1. L'orientamento giurisprudenziale precedente e quello attuale riguardo al lavoratore divenuto inabile alle mansioni originarie
Il primo (e oramai superato) orientamento giurisprudenziale riconduceva l’inidoneità psicofisica alle mansioni originarie - conseguente a flessione dello stato di salute per malattia o infortunio – nella fattispecie disciplinata dagli artt. 1463 e 1464 del codice civile, concernente i contratti a prestazioni corrispettive (tra cui rientra pacificamente il rapporto di lavoro), secondo cui, stante il fatto che la prestazione di ciascuna delle parti trova causa nella prestazione dell’altra, «sono ad esso applicabili i principi dettati in via generale per ogni tipo di contratto dagli artt. 1256 e 1463 e ss. del codice civile, per cui la sopravvenuta impossibilità della prestazione (…) importa di regola la conseguenza della risoluzione del rapporto».
Questa iniziale configurazione del rapporto datore-lavoratore originava la legittimazione per il datore di lavoro – una volta accertata l’inabilità e quindi la ridotta capacità lavorativa del prestatore di lavoro, riferita alle normali ed abituali mansioni assegnategli – a recedere dal contratto ai sensi dell’art. 1464 del codice civile, secondo cui «quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto ad una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto, qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale».
Questa impostazione - che non teneva in alcun conto la specialità del rapporto di lavoro rispetto a quella generale civilistica per i contratti di scambio commerciali – fu oggetto di reiterate critiche in dottrina, recepite poi, seppur tardivamente, nella decisione a sezione unite della Cassazione n. 7755/1998.
Questa fondamentale decisione così si espresse: «Nel rapporto di lavoro subordinato la tutela dell’interesse del lavoratore all’adempimento trova il suo fondamento nei richiamati artt. 4 e 36 della Costituzione e serve quale criterio di interpretazione e di determinazione secondo buona fede degli effetti del contratto, il quale dà luogo non solo ad un rapporto di scambio ma inserisce il prestatore nella comunità d’impresa e destina la sua prestazione all’organizzazione produttiva. Ne discende che l’evento impeditivo, quale la sopravvenuta inidoneità ad una certa attività, dev’essere valutato, quanto alle sue conseguenze, in relazione agli obblighi di cooperazione dell’imprenditore-creditore, così tenuto non soltanto a predisporre gli strumenti necessari all’esecuzione del lavoro ma anche ad utilizzare appieno le capacità lavorative del dipendente nei limiti dell’oggetto del contratto, ossia nei già detti limiti posti dall’art. 2103 del codice civile.
Ciò induce a non accogliere la tesi secondo cui, divenuta parzialmente impossibile la prestazione lavorativa, il residuo interesse all’adempimento debba essere apprezzato soggettivamente – senza alcuna possibilità di controllo da parte del giudice, interprete del contratto – dall’imprenditore/creditore, a cui spetterebbe perciò un diritto potestativo di recesso, con la corrispondente situazione di mera soggezione del lavoratore.
Ammesso che l’infermità dia sempre luogo ad un’impossibilità parziale e non anche, talora, ad un semplice mutamento qualitativo della prestazione, è da osservare che la tesi dell’apprezzamento soggettivo di tale interesse è stata seguita in giurisprudenza con riferimento a contratti di scambio, quale la vendita (…), ma non è sostenibile per il contratto di lavoro, ove l’oggetto della prestazione coinvolge la stessa persona umana ed ove i già richiamati valori costituzionali impongono una ricostruzione dei rapporti d’obbligazione nell’ambito dell’organizzazione dell’impresa e secondo la clausola generale di buona fede, tale da attribuire con diversi criteri gli obblighi di cooperazione all’imprenditore».
Con tale decisione la Suprema Corte - ribaltando l’orientamento ultradecennale legittimante il licenziamento, ex art. 1464 cod. civ., del lavoratore divenuto inidoneo al disimpegno delle mansioni assegnategli - affermò che, anche per tale fattispecie, vige l'obbligo di repêchage asserito come condizione propedeutica per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 3, L. n. 604/1966. Pertanto, per necessaria chiarezza, il datore di lavoro, prima di poter licenziare per sopravvenuta inidoneità alle mansioni assegnate al lavoratore, avrebbe dovuto necessariamente sperimentare la possibilità di un reimpiego del medesimo in altre mansioni più consone al suo stato di salute, sempreché sussistenti in azienda, ed, al limite, anche in mansioni inferiori – con il consenso dell'interessato – in vista di consentirgli di salvare il bene dell'occupazione, superiore a quello della dequalificazione professionale, condizione oramai ritenuta necessaria per non incorrere nel divieto previsto dall'ultimo comma dell'art. 2103 c.c., contemplante la nullità di "patti contrari" finalizzati al declassamento.
I principi di diritto asseriti dalla Cassazione nel 1998 collimano con le considerazioni reiteratamente asserite e pubblicizzate, in precedenza (anni 1996 e ss.), da una parte minoritaria della dottrina - quella più sensibile alle problematiche sociali a cui noi stessi apparteniamo - tant’è che non è azzardato sostenere che le Sezioni Unite della Suprema corte si erano finalmente determinate a recepirle con propria autorevolezza.
