Il cd. repêchage, strumento di contenimento dei licenziamenti nelle riorganizzazioni aziendali

Il cd. repêchage, strumento di contenimento dei licenziamenti nelle riorganizzazioni aziendali
Mercoledi 8 Febbraio 2023

Premessa

La recentissima ordinanza della Cassazione n. 2895 del 31 gennaio 2023 – che si è occupata del ricorso di un dirigente della Direzione risorse umane dell’azienda di credito BNL spa avverso il licenziamento intimatogli, motivato come conseguente alla «profonda riorganizzazione e ristrutturazione che riguarda diversi settori e funzioni, compresa la struttura cui Ella appartiene e specificamente il Servizio cui Ella è addetto», provvedendo poi la banca, a distanza di 5 mesi e 18 giorni, all’assunzione di un altro dirigente nella stessa Direzione Risorse Umane del licenziato – ci fornisce lo spunto sia per una riflessione sulla condivisibile motivazione della sentenza, sia per un commento a più ampio raggio. Esteso alla tematica del cd. “repechage”, quale condizione di procedibilità dei licenziamenti per soppressione di posizioni di lavoro, con specifico riferimento ai dipendenti, con qualifica di dirigente (quale rivestita dal ricorrente, in fattispecie) nonché relativo ai restanti lavoratori con qualifiche inferiori, di operaio, impiegato e Quadro.

Il sostantivo “repêchage”, in italiano “ripescaggio” - normalmente preceduto dal sostantivo “obbligo” – attualizza il cd. “obbligo di repêchage”, di cui sono stati onerati i datori di lavoro determinatisi alla soppressione di posizioni di lavoro, mediante licenziamento, al ricorrere di esigenze di riorganizzazioni/ristrutturazioni aziendali incidenti sui livelli occupazionali. Trattasi di un istituto di creazione giurisprudenziale (non recepito in alcuna fonte legislativa), affermatosi in conseguenza della notoria considerazione del licenziamento quale “extrema ratio”.

Istituto rispondente a considerazioni socialmente ed umanamente meritorie, avente lo scopo e l’effetto di sottoporre a penetrante riscontro giudiziale di veridicità le ragioni datorialmente addotte a sostegno dei licenziamenti per cd. “giustificato motivo obiettivo” (ex art. 3 l. n. 604/’66). Nonché di imporre ai datori di lavoro la sperimentazione di un tentativo di reperimento di posizioni di lavoro all’interno dell’azienda, alternative a quelle soppresse e, al tempo stesso equivalenti/compatibili, per mansioni, con quelle in precedenza disimpegnate dal candidato al licenziamento. Il tutto al fine di contenere la consistenza delle espulsioni dei prestatori di lavoro dal circuito produttivo aziendale.

1. Insussistenza di un diritto al repechage da parte dei dirigenti

Nel diritto del lavoro l’espressione “obbligo di repêchage” rimanda ad una elaborazione giurisprudenziale ormai consolidata in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, identificato legislativamente in quello determinato “da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (art. 3, L. 15 luglio 1966 n. 604).

Tali ragioni, come noto, possono dipendere da specifiche esigenze aziendali (ad es., una riorganizzazione che comporti la soppressione del posto occupato da un determinato dipendente) oppure da situazioni riferibili al lavoratore, ma a lui non addebitabili in termini di inadempimento (ad es., la sopravvenuta inidoneità fisica all’esercizio delle mansioni contrattuali).

Sebbene anche il “dirigente” possa essere licenziato per una riorganizzazione aziendale che comporti anche per lui (come per gli altri lavoratori con qualifiche sottostanti) la soppressione del posto di lavoro ed il conseguente licenziamento, non ricorre per la categoria dei dirigenti l’obbligo datoriale di sperimentare il cd. “repêchage” in altre, affini, posizioni di lavoro all’interno dell’azienda.

