Giustizia Riparativa e prime disapplicazioni

Giustizia Riparativa e prime disapplicazioni

La Corte d’Assise d’Appello di Milano ha rigettato l’istanza di accesso alla Giustizia Riparativa avanzata dalla difesa di Alessandro Impagnatiello, condannato all’ergastolo per il cruento omicidio della compagna, Giulia Tramontano, incinta di 7 mesi

Sabato 12 Luglio 2025

Secondo la decisione, non ancora pubblicata, “I motivi posti a fondamento della istanza della difesa”, ovvero“la collaborazione prestata”da Impagnatiello, “la sua immediata assunzione di responsabilità, nonché il rincrescimento esternato alla prima occasione di contraddittorio processuale”, sono stati ritenuti del tutto “irrilevanti” dalla Corte.

In un comunicato stampa, la Corte milanese sebbene abbia constatato l’assenza del “pericolo per le parti” e del “pericolo per l’accertamento dei fatti”, che costituiscono due dei parametri di valutazione per l’accesso alla Giustizia Riparativa, ha anche preso atto della “indisponibilità irretrattabile delle persone direttamente danneggiate dai reati commessi a prendere parte all'eventuale programma riparatorio”, così valorizzando le ragioni delle Vittime ovvero dei Familiari, in linea con la tutela prevista dalla Riforma Cartabia.

Pertanto, la Corte ha ritenuto che “per affermare una effettiva utilità alla risoluzione delle questioni derivanti dai reati commessi fossero decisivi ‘i moventi’“ che hanno portato l’ex barman 32enne, condannato anche in Appello, lo scorso 25 giugno, all’ergastolo per omicidio pluriaggravato, interruzione non consensuale di gravidanza e occultamento di cadavere, ad uccidere la compagna incinta e poi a tentare di disfarsi del corpo.

Secondo la importante decisione, ”i moventi o impulsi criminosi posti in atto, se rielaborati criticamente da Impagniatiello e portati a sua giustificazione della scelta di un percorso di riconciliazione sarebbero valsi a motivare la utilità del percorso di Giustizia Riparativa, ma così “non è stato”

Giulia Tramontano era stata uccisa dal convivente il 27 maggio 2023, mentre era incinta del suo primo figlio.

La richiesta era stata avanzata dal difensore delll’imputato lo scorso 25 giugno, nel corso del processo di appello per la morte di Tramontano, uccisa con 37 coltellate mentre al settimo mese di gravidanza dopo che aveva scoperto il tradimento di Impagnatiello con un’altra donna.

Il difensore del condannato aveva chiesto di poter accedere al programma di Giustizia Riparativa anche per mezzo di una “vittima surrogata” ossia con una procedura che prevede la presenza di una vittima di reati analoghi, nel caso in cui i Familiari della vittima decidano di non partecipare.

In sede di udienza, il P.M. E gli avvocati dei Familiari si erano opposti alla richiesta della difesa, sostenendo di non riconoscere i vantaggi che questa avrebbe potuto garantire alla parte offesa.

Proprio alla luce dell’indisponibilità della Famiglia Tramontano a prendere parte a questo percorso, i Giudici hanno ritenuto che “per affermare un’effettiva utilità alla risoluzione delle questioni derivanti da reati commessi, fossero decisivi i moventi“.

La Vittima aveva appena scoperto il tradimento del suo compagno, impegnato in una relazione clandestina con una collega e le due donne si erano incontrate in un bar di Milano proprio per ricostruire le bugie dell’uomo.

Gulia Tramonttano era rientrata a casa poco dopo e Impagnatiello l’aveva attesa e colpita con 37 coltellate per poi tentare di fare a pezzi il corpo e bruciarlo usando alcool e benzina ma entrambi i tentativi erano falliti.

Nei giorni successivi il cadavere della vittima era stato spostato tra l’abitazione, il garage e la macchina e verrà ritrovato diversi giorni dopo in un’intercapedine tra una fila di box auto ed una recinzione.

Una volta arrestato, Impagnatiello aveva confessato il femminicidio e ricostruito le sue azioni e le accuse avanzate nei suoi confronti erano state di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, futili motivi, crudeltà e dal vincolo della convivenza.

Tuttavia, nonostante la conferma dell’Ergastolo, i Giudici d’Appello hanno escluso l'aggravante della premeditazione affermando che «Quattro ore sono poche” per giustificare tale aggravante sebbene abbia riconosciuto le altre aggravanti.

