es., Cass. 25 giugno 2021 n. 24822).
Secondo dato: l’art. 29, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, nel tentativo di agevolare il datore di lavoro, prevede che egli effettui la valutazione dei rischi ed elabori il relativo documento in collaborazione con l’RSPP, oltre che con il medico competente (da nominare, quest’ultimo, stando all’art. 14, comma 1, lettera a, D.L. 4 maggio 2023 n. 48 in corso di conversione al Senato, anche “qualora richiesto dalla valutazione dei rischi”).
Resta il fatto che oggi come oggi, nelle aziende, nelle società per azioni così come nelle imprese pubbliche, il datore di lavoro si individua a prescindere dal possesso di competenze tecniche. Ed è facile prevedere che non basterà nemmeno la formazione del datore di lavoro pur prevista dall’art. 37, comma 7, D.Lgs. n. 81/2008, modificato dalla Legge n. 215/2001, sulla base di un Accordo Stato-Regioni peraltro non ancora adottato malgrado la scadenza del termine del 30 giugno 2022. Né basterà quel comma 4-bis inserito dal D.L. Lavoro nell’art. 73 D.Lgs. n. 81/2008 che pur si preoccupa di imporre al “datore di lavoro che fa uso delle attrezzature che richiedono conoscenze particolari di cui all'articolo 71, comma 7” di provvedere “alla propria formazione e al proprio addestramento specifico al fine di garantire l'utilizzo delle attrezzature in modo idoneo e sicuro”. Si spiega allora come mai alcune pronunce della Corte di Cassazione siano venute in soccorso del datore di lavoro, erigendo un argine difensivo. Pronunce per di più particolarmente autorevoli.
Per prima, la celebre sentenza Lovison del 21 dicembre 2012 n. 49821 si rappresentò il "caso del SPP che manchi di informare il datore di lavoro di un rischio la cui conoscenza derivi da competenze specialistiche", e sostenne che, "in situazioni del genere, pare ragionevole pensare di attribuire, in presenza di tutti i presupposti di legge ed in particolare di una condotta colposa, la responsabilità dell'evento ai componenti del SPP", sotto pena altrimenti "di far gravare sul datore di lavoro una responsabilità che esula dalla sfera della sua competenza tecnico-scientifica".
Per mano del medesimo estensore, nel caso ThyssenKrupp, la Corte Suprema, addirittura a Sezioni Unite, nella sentenza del 18 settembre 2014 n. 38343 misero in luce la responsabilità del RSPP “che manchi di informare il datore di lavoro di un rischio la cui conoscenza derivi da competenze specialistiche”, e sottolinearono che “una diversa soluzione rischierebbe di far gravare sul datore di lavoro una responsabilità che esula dalla sfera della sua competenza tecnico-scientifica”.
Tutto bene allora per il datore di lavoro? Non proprio. Perché questa apertura verso il datore di lavoro non trova riscontro in una linea giurisprudenziale eloquentemente abbracciata pochi giorni or sono da Cass.pen. 18 maggio 2023 n. 21153. La Sez. IV fa riferimento “agli infortuni che siano da ricollegare alla mancata valutazione del rischio ovvero alla mancata adozione delle misure previste nel relativo documento”.
Rileva che “la responsabilità deve essere configurata in capo al datore di lavoro”, e che il RSPP “può essere ritenuto responsabile, in concorso con il datore di lavoro, del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione faccia seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione”. Con riguardo al caso di specie, prende atto che “l'infortunio è stato ricondotto causalmente ad una carente valutazione del rischio collegato alle mansioni svolte dal lavoratore dipendente”, e afferma che “la valutazione del rischio è funzione tipica del datore di lavoro, non delegabile neppure attraverso il conferimento di una delega di funzioni ad altro soggetto e le eventuali carenze nell'attività di collaborazione alla redazione del DVR da parte del RSPP possono, al più, comportare una responsabilità concorrente, ma non esclusiva, di quest'ultimo”.
Ed altrettanto eloquente è Cass.pen. 5 giugno 2023, n. 23986 che, nel confermare la condanna dell’amministratrice delegata e dell’RSPP di un’azienda alimentare per l’infortunio occorso a un lavoratore addetto a un macchinario privo di adeguata protezione, sottolinea che l’RSPP, “pur svolgendo all'interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l'obbligo giuridico di adempiere diligentemente l'incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli”. Ma subito aggiunge che “il datore di lavoro, avvalendosi della consulenza del RSPP, ha l'obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda e, all'esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il DVR all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori”. Ed è tutto dire che viene ritenuta la responsabilità dell’amministratrice delegata, pur se “il ruolo datoriale ricoperto era cessato qualche giorno prima dell'infortunio”.
Nina Catizone -Consulente del Lavoro