Arresti domiciliari del lavoratore: esclusione dell' obbligo di repechage

Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 6714 del 10 marzo 2021.
Arresti domiciliari del lavoratore: esclusione dell' obbligo di repechage

Licenziamento - Assenza per aspettativa per lo svolgimento di carica pubblica – Successiva sospensione dal servizio e dalla retribuzione per misura restrittiva degli arresti domiciliari – Impossibilità oggettiva di usufruire delle prestazioni del dipendente - esclusione dell'obbligo di repéchage.

Lunedi 12 Aprile 2021

La vicenda trae origine da una Ordinanza del Tribunale di Roma, e della successiva Sentenza della Corte di appello di Roma (n. 20181 del 2018), che avevano confermato la legittimità del licenziamento intimato dalla Società Datrice al proprio Dipendente il quale, dopo un periodo di assenza per aspettativa per lo svolgimento di carica pubblica quale Presidente di un Municipio Capitolino, era stato poi sospeso dal servizio e dalla retribuzione a seguito dell'applicazione nei suoi confronti di una misura restrittiva della libertà personale consistente negli arresti domiciliari.

Il Datore, dopo aver ritualmente disposto la sospensione di cui sopra, in conseguenza della Sua impossibilità oggettiva di rendere la prestazione lavorativa, aveva poi comunicato la successiva risoluzione del rapporto di lavoro intimata ai sensi e per gli effetti dell'art. 34 comma terzo del CCNL elettrici applicato alla unità produttiva di appartenenza e perché il protrarsi della Sua assenza aveva determinato il totale venir meno dell'interesse datoriale alla sua futura prestazione lavorativa (che peraltro solo eventuale, essendo la vicenda penale che lo aveva coinvolto ancora sub judice).

La Corte di Appello capitolina, in sintesi, aveva rilevato, per legittimare il provvedimento espulsivo che:

a) la disposizione contrattuale collettiva richiamata corrispondeva esattamente alla situazione di fatto per la quale la società aveva disposto il licenziamento;

b) tale disposizione peraltro aveva introdotto, in favore del lavoratore, una ipotesi particolare di sospensione del rapporto di lavoro che precludeva per dodici mesi l'esercizio del potere di recesso ex art. 1464 cc;

c) in ogni caso e prescindere dal CCNL applicato o applicabile, il licenziamento era stato determinato - artt. 1463 e 1464 cod. civ. - dalla mancata prestazione di attività lavorativa, per un periodo ampiamente superiore ad un anno;

d) la previsione del recesso di cui all'art. 1464 cc non è equiparabile alla risoluzione del rapporto per giustificato motivo oggettivo determinato da mera volontà datoriale, ma da circostanze oggettive imputabili al dipendete (o a nessuna delle parti);

e) nella fattispecie andavano valutati, ai fini dei giudizio di intollerabilità della prosecuzione:

  1. il protrarsi della assenza per un anno e 3 mesi che aveva inciso anche sull'organizzazione dell'attività di impresa, con effetti disfunzionali;

  2. la necessità di modifiche, nell'anno di assenza del lavoratore e nella unità di appartenenza, dell'assetto aziendale che non consentiva più un proficuo inserimento dello stesso;

  3. la irrilevanza delle dimensioni della società, relativamente alla durata della custodia cautelare, perché comunque essa doveva rispondere a criteri di economicità;

  4. il lavoratore si era addirittura limitato in risposta al licenziamento ad offrire solo formalmente le proprie prestazioni (offerta impossibile, stante la detenzione domiciliare), chiedendo un ulteriore periodo di aspettativa per un ulteriore anno.

La Suprema Corte di Cassazione, investita della questione a mezzo gravame proposto Lavoratore, ha ribadito alcuni principi fondamentali che regolano la materia.

Ad avviso degli Ermellini, la Corte di merito – correttamente - non ha fatto rientrare la fattispecie in questione sia nell'ambito operativo dell'art. 1463 cod. civ. che di quella dell'art. 1464 cod. civ. come il lavoratore vorrebbe oggi far credere, ma avrebbe richiamato entrambe le norme solo per sottolineare che il caso concreto gravitasse nel contesto giuridico dell'istituto della "impossibilità sopravvenuta" dell'obbligazione. La Corte, invero, dopo tale premessa ha poi correttamente inquadrato, nello specifico, la vicenda in questione nella previsione del recesso di cui all'art. 1464 cc, non strettamente equiparabile alla risoluzione del rapporto per giustificato motivo oggettivo dichiarato dal datore, ma determinata, invece, dalla mancanza di un interesse apprezzabile all'adempimento parziale della prestazione.