La decisione, nei primi commenti, è apparsa discutibile a tanti poiché, nonostante l’assassino per mesi avesse lentamente e costantemente avvelenato Giulia facendole ingerire di nascosto un veleno per i topi mentre consolidava una relazione con un’altra donna e nonostante avesse atteso la compagna “per quattro ore” nella loro abitazione aggredendola non appena aveva varcato l’ingresso, secondo i Giudici non vi sarebbero prove per dimostrare una premeditazione dell’omicidio efferato compiuto.

Le motivazioni della sentenza saranno rese note il 15 settembre p.v., ma intanto si può ricordare che, secondo la Cassazione, la premeditazione sussiste quando viene provato che il “proposito omicida risulta «radicato e persistente» e quando tra il momento in cui è stata presa la decisione e l’omicidio sia trascorso un «apprezzabile intervallo temporale».

In tale direzione la difesa aveva affermato che «dalle 15 alle 19 costituiva un lasso di tempo troppo breve per ipotizzare la predisposizione di un agguato», ed in conseguenza, se Impagnatiello avesse davvero premeditato l’omicidio compiuto avrebbe organizzato e fatto meglio come, ad esempio, avrebbe comprato la benzina per bruciare il corpo prima e non dopo.

Inoltre, secondo il difensore, mancherebbe anche l’aggravante della crudeltà, perché la vittima «non aveva avuto il tempo di rendersi conto cosa stava succedendo»(!!).

Infine, l’istanza di accesso alla Giustizia Riparativa, secondo la difesa, troverebbe giustificazione nel fatto che il condannato avrebbe «manifestato piena consapevolezza» del reato commesso e chiesto «scusa» olre ad avviare «un nuovo percorso di vita » per riparare al danno cagionato.

Ma, come innanzi ricordato, la Corte ha rigettato la richiesta sulla base della sua irrilevanza.

Alla medesima decisione di negare il diritto di accesso alla Giustizia Ripaarativa non era, invece, pervenuta la Corte di Assise di Busto Arsizio che con una Ordinanza, che ha avuto un grande rilievo di stampa, riguardante il caso Maltesi, l’imputato era stato ammesso alla Giustizia Riparativa sebbene i Familiari della Vittima e lo stesso Pubblico Ministero si fossero opposti al provvedimento.

  • La discrezionalità delle decisioni

Nondimeno, va sottolineato che il provvedimento emesso da entrambe le Corti d’Assise sia del tutto discrezionale e non impugnabile dalle parti, tranne che con la sentenza definitiva, come stabilito la Suprema Corte in una recente sentenza.

Tra i primi provvedimenti emanati, è, infatti, utile ricordare, per l’interesse mediatico per la vicenda, le motivazioni dell’Ordinanza del 19 settembre 2023 della Corte d’Assise di Busto Arsizio che si è pronunciata sulla richiesta di ammissione ai programmi di Giustizia Riparativa da parte dell’imputato, condannato per il reato di omicidio.

Si legge nell’Ordinanza che, in udienza, ”l’imputato ha ribadito la propria volontà di riparare in concreto alla gravissima condotta posta in essere, sostenendo di avere “un grande bisogno di farlo” e chiedendo alla Corte di permettergli di fare qualsiasi cosa, percorsi, di seguire programmi, qualsiasi cosa sia possibile fare verso i parenti e anche verso altre Associazioni”.

Secondo la Corte Lombarda, l’avvio di un percorso di Giustizia Riparativa, «prescinde dal consenso di tutte le parti interessate e, nel caso concreto, lo svolgimento di un programma di Giustizia Riparativa – laddove ritenuto esperibile dai mediatori anche con “vittima cd. aspecifica” – può comunque essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede, giacché la ratio dell’istituto è quella di ricomporre la frattura che il fatto illecito crea non solo tra autore e vittima del reato, ma anche all’interno del contesto sociale di riferimento».

L’istituto introdotto dalla Riforma Cartabia, infatti, «ha anche, se non soprattutto, natura pubblicistica ed ha lo scopo ulteriore di far maturare un clima di sicurezza sociale, sicché la volontà del legislatore è indubbiamente di incentivare il ricorso a detto strumento, come chiaramente emerge dall’art. 43, comma 4, d.lgs. 150/2022, secondo cui l’accesso ai programmi di Giustizia Riparativa è sempre favorito».