La non ricorrenza di questa chance per una potenziale salvaguardia dell’occupazione, - introdotta giurisprudenzialmente come condizione di procedibilità del licenziamento -, discende dal fatto che il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali (di cui alla Legge 15 luglio 1966, n. 604, artt. 1 e 3), concernenti solo i prestatori con qualifiche sottordinate, di operaio, impiegato e Quadro direttivo (quest’ultima qualifica immediatamente sottostante a quella di Dirigente).

Pertanto, in luogo che dalla legge, la tutela dei dirigenti dai licenziamenti immotivati o arbitrari è accordata dalla fonte collettiva contrattuale. In tal sede, le Organizzazioni datoriali e quelle sindacali di categoria hanno approntato specifiche tutele indennitarie (cioè a dire una consistente monetizzazione, ad opera di una cd. “indennità supplementare” al Tfr) al ricorrere della cd. “ingiustificatezza” dei licenziamenti. Ove, preme precisare, la nozione di “giustificatezza” posta dalla contrattazione collettiva a garanzia della legittimità del licenziamento del dirigente, non coincide con quella di “giustificato motivo obiettivo” di licenziamento, contemplata dalla stessa Legge n. 604 del 1966, art. 3, per i lavoratori subordinati rivestenti qualifiche inferiori.

Ne discende, pertanto, la conseguenza che - ai fini dell’indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva in caso di licenziamento del dirigente - la suddetta “giustificatezza” non deve necessariamente coincidere con l’impossibilità di interrompere la continuità del rapporto di lavoro (assicurata, invece, ai restanti lavoratori subordinati di qualifica inferiore) al ricorrere di una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost., che verrebbe realmente negata ove si impedisse all’imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare (rectius, a continuare di collaborare) con lui ai più alti livelli della gestione dell’impresa (i), stante altresì il regime di “sostanzialmente” libera recedibilità che caratterizza il rapporto di lavoro dirigenziale.

Alla stregua dei riferiti consolidati principi giurisprudenziali, il ricorso del dirigente della BNL spa, - volto ad invalidare il licenziamento per presunta mancanza di offerta datoriale del “repêchage” in altri ruoli e mansioni - è stato respinto, una volta chiarita la non spettanza e, pertanto, qualificata come indebita la richiesta. Altresì irrilevante è stata giudicata, conseguentemente, l’avvenuta assunzione, nella stessa Direzione risorse umane del licenziato, di un altro dirigente a distanza di 5 mesi.

2. Ricorrenza, invece, dell’obbligo di “repêchage” in capo al datore per il licenziamento dei prestatori di lavoro con qualifica operaia,impiegatizie e di Quadro

Stante la soggezione alla legge n. 604/’66, del recesso per cd. “giustificato motivo obiettivo” di tutti i restanti lavoratori subordinati, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha consolidatamente affermato che l’onere della prova gravante sul datore di lavoro, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 604/66 (relativamente all’esistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento), si estende altresì alla dimostrazione di non poter ragionevolmente utilizzare il dipendente interessato in altre mansioni equivalenti o, in mancanza, anche in mansioni deteriori, con il limite del rispetto della dignità del lavoratore (ii). Ove l’avverbio “ragionevolmente” esonera il datore di lavoro dall’obbligo di sopportare rilevanti modifiche organizzative, comportanti ampliamenti di organico o innovazioni strutturali (iii), per garantire, comunque, il mantenimento del posto di lavoro al candidato al licenziamento.

Come già detto, tale orientamento si basa sul fondato convincimento, desumibile dalla disciplina limitativa dei licenziamenti, del licenziamento come provvedimento di “extrema ratio” (iv) e, comunque, della necessità di un equilibrato contemperamento, in materia, tra gli interessi del datore di lavoro e quelli del lavoratore, in un’ottica solidaristica e di buona fede nei relativi rapporti (v).