La persistenza o meno di un interesse rilevante a ricevere le ulteriori prestazioni, in ipotesi di assenza dal lavoro per carcerazione preventiva, deve essere parametrata alla stregua di criteri oggettivi, riconducibili a quelli fissati nell'ultima parte dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966, e cioè con riferimento alle oggettive esigenze dell'impresa.

Tale valutazione però, in tali casi, andrà svolta con una stima ex ante, e non già ex post, in cui si tenga conto delle dimensioni dell'impresa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva, della natura ed importanza delle mansioni del dipendente, del maturato periodo di assenza, della ragionevole prevedibilità di ulteriore durata dell'impossibilità, della possibilità di non ricorrere a nuove assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità dell'assenza (Cass n. 19135 del 2016; Cass. n. 12721 del 2009).

La Corte territoriale si è attenuta perfettamente a tali principi con un accertamento in fatto privo di vizi, da cui è possibile evincere la ratio decidendi, e resiste alle censure di avere adottato una motivazione apparente, illogica e contraddittoria (che sussiste solo quando non è consentito alcun controllo sulla esattezza e sulla logicità del ragionamento decisorio, ex multis, Cass n. 13248 del 2020 e Cass n. 17196 del 2020).

Il protrarsi dell'assenza del dipendente, per più di un anno, è stato ritenuto tale da determinare la perdita di interesse del datore di lavoro alla eventuale prestazione residua.

Né la Corte di Cassazione ritiene condivisibile l'assunto del ricorrente secondo cui la fattispecie dell'art. 1464 cod. civ. legittimerebbe solo la sospensione del rapporto e non anche la sua definizione.

Il dato normativo è invece chiaro nell'attribuire al datore di lavoro anche tale ultima facoltà che, secondo la giurisprudenza di legittimità, è consentita solo quando, sulla base di tutte le circostanze del caso concreto, non si possa prevedere - a livello di prognosi ex ante - la ripresa del rapporto senza significativi pregiudizi per l'organizzazione del datore di lavoro (Cass. n. 1591 del 2004).

Quanto alla pretesa assenza di motivazione del provvedimento espulsivo, che farebbe riferimento alla violazione di una norma del CCNL senza trascriverne il testo, gli Ermellini osservano che i giudici di seconde cure, hanno ritenuto la motivazione sia specifica che intellegibile e hanno correttamente valutato le circostanze obiettive che giustificavano il provvedimento di licenziamento.

Ricorda ancora la Suprema Corte che nella comunicazione del licenziamento il datore di lavoro ha l'onere di specificare i motivi ma non è tenuto, neppure dopo la modifica legislativa dell'art. 2 co. 2 legge n. 604 del 1966 per opera dell'art. 1 co. 37 della legge n. 92 del 2012, ad esporre in modo analitico tutti gli elementi di fatto e di diritto alla base del provvedimento (Cass. n. 16795 del 2020).

Del resto la Corte Territoriale ha valutato anche che nell'anno di assenza del lavoratore, nell'unità di appartenenza erano intervenute modifiche tali da non consentire un proficuo inserimento lavorativo di quest'ultimo, per il quale non poteva neppure ipotizzarsi una data di eventuale rientro.

Si tratta di una valutazione svolta per accertare l'interesse dell'imprenditore alla prestazione lavorativa, rimessa al giudice di merito, che vi ha provveduto avendo riguardo alle possibili e prevedibili capacità lavorative del prestatore e alla organizzazione dell'azienda: detta valutazione in fatto, correttamente e congruamente motivata, non è censurabile in sede di legittimità.

In modo condivisibile, da ultimo, è stata esclusa l'operatività dell'obbligo di repéchage in quanto, nel caso di impossibilità sopravvenuta ex art. 1464 cod. civ. per stato di detenzione del lavoratore -a differenza di quanto accade nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo- vi è un fatto oggettivo, estraneo alla volontà del datore di lavoro e non riconducibile alle sue scelte imprenditoriali -, che incide sulla organizzazione aziendale, con conseguente impossibilità di ipotizzare ogni ricollocamento alternativo e/o parziale.

In altri termini, vi è una ragione ostativa che rileva intuitu personae sicché il repéchage è escluso per una impossibilità intrinseca di operatività di detto istituto che richiede, invece, pur sempre una fungibilità ed una idoneità attuale lavorativa (sia pure parziale) del dipendente.

Allegato:

Cassazione civile sentenza n.6714 2021

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