Inoltre, ad avviso della stessa Corte, «la fase processuale in cui l’istanza viene proposta non ha rilievo ai fini della valutazione dell’utilità dell’accesso ad un programma di Giustizia Riparativa, richiesta dal terzo comma dell’art. 129 bis C.P.P., poiché la norma prevede che l’invio al Centro per la Giustizia Riparativa possa essere disposto anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo ed addirittura anche nella fase delle indagini preliminari».

L’Ordinanza motiva il provvedimento ammissivo poiché«lo svolgimento di un programma di Giustizia Riparativa non comporta alcun pericolo concreto per l’accertamento dei fatti – già giudicati in primo grado – e non sussiste neppure un pericolo concreto per gli interessati, pur tenuto conto della presenza di un minore di circa sette anni».

Inutile aggiungere che il provvedimento non ha tenuto conto della opposizione dai Familiari della Vittima, esclusi anche da una qualsiasi impugnazione, come innanzi ricordato.

Sempre dello stesso tenore deve ritenersi l’Ordinanza emessa l‘8 novembre 2023 dalla Corte di Assise di Monza con la quale è stato disposto l’invio al Centro di Milano, per la verifica della fattibilità di un programma di Giustizia Riparativa, di un imputato per l’efferato omicidio del padre, seguito dalla distruzione del cadavere.

Nell’Ordinanza si afferma, in sintesi, che “l’imputato, che fin dalla fase delle indagini aveva collaborato con l’A.G. ammettendo gli addebiti e acconsentendo, tramite i propri difensori, all’acquisizione di tutti gli atti d’indagine, aveva sin da subito espresso il proprio pentimento per il fatto compiuto, mostrando la volontà di risarcire il danno (rinunciando all’eredità prima che intervenisse la pronuncia di indegnità) e di riconciliarsi coi familiari (fratelli della vittima) nonché di proseguire un percorso psicoterapico già intrapreso” (v. Cecilia Pagella in Riv.Sistema Penale).

L’atteggiamento dell’imputato risultava, in tal modo, affine a quello serbato dall’autore dell’omicidio di Carol Maltesi, innanzi citato.

Il procedimento instaurato di fronte alla Corte d’Assise di Monza aveva, inoltre, in comune con il caso Maltesi, il fermo rifiuto dei Familiari della vittima di prendere parte al programma di mediazione eventualmente disposto su istanza avanzata dall’imputato, senza che abbia evitato il rigetto della richiesta, alla luce dell’ampio potere discrezionale riconosciuto dalla norma al Giudice.

Entrambe le Corti hanno sottolineato la natura “pubblicistica” dell’Istituto che avrebbe (anche) lo scopo di riparare la frattura sociale creata dal reato e contribuire a garantire la sicurezza collettiva, anche attraverso esperienze di mediazione penale con i Familiari della Vittima.

Di segno opposto appare, invece. la sentenza emessa dalla Cassazione Penale, Sez. VI,13 giugno 2023,n. 25367 che ha affermato che le nuove previsioni contenute negli artt. 129-bis e 419, comma 3-bis, C.P.P. “non contemplano alcuna ipotesi di nullità nel caso di mancata applicazione“.

In particolare, l’art. 129-bis, “nel prevedere la possibilità che il giudice disponga d’ufficio l’invio delle parti ad un centro per la mediazione, si limita a disciplinare un potere – essenzialmente discrezionale – riconosciuto al giudice, senza introdurre espressamente un obbligo di attivarsi“.

Secondo la Corte, infatti, “l’opzione circa la sollecitazione del procedimento riparativo è dettata da una serie di valutazioni che attengono alla tipologia del reato, ai rapporti tra l’autore e la persona offesa, all’idoneità del percorso ripartivo a risolvere le questioni che hanno determinato la commissione del fatto (!!).

Si tratta di una valutazione che non impone al giudice di avvalersi del richiamato potere, né di motivare la sua scelta, con la conseguenza che nel caso di mancata attivazione del percorso riparativo non è configurabile alcuna nullità, né speciale, né di ordine generale, non essendo compromesso alcuno dei diritti e facoltà elencati all’art. 178,lett.c), C.P.P..“.

Analoghe considerazioni, precisa la Cassazione, “valgono anche in relazione all’omesso avviso in ordine alla facoltà di accedere ai programmi di Giustizia Riparativa contemplato dall’art. 419, comma 3-bis, C.P.P..