Nei decorsi anni del secolo scorso e fino alla fine del 1998, la giurisprudenza della suprema Corte aveva limitato l’affermazione di principio dell’obbligo di repêchage alle ipotesi di soppressione del posto e, in genere, alle altre ipotesi di giustificato motivo per specifiche esigenze aziendali (vi), mentre ne escludeva l’applicazione al caso in cui l’esigenza aziendale derivasse da un fatto riferibile al dipendente (ad es., per sopravvenuta inidoneità all’esercizio delle mansioni contrattuali (vii).

Sull’argomento, sono poi intervenute le sezioni unite della Corte di cassazione, che con la sentenza del 7/8/98 n. 7755 hanno esteso il principio anche al caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore che determini l’impossibilità della prestazione convenuta.

Così statuendo:«La sopravvenuta inidoneità fisica del dipendente allo svolgimento delle mansioni alle quali è addetto non integra una causa di risoluzione per sopravvenuta impossibilità della prestazione ai sensi degli artt. 1463 e 1464 c.c., se non nei limiti della configurabilità del giustificato motivo ex art. 3, L. 15/7/66 n. 604, e quindi a fronte dell’onere gravante sul datore di lavoro di allegare e dimostrare l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altra attività riconducibile alle mansioni già svolte o ad altre equivalenti o, se ciò è impossibile, ad altre inferiori, compatibilmente con l’assetto organizzativo dell’impresa» (viii).

A tale pronuncia ha poi fatto seguito una giurisprudenza uniforme della suprema Corte, sia con riguardo al licenziamento per esigenze indotte dall’esercizio legittimo dei poteri imprenditoriali (ix), che con riferimento a quello in cui l’esigenza oggettiva derivi da un fatto del lavoratore (x), anche diverso dalla inidoneità per infermità fisica permanente (quale, ad es. il ritiro dell’autorizzazione (abilitazione o patente) dell’autorità pubblica all’esercizio di una certa attività non addebitabile a dolo o colpa del lavoratore (xi), quando sia ragionevolmente possibile adibire il dipendente ad altre mansioni, anche professionalmente non equivalenti a quelle contrattuali o ad altra unità produttiva.

2. L’onere probatorio gravante sul datore e quello del lavoratore, meramente “collaborativo” nel proprio interesse al mantenimento di una occupazione

É principio oramai consolidato in giurisprudenza che il datore di lavoro, convenuto nel giudizio di impugnazione del licenziamento adottato nei confronti del proprio dipendente, abbia l’onere di provare la legittimità delle ragioni poste a fondamento di quella scelta, e cioè il fatto che quelle ragioni possano integrare una giusta causa ovvero un giustificato motivo di interruzione del rapporto di lavoro.

Parimenti, è altrettanto noto che, qualora la cessazione del rapporto lavorativo sia avvenuta per motivazioni di carattere obbiettivo inerenti all’organizzazione aziendale, tale prova debba riguardare, da un lato, l’effettiva sussistenza del giustificato motivo oggettivo e, dall’altro, l’impossibilità di ricollocare il dipendente all’interno della struttura aziendale, adibendolo a mansioni anche diverse rispetto a quelle svolte in precedenza, purché di natura equivalente (cd. “obbligo di repêchage”).

Secondo l’orientamento oramai consolidato della Cassazione, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche la dimostrazione dell’impossibilità del cd. repêchage, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore. Sul datore di lavoro incombe l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente all’attività produttiva, all’organizzazione o al funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (xii).

Va ancora evidenziato come la dimostrazione dell’impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse costituisca elemento che, sebbene inespresso a livello normativo, trova giustificazione nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, tesa ad attestare che non sia in alcun modo condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore(xiii).

In ordine all’onere di allegazione di posti disponibili per una utile ricollocazione, l’orientamento oramai del tutto prevalente della Cassazione afferma che grava indiscutibilmente ed in esclusiva sul datore di lavoro, talché esigere – come è stato anche affermato - che sia il lavoratore licenziato a spiegare dove e come potrebbe essere ricollocato all’interno dell’azienda significa, se non invertire sostanzialmente l’onere della prova (che – invece – la legge n. 604 del 1966, art. 5, pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro), quanto meno divaricare fra loro onere di allegazione e onere probatorio. Nel senso di addossare il primo ad una delle parti in lite e il secondo all’altra, effettuando una scissione che non si rinviene in nessun altro caso nella giurisprudenza di legittimità.

