L’art. 7 della Legge Bianco- Gelli così recita al primo comma: “ La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose” e al terzo comma “L'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente...”
La normativa in esame consente sin da subito di operare una distinzione estremamente chiara sulla natura giuridica della responsabilità civile della struttura sanitaria in cui opera il medico che è di natura contrattuale e quella dell’esercente la professione sanitaria che è di natura extracontrattuale.
La diversa natura giuridica tra le due tipologie di responsabilità comporta una disciplina differente in tema di prescrizione: la prima ha natura decennale, la seconda quinquennale.
Il tema dell’onere della prova è stato oggetto ultimamente di diversi interventi della Corte di Cassazione che testimonia come il dibattito sul punto è lungi dal sopirsi anche perché le ipotesi generatrici potenzialmente di una responsabilità medica sono molteplici.
Invero, però, ad avviso dello scrivente, la Suprema Corte ha posto alcuni principi che non possono ormai formare alcun oggetto di contestazione o dibattito; questa nostra breve disamina delle pronunce della Corte ha lo scopo di individuare i “capisaldi” in materia; il paziente che lamenta un danno per “errato intervento medico per negligenza, imperizia, imprudenza”, con un comportamento commissivo del sanitario, e agisce per il risarcimento danni nei confronti della struttura sanitaria è onerato sia di allegare l’inadempimento contrattuale della struttura e per essa del medico e sia di provare il nesso di causalità tra la condotta ed il danno subito; si legge nella sentenza n. 29853 del 20.11.2018: “ …l'art. 1218 c.c. solleva il creditore della obbligazione che si afferma non adempiuta dall'onere di provare la colpa del debitore inadempiente, ma non dall'onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore ed il danno di cui domanda il risarcimento”;
la sentenza n. 6593/2019 ha chiarito che deve sempre sussistere in ogni caso l’inadempimento del personale sanitario, “preliminare” rispetto alla questione del nesso causale : “…il motivo (rectius del ricorso per Cassazione) risulta privo di interesse, dal momento che la decisione non rinviene la sua ratio fondante nell’individuazione della spettanza dell’onere probatorio in punto di nesso causale, ma esclude – a monte – che via sia stato un qualche inadempimento da parte dei sanitari del Policlinico, negando il presupposto stesso della responsabilità contrattuale della struttura, senza necessità, quindi, di affrontare il profilo del nesso causale fra la condotta sanitaria e il decesso del..”.
In pratica, il paziente deve provare l’esistenza del rapporto “contrattuale” con la struttura sanitaria, l’aggravamento della malattia o la sua “nascita”, e il nesso di causalità tra la patologia aggravata o insorta e il comportamento tenuto dal medico.
Il nesso di causalità in materia di responsabilità medica è stato chiarito dalle Sezioni Unite nel famoso arresto contenuto nella sentenza 576/2008 dove si enuncia chiaramente la differenza tra la responsabilità penale e quella civile: “… in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo (quella civile) vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l'identità di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale”. In materia civile vige quindi il c.d. “giudizio contro fattuale” : bisogna cioè accertare se un comportamento diverso e comunque dovuto sarebbe bastato ad evitare il danno.
La problematica del nesso di causalità è stata nuovamente affrontata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 8461 del 27 marzo 2019 in un caso che presenta alcune altre peculiarità meritevoli di interesse.
Gli eredi di un defunto lamentavano che il de cuius fosse deceduto anticipatamente a causa della mancata diagnosi di un carcinoma. Il comportamento negligente del medico nell’omettere la diagnosi di carcinoma al seno viene, qui, in rilievo non perché la tempestiva diagnosi avrebbe evitato il decesso ma perché avrebbe diminuito il periodo di vita della paziente; l’omissione in pratica ha anticipato la morte.
La Suprema Corte enuncia i seguenti principi di diritto:
a) “ è configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito dal paziente qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l'opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi: laddove il danno dedotto sia costituito anche dall'evento morte sopraggiunto in corso di causa ed oggetto della domanda in quanto riconducibile al medesimo illecito, il giudice di merito, dopo aver provveduto alla esatta individuazione del petitum, dovrà applicare la regola della preponderanza dell'evidenza o del più probabile che non al nesso di causalità fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite" :
b) "ove la decisione del giudice sia fondata sulle risultanze di una CTU, l'accertamento tecnico svolto deve essere valutato nel suo complesso, tenendo conto anche dei chiarimenti integrativi prestati sui rilievi dei consulenti di parte: il mancato e completo esame delle risultanze della CTU integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, risolvendosi nell'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.
La sentenza oltre ad esaminare la problematica del nesso causale aggiunge un ulteriore elemento relativo alla CTU come mezzo probatorio determinante in questa tipologia di cause.
Infine, si ricorda che l’onere probatorio a carico della struttura sanitaria e del medico è non solo quello riguardante il sanitario che deve provare di aver agito diligentemente ma anche che il danno è stato prodotto da un evento imprevisto ed imprevedibile.
L’onere probatorio a carico del paziente sarà diverso qualora agisca nei confronti del sanitario; il richiamo fatto dalla Legge Bianco – Gelli all’art. 2043 c.c.v. impone di seguire le regole dettate dal codice; è, onere, del danneggiato, quindi, provare gli elementi costitutivi del fatto illecito, il nesso di causalità, il danno ingiusto e la imputabilità a quel determinato soggetto; per chiarire, ad esempio, non sarà sufficiente allegare l’inadempimento del sanitario, ma è necessario provare ad esempio la sua ingiustificata e colposa scelta di agire non rispettando le linee guida in materia medica.
Non si applicherà l’art. 2043 c.c. ma l’art. 1218 c.c. qualora con il sanitario si sia concluso un contratto dove la prestazione sanitaria deve tendere ad un risultato come ad esempio nel caso della chirurgia estetica.
Corte di Cassazione|Sezione 3|Civile|Sentenza 27 marzo 2019 n. 8461