La norma, infatti, non prevede alcuna nullità speciale per il caso in cui l’avviso venga omesso, né può ritenersi che l’omissione vada a ledere il diritto dell’imputato di accedere a tale forma di definizione del procedimento“.

Tale adempimento, secondo la S.C.“ha solo una finalità informativa e, peraltro, si inserisce in una fase in cui l’imputato beneficia dell’assistenza difensiva, con la conseguenza che dispone già del necessario presidio tecnico finalizzato alla migliore valutazione delle molteplici alternative processuali previste dal codice, ivi compresa quella di richiedere l’accesso al programma di Giustizia Riparativa “.

Sempre in base allo stesso orientamento, la seconda sezione penale della Suprema Corte, con sentenza n. 6595 del 12 dicembre 2023,ha affermato che “nessuna disposizione prevede specificamente l’impugnabilità dei provvedimenti che negano al richiedente l’accesso ai programmi di giustizia ripartiva”.

Nella motivazione, la Corte ricorda il necessario rispetto del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, espresso dall’art. 568, comma 1,C.P.P. in base al quale è la legge che “stabilisce i casi nei quali i provvedimenti del giudice sono soggetti ad impugnazione e determina il mezzo con cui possono essere impugnati“, che non consente di ritenere impugnabile l’Ordinanza con la quale sia stata rigettata la richiesta di accesso ad un programma di Giustizia Riparativa mutuando il regime d’impugnabilità di provvedimenti diversi.

D’altro canto, tali provvedimenti non sono riconducibili al novero di quelli in materia di libertà personale, in relazione ai quali l’art. 111, comma 7, Cost., ammette la ricorribilità per violazione di legge (“contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge”).

Come già chiarito dalla stessa Suprema Corte, la garanzia costituzionale riguarda i provvedimenti giurisdizionali che abbiano carattere decisorio e capacità di incidere in via definitiva su situazioni giuridiche di diritto soggettivo, producendo, con efficacia di giudicato, effetti di diritto sostanziale e processuale sul piano contenzioso della composizione di interessi contrapposti (Cass.pen., sez.un.,28 maggio 2003, n. 25080).

L’Ordinamento vigente non prevede, pertanto, la possibilità di impugnare, nell’ambito del procedimento/processo penale, i provvedimenti che rigettino le richieste di accesso ai programmi di giustizia ripartiva e tanto meno quelli di accoglimento in danno delle malcapitate Vittime (!!).

La Suprema Corte ha, quindi, enunciato i il seguente principio di diritto:

«La mancata previsione dell’impugnabilità, nell’ambito del procedimento penale, dell’ordinanza che nega all’indagato/imputato l’accesso ad un programma di giustizia ríparativa non pone problemi di legittimità costituzionale, poiché il procedimento riparativo di cui all’art. 129-bis c.p.p. non ha natura giurisdizionale, concretizzandosi in un servizio pubblico di cura relazionale tra persone, disciplinato da regole non mutuabili da quelle del processo penale, che talora risultano incompatibili con queste ultime».

  • Dubbi di costituzionalità della norma

Anche alla luce dei provvedimenti innanzi richiamati, non a caso la Dottrina prevalente denuncia la incostituzionalità dell’art.129 Bis C.P.P. e sulla quale ssi attende una decisione della Corte Costituzionale ovvero una modifica da parte del Legislatore.

Sta di fatto che la norma contestata attribuisce una sorta di “potere” di iniziativa all’A.G. per spingere l’indagato/imputato e la Vittima ad intraprendere un percorso ripartivo ma, nel contempo, un potere di veto che mal si concilia con la volontà del Legislatore di introdurre una composizione amichevole del procedimento penale che giovi alle ragioni morali ed economiche delle Vittime del reato, sulla base di una volontà unanime manifestata senza alcuna costrizione di sorta.

Si teme, inoltre, che così procedendo, l’A.G. sia stata dotata di un improprio “strumento di pressione”sulle legittime opzioni di strategia difensiva spettanti all’imputato e la convinzione che risultino violate la presunzione di innocenza, la parità tra le parti e il diritto di difesa, costituzionalmente tutelati, oltre alle ragioni delle Vittime coinvolte senza alcun potere di impugnativa del provvedimento di ammissione allorchè appaia lesivo delle ragioni delle stesse, per le ragioni innanzi esposte.