Invece, alla luce dei principi di diritto processuale, onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l’onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione (xiv).

Nello stesso senso, del tutto condivisibilmente, si è espressa Cass. n. 33341 dell’11/11/2022, affermando:«Occorre premettere al riguardo che secondo l'oramai consolidato orientamento di questa Corte in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di "repêchage" del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri." (cfr. tra le tante Cass. nn. 5592 e 12101 del 2016). Il lavoratore ha l'onere di dimostrare il fatto costitutivo dell'esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonché di allegare l'illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo, mentre incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del cd. "repêchage", ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore (cfr. Cass. n. 24882 del 2017). In sostanza sul datore di lavoro incombe la dimostrazione del fatto negativo costituito dall'impossibile ricollocamento del lavoratore che può essere data con la prova di uno specifico fatto positivo contrario o mediante presunzioni dalle quali possa desumersi quel fatto negativo (cfr. Cass. n. 23789 del 2019)».

Per completezza informativa va riferito che la Cassazione ha, altresì, affermato che, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano al momento del recesso i posti esistenti in azienda ai fini del repêchage, ove il lavoratore medesimo non indichi posizioni lavorative alternative oppure indichi le posizioni lavorative, a suo avviso disponibili ma queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la possibilità del predetto repêchage (xv).

i Giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno esteso l’obbligo di repêchage anche alle sedi estere di una multinazionale, affermando che sarebbe illegittimo - per mancato rispetto dell'obbligo di repêchage - il licenziamento del lavoratore, motivato dalla soppressione della posizione lavorativa da questi occupata, qualora il datore di lavoro non sia in grado di dimostrare di non poter ricollocare il medesimo in altri rami dell'azienda, ivi comprese le eventuali sedi estere della stessa. Nel caso esaminato i Giudici della Suprema Corte - ritenuto che il lavoratore interessato avesse adempiuto al suo onere di allegazione indicando una serie di uffici di rappresentanza dove, a suo parere, avrebbe potuto essere impiegato - hanno affermato che sarebbe stato onere della Società convenuta dimostrare che non era possibile impiegare il dipendente altrove, né in Italia né in altre sedi estere.

É stato altresì asserito, da Cass. 18/3/2010, n. 6559 (xvi) che: «Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni tecniche, organizzative produttive è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. Pertanto, spetta al giudice il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, e l'onere probatorio grava per intero sul datore di lavoro, che deve dare prova anche dell'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, onere che può essere assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva ed indiziaria, mentre il lavoratore ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di reimpiego».

Nello stesso senso Cass. 13/8/2008 n. 21579 (xvii), secondo cui: «In caso di licenziamento per giustificato motivo, il datore di lavoro che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore per l'espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, ma anche di aver prospettato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, purché tali mansioni siano compatibili con l'assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall'imprenditore».

3.Licenziamento per g.m.o. volto ad ottimizzare e/o riequilibrare i conti economici gestionali

Nella giurisprudenza di merito, ove l’applicazione dei principi di diritto si imbatte in fattispecie concrete, è stato asserito che: «Presupposti della legittimità del licenziamento sono l'effettività delle ragioni organizzative e/o produttive poste a fondamento del recesso, che devono trovare fondamento in situazioni oggettive, e la sussistenza di un nesso causale tra tali ragioni e la soppressione del posto di lavoro, mentre la motivazione della scelta imprenditoriale di procedere alla riorganizzazione non è sindacabile dal giudice, rientrando nella libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. e può anche essere costituita da finalità di innovazione, risparmio dei costi o incremento dei profitti» (xviii).

