Il medico del pronto soccorso e l’ospedale sono tenuti a risarcire in sede civile i parenti della vittima a prescindere dalle contrarie indicazioni contenute nella sentenza penale di rinvio, in applicazione dei criteri civilistici sul nesso causale ed in forza della piena libertà del giudice civile nella ricostruzione dei fatti e nella loro valutazione
Giovedi 18 Novembre 2021 |
IL CASO
La Corte d’Appello civile di Palermo, adita dalla madre e dai fratelli della vittima dopo l’annullamento in Cassazione della sentenza penale di condanna del medico pronunziata in secondo grado e l’annullamento della medesima anche agli effetti civili, con rinvio ex art. 622 c.p.p. al giudice civile competente per valore in grado di appello, ha ritenuto il medico e l’ospedale responsabili civilmente per il decesso della paziente.
La vicenda risale all’estate del 2011 quando una giovane donna palermitana di soli 29 anni, madre di un bambino di appena 5 mesi, si recò di mattina presso un pronto soccorso di un ospedale di Palermo a causa di forti emicranie; qui gli venne correttamente diagnosticato un idrocefalo triventricolare e, non essendo la sala operatoria agibile per dei lavori in corso, venne trasferita alle ore 14 circa presso altro ospedale (che chiameremo Alfa) di Palermo.
Il medico di guardia del pronto soccorso dell’Ospedale Alfa, nonostante la chiara diagnosi di ingresso fornita dai medici del precedente ospedale di idrocefalo triventricolare, adottò inutilmente una condotta eccessivamente attendista, non prestando la dovuta attenzione ai campanelli d’allarme che davano conto dell’aggravarsi dell’ipertensione endocranica e non sottoponendo immediatamente la donna all’intervento di derivazione ventricolare, come da indicazione espressa dei medici del precedente nosocomio, intervento che avrebbe ridotto la pressione endocranica e avrebbe salvato la vita della giovane donna.
Al contrario il menzionato medico lasciò la paziente in attesa, preferendo sottoporre la donna ad ulteriori ed inutili accertamenti (RM), con conseguente perdita di tempo (ed infatti secondo il collegio peritale nominato in appello in sede penale l’approfondimento diagnostico avrebbe dovuto essere eseguito solo dopo aver posizionato la derivazione ventricolare esterna e stabilizzato la paziente).
Solo alle 19.30 la donna veniva sottoposta all’intervento, ma ormai troppo tardi, quando le condizioni della stessa erano ormai definitivamente compromesse, poiché al termine la stessa si presentava in uno stato di coma grave, rivelatosi poi irreversibile, tanto che, dopo un’agonia durata dieci giorni, si verificava il suo decesso.
Secondi i periti l’intervento in questione – semplice e veloce- poteva essere programmato in dieci minuti, ed essere eseguito anche in corsia senza necessità della sala operatoria (secondo i consulenti, nel corridoio, al letto del paziente, con un semplice kit per mettere la pic), tant’è che i neurochirurghi dell’Ospedale Alfa lo eseguirono nell’antisala operatoria, a causa delle gravità delle condizioni della paziente che imponevano un immediato intervento (perché ormai entrata in stato di coma) e per l’indisponibilità della sala operatoria ancora occupata per altri interventi.
Nel primo e secondo grado del giudizio penale il medico di turno presso l’ospedale Alfa venne ritenuto colpevole del reato di omicidio colposo.
La Corte di Cassazione ha invece annullato agli effetti penali la sentenza, dichiarando il reato estinto per prescrizione e parimenti annullato la sentenza agli effetti civili, rinviando al giudice civile competente per valore in grado di appello.
La Suprema Corte di Cassazione, per quel che qui interessa, ha altresì negato la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva del medico e il decesso della donna, ritenendo che il giudice debba verificare che, “al di là di ogni ragionevole dubbio… il comportamento omesso avrebbe salvato o prolungato la vita della paziente” e ritenendo che la Corte territoriale avesse fatto mal governo dei criteri di accertamento del nesso causale (facendo riferimento alla teoria della perdita di chance ed al criterio della mera probabilità statistica anziché della probabilità logica), “trascurando di valutare in termini rigorosi e scientificamente accettabili i dati indiziari disponibili, al fine di verificare se, ipotizzando come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato ragionevolmente evitato o differito con (umana) certezza”, a fronte di evidenze scientifiche che indicavano- a dire del giudice di legittimità- bassissime probabilità di successo dell’intervento, anche se l’intervento presso l’ospedale Alfa fosse stato tempestivamente eseguito.