Ne costituisce riprova il fatto che compete solo al Giudice (o al Pubblico Ministero) “valutare, in positivo, se il programma di Giustizia Riparativa, prospettato dall’imputato, possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto di reato ed escludere, in negativo, che l’invio possa comportare pericolo concreto per gli interessati o frustrare l’acquisizione della prova in funzione dell’accertamento dei fatti” (v. Ufficio del Massi mario della Cassazione, pag. 321) fermo restando che, stante il principio di tassatività delle impugnazioni, non è possibile proporre alcun rimedio avverso un siffatto provvedimento, atteso che il precetto normativo in esame non ne prevede alcuno (!!).

Va pure ricordato che la norma regolatrice non prevede neppure alcun diritto di opposizione della Vittima, neppure in presenza della gravità del reato commesso dall’imputato, il che rende possibile fruire del procedimento “inaudita altera parte”con grave violazione dei diritti alla stessa spettanti e, come tali, riconosciuti dalla stessa Riforma e dalle Direttive Europee.

Inoltre, altri commentatori mettono in dubbio, in base ai principi costituzionali del c.d. Giusto Processo, la legittimità della scelta legislativa di rendere operante la normativa già nella fase della cognizione, vale a dire prima che la responsabilità per il reato contestato sia stata accertata in via definitiva e, comunque, non in base ad un ravvedimento effettivo dell’ imputato, prima o dopo la condanna e la espiazione di parte della pena nei casi più gravi che suscitano allarme sociale, e comunque, mancando nella norma un apposito richiamo in tal senso.

Una tale opinione può, invero, ritenersi fondata anche sulla base della previsione, contenuta nell’art.129-bis C.P.P, laddove la norma consente all’Autorità Giudiziaria procedente (Pubblico Ministero e Giudice) di favorire ovvero negare l’accesso alla Giustizia ripartiva a giudizio insindacabile degli stessi, come diremo oltre.

Si sarebbe, comunque, in presenza di una disparità di trattamento ex art 3 della Cost. tra l’imputato ed i Familiari della Vittima, che lascia alquanto perplessi sulla legittimità costituzionale della decisione, ed in spregio al principio di parità fra le parti ex art.111 comma 2 della Costituzione, che disciplina il c.d. Giusto Processo (!!).

Per contro, va sottolineato, in proposito, che la Direttiva UE 2022/29 riconosce alla Vittima numerosi diritti in tutto l’arco processuale, inclusa l’esecuzione penitenziaria, dal diritto ad ottenere dettagliate, comprensibili informazioni sul proprio caso al diritto di accesso ai servizi di assistenza, dai numerosi e significativi diritti di partecipazione al procedimento penale e al diritto ad una variegata protezione.

In particolare, la Direttiva riconosce alla vittima anche «il diritto a garanzie nel contesto dei servizi di giustizia riparativa» tra cui andrebbe certamente ricompreso il diritto ad impugnare un provvedimento di ammissione allorquando esso leda gli interessi della Vittima atteso che presupposto fondamentale per l’accesso al procedimento di giustizia ripartiva è quello del libero consenso manifestato dalle parti.

In tale prospettiva, la Direttiva riconosce espressamente che «i servizi di Giustizia Riparativa possono essere di grande beneficio per le vittime» ed estende sia la definizione di «vittima di reato che alla tipologia di detti servizi ma impone agli Stati membri di adottare misure tali da garantire che «la vittima» che «scelga di partecipare a procedimenti di Giustizia Riparativa»sia «protetta»dalla «vittimizzazione secondaria o ripetuta».

In tal senso molti dubbi sulla legittimità della normativa sono stati manifestati dal Tribunale di Genova con Ordinanza del 21/11/2023 in relazione alla condizione della Vittima nel procedimento.

In proposito per il Giudice Genovese non mancano rilievi di incostituzionalità della normativa con la Carta Costituzionale, con le norme di fonte sovranazionale, con le stesse indicazioni provenienti dalla legge delega 17 ottobre 2022, n. 134.

Infatti, l’art.129-bis C.P.P. .stabilisce che la decisione in ordine all’invio ad un Centro di Giustizia Riparativa debba essere preceduto dall’ascolto delle parti e dei difensori nominati mentre la vittima, per tale dovendosi intendere quella definita dall’art. 42 d. lgs. n. 150, è sentita solo se necessario (!!) benchè la procedura sia fondata sul consenso delle stesse.