In una sentenza resa dal Tribunale di Milano (xix) è stato altresì affermato che: «Nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento è riconducibile anche l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall'imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo un'effettiva necessità di riduzione dei costi; tale motivo oggettivo è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore, con la conseguenza che non è sindacabile nei suoi profili di congruità e opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato, non essendo, peraltro, necessario, ai fini della configurabilità del giustificato motivo, che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite e attribuite».

Nello stesso senso, la seguente affermazione:«Costituisce g.m.o. di licenziamento l'ipotesi di riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione, deciso per far fronte a situazioni sfavorevoli, che influiscano in modo decisivo sulla normale attività produttiva, dovendosi escludere che il rapporto di lavoro abbia più motivo di attendersi dal lavoratore la stessa utilitas che l'aveva indotto ad assumerlo, vale a dire lo stesso flusso di redditi che gli consente la valorizzazione del capitale investito» (xx).

Ancora si trova scritto, da parte della Cassazione, che: «Presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sono costituiti dall’effettività e obiettività delle ragioni aziendali addotte a giustificazione del recesso; dalla necessità che dette ragioni siano funzionali a fronteggiare situazioni sfavorevoli sopravvenute e contingenti, che influiscano sulla normale attività produttiva e impongano la riduzione dei costi, sì da doversene escludere il carattere pretestuoso e occasionale; dall’esistenza del nesso causale tra tali ragioni e l’atto datoriale; dall’effettiva soppressione del posto di lavoro, conseguente alla scelta aziendale» (xxi).

In senso conforme, ancora, è stato detto da altra sentenza di Cassazione, che: «Ai fini della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ferma restando la prova dell'effettività e della non pretestuosità del riassetto organizzativo operato, le ragioni inerenti all'attività produttiva possono sorgere, oltre che da esigenze di mercato, anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali che ne siano le finalità, quindi anche quelle dirette a un risparmio dei costi o all'incremento dei profitti, quale che ne sia l'entità» (xxii).

E stato altresì affermato che: «É illegittimo il licenziamento, disposto per motivi obiettivi, per cui sia mancato l'assolvimento del tentativo di repêchage e cioè di ricollocare altrimenti il lavoratore su tutte le sedi di lavoro anche di società collegate con unico centro decisionale, considerando l'impiego indifferenziato all'interno di uffici comuni a lavoratori provenienti dalle diverse società e altri elementi che fanno dedurre l'unicità dell'impresa ai fini giuridici» (xxiii).

Si registra altresì quanto segue: «Ai fini della configurabilità della ipotesi di soppressione del posto di lavoro, integrante – nell’impossibilità di una diversa collocazione del dipendente - il giustificato motivo oggettivo di recesso, non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, nel senso della loro assoluta, definitiva eliminazione nell'ottica dei profili tecnici e degli scopi propri dell'azienda di appartenenza, atteso che le stesse ben possono essere soltanto diversamente ripartite e attribuite nel quadro del personale già esistente, secondo insindacabili e valide, o necessitate, scelte datoriali relative ad una ridistribuzione o diversa organizzazione imprenditoriale, senza che detta operazione comporti il venir meno della effettività di tale soppressione»(xxiv).

5.Conclusioni

Effettuato questo nutrito excursus (anche) di massime giurisprudenziali, si possono raggiungere le seguenti conclusioni di sintesi:

a) il cd. repêchage implica l’onere primario datoriale di ricercare un’alternativa alla posizione di lavoro soppressa, congiunto alla prospettazione meramente collaborativa, a cura del lavoratore, di posizioni equivalenti da eventualmente rivestire;

b) in caso di comprovata inesistenza di posizioni equivalenti, viene considerato legittimo – su consenso del lavoratore – anche il cd. patto di demansionamento in mansioni dequalificate (ora contemplato anche normativamente, ex art. 3, D. Lgs. n. 81/2015), stante il valore primario del mantenimento dell’occupazione;