A seguito del rinvio ex art. 622 c.p.p., la madre ed i fratelli della giovane donna hanno riassunto la causa innanzi alla Corte d’Appello di Palermo riproponendo in sede civile la domanda risarcitoria azionata in sede penale e chiedendo la condanna in solido dei convenuti, medico e ospedale, al ristoro dei danni non patrimoniali subiti iure proprio in conseguenza del decesso della loro congiunta.
LA DECISIONE
Con sentenza pubblicata il 05/11/2021 la Corte d’Appello di Palermo, pronunciando all’esito del giudizio di rinvio ex art.622 ss. c.p.p. ha accolto la domanda di risarcimento dei danni avanzata dai prossimi congiunti della vittima.
La Corte di merito ha preliminarmente rammentato, richiamando il recente orientamento della Suprema Corte di Cassazione, il principio di autonomia del giudizio civile rispetto al giudizio penale, affermando che il giudizio di rinvio, instaurato a seguito di annullamento della sentenza penale d'appello non si pone in parallelo con alcun precedente grado del processo, ma ne costituisce fase del tutto nuova ed autonoma (cd. iudicium rescissorium) funzionale all'emanazione di una sentenza che non si sostituisce ad alcuna precedente pronuncia (né di primo, né di secondo grado) riformandola o modificandola, ma statuisce, direttamente e per la prima volta, sulle domande proposte dalle parti.
A fronte di ciò, ricorda la corte, il giudice civile del rinvio riacquista i pieni poteri in termini probatori e di giudizio, con facoltà di utilizzare in autonomia il materiale probatorio proveniente dal processo penale formatosi nel pieno rispetto del contraddittorio con le parti.
Le prove raccolte nel giudizio penale, quindi, sono liberamente utilizzabili nel processo civile, e possono essere poste alla base del convincimento del giudice civile, purché da questi sottoposte ad autonoma valutazione e vagliati secondo le diverse categorie di responsabilità tipici del processo civile.
Invero, le Sezioni Unite Penali della Corte Suprema di Cassazione con sentenza n.22065/2021 del 28/01/2021 dep. il 04/06/2021, nel richiamare integralmente i principi di diritto sopra riportati hanno espressamente stabilito che “la Corte di cassazione penale non ha il potere di enunciare il principio di diritto al quale il giudice dovrà uniformarsi”; le Sezioni Unite sono giunte a tale conclusione sulla base del tenore letterale dell’art.393 c.p.c., secondo il quale la mancata tempestiva riassunzione del giudizio comporta l’estinzione dell’intero processo: tale effetto estintivo, dice la Corte, “avalla la tesi della fase autonoma del giudizio civile di rinvio a seguito di annullamento da parte della Corte di Cassazione penale”.
Orientamento, questo, che ha trovato conferma in sede civile con la recente Cassazione civile sez. lav. - 25/08/2021, n. 23420, secondo cui “con un orientamento cui si intende dare seguito (Cass. n. 517 del 2020; Cass. n. 16916 del 2019; Cass. n. 25918 del 2019) la decisione della Corte di cassazione ex art. 622 c.p.p., determina una sostanziale "translatio iudicii" dinnanzi al giudice civile, sicché la Corte di appello competente per valore, cui sia stato rimesso il procedimento ai soli effetti civili, deve applicare le regole, processuali e sostanziali, del giudizio civile (cfr. sul punto Corte Suprema di Cassazione n.9128 dell’01/04/2021 che, richiama il precedente arresto n.15859 del 12 giugno 2019)”.
Ciò premesso la Corte d’Appello di Palermo ha deciso la fattispecie utilizzando l’ampio materiale probatorio raccolto in sede penale e costituito, oltre dalle deposizioni dei testi, dalle consulenze medico legali rese nel procedimento penale in primo e secondo grado, analizzando il nesso di causalità, e i diversi criteri che sovraintendono all’accertamento del nesso eziologico nell’illecito civile ed in quello penale, ricordando che “nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio".