Tale impostazione, appare al Tribunale ligure come una palese violazione della direttiva 2012/29/UE laddove, all’art. 12, è chiaramente specificato che «si ricorre ai servizi di Giustizia Riparativa soltanto se sono nell’interesse della vittima, in base ad eventuali considerazioni di sicurezza, e se sono basati sul suo consenso libero e informato, che può essere revocato in qualunque momento».

Sicché, ad avviso dei Giudici genovesi, la decisione del Legislatore italiano di poter rinunciare al parere della vittima, tranne se costituita parte civile, violerebbe la normativa europea (!!).

Al tempo stesso, per lo stesso Giudice, ad essere violata sarebbe pure la Costituzione, dal momento che la legge n. 134 del 2022 aveva espressamente richiamato tale Direttiva tra le fonti di cui tener conto nella costruzione della disciplina organica della restorative justice, con un eccesso di delega per inosservanza degli art. 76 e 77 Cost.

Il Tribunale sottolinea che il fatto che l’A.G. possa decidere senza acquisire il parere della vittima, quando quest’ultima abbia scelto di non presenziare come parte al procedimento penale, non è per definizione una sottovalutazione del suo ruolo e dei suoi diritti.

Si potrebbe ritenere che, alla base dell’opzione normativa, vi sia la volontà di lasciare al Giudice la valutazione dell’opportunità di ascoltare chi abbia preferito rimanere fuori dal processo, per esempio quando dovesse sembrare che tra lo stress legato alla partecipazione ad un’udienza penale e l’interesse a comunicare la disponibilità ad un percorso di riconciliazione con l’imputato, prevarrebbe il primo.

In generale, il consenso delle parti allo svolgimento del programma viene raccolto alla prima riunione indetta dal mediatore (art. 54 d. lgs. n. 150), tuttavia, data l’informalità della procedura, si può ritenere che, una volta ricevuta la convocazione, la vittima possa semplicemente decidere di non presentarsi con ciò manifestano il suo dissenso e non già un consenso implicito (!!).

Ciò non di meno, si potrebbe anche pensare di modificare l’art. 129-bis C.P.P. prevedendo che la vittima (che non sia parte civile) vada obbligatoriamente convocata per essere sentita, fermo restando che potrebbe scegliere di non presentarsi e in nessun caso potrebbe essere obbligata a comparire e a rispondere, a meno che non fosse indicata e ammessa come testimone, dunque solo in questa veste.

Prevedere, comunque, che l’Autorità Giudiziaria debba provare a sentirla è una soluzione tutto sommato equilibrata che, valorizzando l’ascolto, potrebbe anche indurre a ripensare il controverso impiego della vittima surrogata.

Se, infatti, de iure condendo, si dovesse prevedere come necessario il parere della vittima al momento della decisione dell’invio dell’imputato ad un Centro, a fronte di una indisponibilità dichiarata o implicita (dedotta cioè dalla mancata comparizione all’udienza) l’A.G., potrebbe valutare più consapevolmente se disporre comunque l’invio per svolgere un programma con una vittima aspecifica ovvero rinviarlo in attesa di un momento più propizio per il dialogo.

In definitiva, la negazione del diritto ad opporsi al provvedimento del Giudice costituirebbe, di per sé, un caso di vittimizzazione secondaria.

Va sottolineato, comunque, contrariamente a quanto affermato in senso conrtrario dalla Suprema Corte, che, nel diritto ad impugnare la decisione, occorre sempre distinguere tra presupposti di ricevibilità e procedibilità, da una parte, e presupposti di ammissibilità, dall’altra, con il presupposto della competenza del Giudice adito.

La categoria dei presupposti di ammissibilità, o condizioni dell’azione, comprende le “condizioni la cui mancanza impedisce al giudice (…) di esaminare la fondatezza della domanda proposta dalla parte (...).

Il disconoscimento dell’esistenza delle condizioni dell’azione dà luogo ad una pronuncia di inammissibilità che, a differenza di quanto accade nell’ipotesi di accertamento dell’assenza di un presupposto processuale, ”preclude ulteriori possibilità di ottenere una decisione sul merito della domanda, almeno finché tale esistenza non si verifichi”.

Tra questi, vanno annoverati la legittimazione ad ottenere la decisione, l’interesse alla decisione, la mancanza di una rinuncia alla proposizione del ricorso ( o di una acquiescenza all’atto impugnato).