c) il licenziamento per g.m.o. subordinato all’obbligo di repêchage si legittima – stante la libertà d’impresa codificata nell’art. 41 Cost. – non solo a fronte di riassetti tecnico-organizzativi ma anche a scelte aziendali, insindacabili dal magistrato, di una riduzione non contingente dei costi, anche a fini di ricerca di mero profitto;

d) il cd. repêchage non costituisce alternativa al solo licenziamento cd. “eccedentario” richiedente una soppressione, più o meno ampia, di posizioni di lavoro, ma anche nei confronti della probabile perdita del posto per il prestatore che, per sopravvenuta invalidità psico-fisica parziale, non sia più idoneo a svolgere le mansioni originarie di assunzione, mentre può essere ancora impiegato in incombenze meno gravose e/o residuali, comunque aziendalmente utili dal punto di vista organizzativo/produttivo.

Note

i Conf. Cass. 11/2/2013 n. 3175, Pres. Amoroso Rel. Bandini.

ii Cfr., tra le molte, Cass. 19/8/04 n. 16305, Pres. Mattone, Rel. Balletti.

iii Così Cass. 7/1/05 n. 239, Pres. Senese, Rel.. D’Angelo; 30/8/00 n. 11427, Pres. Ianniruberto, Rel. Vidiri.

iv Ad es. Cass. 11/5/00 n. 6057, Pres. De Musis, Rel. Vigolo, o 20/5/09 n. 11720, Pres. Ianniruberto, Rel. Napoletano.

v Ex multis, Cass. 2/8/01 n. 10574, Pres. Saggio, Rel. Cellerino.

vi Cfr. Cass. 13/10/97 n. 9967, Pres. Pontrandolfi, Rel. Mazzarella.

vii Vedi, ad es., Cass. 6/11/96 n. 9684, Pres. Pontrandolfi, Rel. Trezza.

viii Cass. 7/8/98 n. 7755, Pres. La Torre, rel. Roselli, in D&L 1998, 1029.

ix Vedi, ad es., Cass. 13/8/08 n. 21579, Pres. Senese, Rel. Bandini.

x Vedi, ad es., Cass. 22/8/03 n. 12362, Pres. Mattone, Rel. Amoroso.

xi Vedi, ad es., Cass. 6/6/05 n. 11753, Pres. Ciciretti, Rel. Celentano.

xii In tal senso, una nutritissima giurisprudenza costituita da: Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 20436 del 2016, Cass. n. 160 del 2017, Cass. n. 9869 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017; v. pure, tra le più recenti, Cass. n. 24195 del 2020, Cass. n. 4673 del 2021, Cass. nn. 30950 e 30970 del 2022.

xiii Così, Cass. n. 24882 del 2017.

xiv Così, Cass. n. 749 del 12 gennaio 2023.

xv Cfr. Cass. nn. 12794 e 30259 del 2018 e Cass. n. 15401 del 2020.

xvi Pres. Sciarelli, Rel. Stile.

xvii Pres. Senese, Rel. Bandini, in Lav. nella giur. 2008, 1273.

xviii Così, Trib. Roma 4/11/2008, Giud. Trementozzi, in Lav. nella giur. 2009, 202.

xix Così, Trib. Milano 29/3/2008, Giud. Cincotti, in Lav. nella giur. 2008, 1171.

xx Così, Trib. Palermo 17/5/2007, Giud. Cavallaro, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di M. Novella e di P. Ichino.

xxi Così, Corte app. Roma 31/8/2005, Pres. Lanzellotto, Rel. Di Stefano, in Lav. nella giur. 2006, 615.

xxii Così, Cass. 10/5/2007 n. 10672, Pres. Ianniruberto, Rel. Stile.

xxiii Così, Trib. Ravenna 12/6/2006, ord., Est. R. Riverso, in Lav. nella giur. 2006, con commento di M. Miscione, 993.

xxiv Così, Cass. 14/6/00, n. 8135, Pres. Lanni, in Orient. giur. lav.2000, 742.

Allegato:

Cassazione civile ordinanza n.2895 2023

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