La Corte palermitana ha premesso che la causalità deve rispondere a un criterio di “certezza probabilistica”, non ancorata esclusivamente a dati statistici – quantitativi, ma ad elementi di conferma desumibili dal caso concreto (c.d. probabilità logica) e la condotta del debitore rilevante non è qualunque inadempimento ma solo quello c.d. «vestito», vale a dire astrattamente e in concreto efficiente alla produzione del danno e di quel tipo di danno.
Orbene il Giudice civile, nella sua autonoma valutazione delle prove assunte in sede penale, ha affermato che il tempestivo intervento di drenaggio esterno, che doveva essere eseguito quando la paziente giunse all’ospedale Alfa ancora vigile e con un esame neurologico negativo, avrebbe certamente e con elevata probabilità, escluso il manifestarsi dei successivi sintomi: “non può sottacersi che una cosa sarebbe stata sottoporre la donna all’intervento di derivazione ventri-colare all’arrivo presso l’Ospedale … [Alfa], quando la stessa era ancora vigile e cosciente (tanto che nella cartella clinica è annotato che la paziente era “collaborante”), altra cosa è stata l’averlo eseguito alle ore 19,30 quando le condizioni della donna erano definitivamente compromesse e le conseguenze del colpevole grave ritardo ormai irrimediabili”.
Ancora secondo la Corte d’Appello di Palermo una condotta colpevole è da ascrivere anche agli anestesisti del nosocomio. La paziente, infatti, venne sottoposta alle ore 18,30 a RM, esame privo di utilità in quel momento, e venne rinvenuta in gravissimo stato di agitazione e disorientamento. Per eseguire l’esame le vennero somministrati oppiacei determinando così un ulteriore aumento della pressione intra cranica.
Tale condotta è stata ritenuta dai periti del primo grado imperita perché, nel caso di soggetti con ipertensione endocranica, “fonte di rischi ulteriori connessi al ridotto scarico dei vasi venosi provenienti dal cervello, all'aumento del flusso ematico cerebrale e alla diminuzione della pressione”.
Prosegue la Corte affermando che essendo il medico “tenuto a espletare l’attività professionale secondo canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice, accertata l’omissione di tale attività, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’evento lesivo e che, per converso, la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento stesso”.
La Corte d’Appello palermitana ha quindi ritenuto che l’aggravamento repentino e inesorabile delle condizioni di salute della paziente ed il suo successivo decesso erano ascrivibili alla condotta omissiva di colpevole ritardo nella somministrazione della terapia corretta e nell’esecuzione dell’intervento chirurgico che, qualora tempestivamente attuati, avrebbero scongiurato, con elevato grado di probabilità, il decesso della donna.
D’altra parte in sede civile per il giudizio controfattuale con valutazione ex ante “è sufficiente un criterio probabilistico di valutazione dei fatti che non si aggancia ad un dato di probabilità assoluta (il 50%+1 di probabilità), ma relativo, secondo il quale, tenuto conto di tutte le cause e di tutti i possibili esiti, in quella situazione, ove si fosse tenuto il comportamento corretto, esisteva un maggior grado di probabilità, rispetto a tutti gli altri possibili esiti, che l’esito mortale non si sarebbe verificato. Un criterio probabilistico relativo che consente di giungere all’affermazione dell’esistenza del nesso causale tra operato del medico e struttura sanitaria e danno anche con una percentuale di probabilità inferiore al 50%” (in terminis, con pregnante motivazione, ordinanza Cass. Civ., Sez.III, 06.07.2020 n.13864).
Indi, qualificata la responsabilità dell’azienda ospedaliera come extracontrattuale, perché i congiunti della vittima sono estranei al rapporto contrattuale tra quest’ultima e l’ospedale, la Corte palermitana ha rilevato che la responsabilità dell’azienda ospedaliera trova il suo fondamento nella previsione di cui all’art. 2049 c.c., che attribuisce la responsabilità ai padroni e ai committenti per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi.
Pertanto, ha condannato il medico e l’ospedale al risarcimento in favore della madre e dei fratelli della vittima del danno cd. “parentale per morte del congiunto”, in solido tra loro, ai sensi dell’art. 2055 c.c..
Autori:
Avv.ti Luigi Bonanno Feldmann e Francesco Liberto