Pertanto, il diritto a impugnare un provvedimento in tema di ammissione alla Giustizia Riparativa andrebbe sancito nella norma istitutiva non solo per l’imputato ma anche per la vittima, come si evince dalla Direttiva innanzi citata.

Per tali ragioni è opinione comune, in Dottrina, che il vulnus arrecato ai principi costituzionali sia così grave da risultare non rimediabile se non rimuovendo in toto la impostazione legislativa (!!.)

Infine, come è stato affermato da alcuni Autori (v. ex multis M. Bouchard e F.Fioren tin, Sulla Giustizia Riparativa, in Sistema Penale) la Legge Delega della Riforma Cartabia (art 18 lett. c) esclude che possano esserci limitazioni nell’accesso ai programmi di giustizia riparativa in relazione alla fase o allo stato del procedimento penale, e indica al Legislatore delegato la possibilità di offrirli anche durante l’esecuzione della pena.

L’accesso ai programmi di Giustizia Riparativa è, tuttavia, sempre subordinato all’iniziativa dell’Autorità Giudiziaria competente ma anche al consenso delle parti che, in taluni casi gravi, potrebbe mancare, come abbiamo innanzi ricordato .

Ed è questo il vero punto dolente della Riforma in atto (!!)

  • Conclusioni

In materia di Giustizia Riparativa, l'accesso ai programmi non è automatico ma richiede una valutazione discrezionale del Giudice che, tenendo conto dell'utilità del percorso e dell'assenza di pericoli per i partecipanti, decida se avviare o meno un programma di Giustizia Riparativa.

Tuttavia, non è un diritto automatico dell'imputato o della vittima, ma una possibilità che il giudice può concedere poiché è una decisione discrezionale del giudice, che valuta caso per caso.

Al Giudice incombe l’onere di valutare se il percorso di Giustizia Riparativa possa portare a benefici per le parti coinvolte e se non ci siano rischi per la loro sicurezza o integrità.

L'accesso ai programmi di Giustizia Riparativa richiede, inoltrre, il consenso unanime libero e informato sia dell'autore del reato che della vittima che non può essere raccolto dal Mediatore nominato sebbene svolga un ruolo chiave nel facilitare la comunicazione e la risoluzione del conflitto, senza alcun potere decisionale.

La Giustizia Riparativa si inserisce, in tal modo, nel sistema penale, ma non lo sostituisce e può avere un impatto sul processo penale, ad esempio, sulla determinazione della pena ovvero ai fini del ristoro dei danni subiti dalla Vittima o dai suoi Familiari.

In definitiva, il Giudice ha un ruolo centrale nel decidere se avviare un programma di Giustizia Riparativa, bilanciando l'opportunità del percorso con le esigenze del caso specifico anche se, a volte, le sentenze non rispecchiano l’Opinione Pubblica, come è stato affermato in questi giorni.

Gli assassini di Giulia Tramontano e Giulia Cecchettin sono stati entrambi condannati all’ergastolo:se nel verdetto sono state escluse alcune aggravanti è per precise ragioni giuridiche, non certo per ridurre il «peso» del delitto e della pena comminata dai Giudici.

Appare scandaloso se la sentenza non è di condanna o e se è di condanna se non è al massimo della pena, e se non lo è allora scandaloso è se la stessa escluda una circostanza di particolare rilievo tra quelle previste dal Codice di Rito.

Le polemiche divampano perché in uno dei verdetti sull’uccisione di Carol Maltesi non viene riconosciuta l’aggravante dei motivi futili e abietti ed un’altra volta perché la condanna dell’assassino di Giulia Cecchettin non comprende l’aggravante della crudeltà a dispetto delle decine di coltellate, e da ultimo, perché l’ergastolo inflitto all’assassino di Giulia Tramontano non comprende anche l’aggravante della premeditazione.

Ed è questo anche il nocciolo del perché queste polemiche, del tutto comprensibili se provenienti dalle persone che si sono viste portare via una persona cara, trovino terreno fertile in chi le rilancia e cavalca per motivi ben più prosaici.

Ne scaturisce una tendenza a voler far decidere il processo al televoto di cittadini illusi di sapere ciò che il processo ha ricostruito e dei parenti delle vittime, tanto più strumentalizzati nel loro dolore quanto meno aiutati a comprendere il significato di una sentenza sull’onda del clamore mediatico che affligge la Giustizia in taluni casi, come, ad es, il caso Garlasco.

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