Le considerazioni della dottrina erano state espresse tramite queste (o analoghe) formulazioni 1: «Le conclusioni raggiunte dall’orientamento rigorista, su di un piano di stretto diritto privato, vanno pertanto armonizzate con i principi pubblicistici in tema di promozionalità e difesa dell’occupazione (art. 4 Cost.), di non emarginazione e di integrazione sociale, di non colpevolizzazione delle minorazioni e delle flessioni dello stato di salute, principi tutti implicanti l’adattamento della prestazione – nei limiti di un riscontro organizzativo – alle mutate condizioni di salute del lavoratore. Il che significa che l’azienda non dovrà certo creare – per mero assistenzialismo – posizioni superflue ma che, al verificarsi dell’evento della “inabilità parziale”, essa dovrà verificare al suo interno se sussistono effettive incombenze o posizioni di lavoro compatibili con la menomazione ove egualmente impiegare, con apprezzabile proficuità, il lavoratore medesimo e, correlativamente dimostrare, nel caso di ricorso al licenziamento per g.m.o., che esso si è imposto, quale extrema ratio, per l’assenza di alternative. In tal modo – e secondo noi correttamente – viene inserita una così delicata fattispecie nell’orientamento postulante il repechage, prima dell’estromissione dall’azienda, orientamento consolidatosi … per legittimare, in caso di ristrutturazioni aziendali, il licenziamento per l’identica causale del giustificato motivo oggettivo».
In conseguenza dell’autorevole decisione delle sezioni unite della Cassazione, la giurisprudenza di merito e di legittimità valorizzò - in fattispecie di riscontro di inidoneità parziale alle precedenti mansioni da parte del lavoratore - gli obblighi incombenti sul datore di lavoro a prevenzione e tutela dello stato di salute, codificati nell’art. 2087 cod. civ., giungendo a stabilire, nella significativa decisione di Cass., sez. lav., 21 gennaio 2002, n. 572, i seguenti principi di diritto, cui si adeguerà tutta la giurisprudenza successiva: «L’art. 2087 c.c. impone, all'imprenditore, quale disposizione di chiusura di tutta la disciplina antinfortunistica ed anche indipendentemente dalle specifiche misure previste dalla legge per le varie lavorazioni, di adottare nell'esercizio della impresa tutte le cautele e gli accorgimenti che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza, la tecnica e le condizioni di salute dei dipendenti, si appalesino necessari ed idonei a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale degli stessi, adoperandosi, nei limiti delle varie esigenze e del bilanciamento degli opposti interessi, a creare le situazioni più favorevoli per ottenere dai propri lavoratori il miglior rendimento secondo le proprie capacità in ragione di salute, di idoneità e di adattamento di ognuno alle esigenze lavorative proprie dello specifico settore della impresa.
E’ giurisprudenza consolidata - in tema di legittimità del licenziamento del lavoratore disattendendo la sua richiesta di accertamento della possibilità di altro impiego in azienda, determinata dalle condizioni di salute - che una corretta interpretazione degli artt. 1463, 1464 Cod. Civile e 3 legge n. 604 del 1966 comporta che la sopravvenuta infermità permanente del dipendente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso datoriale dal contratto di lavoro subordinato, non è ravvisabile nella sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore, soprattutto se determinata da patologia strettamente ancorata al tipo di lavorazione, (…), ma può essere esclusa dalla possibilità di altra attività riconducibile, alla stregua di una interpretazione del contratto secondo buona fede, alle mansioni attualmente assegnate od a quelle equivalenti (ex art. 2103 Cod. Civile) o, in ipotesi di impossibilità, anche a mansioni inferiori purché accettate dal dipendente, a condizione che detta diversa attività sia utilizzabile nell'impresa secondo i finì programmati dalla stessa e nel quadro dell'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore (Cfr. S.U. n. 7755/1998; Cass. n. 7908/97).
Con il corollario che il datore di lavoro soddisferà l'onere, impostogli dall'art. 5 legge n. 604/1966, di provare il giustificato motivo di licenziamento, dimostrando che, nell'ambito del personale in servizio e delle mansioni già assegnate, un conveniente impiego dell'infermo non è possibile o, comunque, compatibile con il buon andamento dell'impresa, e fermo restando il contrapposto onere del lavoratore di contrastare la detta prova, indicando, a sua volta, specificamente le mansioni esercitabili e non nocive per la sua salute, nonché dimostrando la sua idoneità alle stesse» 2.
Da parte della giurisprudenza venne, peraltro, precisato che il limite dell’obbligo del datore di lavoro era rinvenibile nel non sconvolgimento dell’assetto organizzativo stabilito dall’imprenditore, assetto che non poteva essere stravolto per effetto della ricerca di postazioni cui adibire il lavoratore inidoneo. Giurisprudenza antecedente al 2015 si peritò di affermare che se è da ritenersi illegittimo il licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore alle mansioni assegnate - senza che il datore di lavoro abbia accertato se il prestatore di lavoro potesse essere addetto a mansioni diverse - è del pari non esigibile che il datore di lavoro disponga trasferimenti di altri lavoratori o alteri l’organigramma aziendale (Cassazione, n. 4757/2015). Impostazione moderatamente ridimensionata dalla giurisprudenza successiva che, in virtù dell’obbligo datoriale di dar corso ai c.d. “ragionevoli adattamenti” – di cui diremo al paragrafo 3 – tra di essi incluse altresì forme di redistribuzione dei compiti tra i colleghi dell’infermo a condizione che non risultassero pregiudizievoli dei diritti di quest’ultimi, la modifica degli orari, dei turni di lavoro e similari.
2. L’affermazione dell’obbligo di “repechage” del lavoratore colpito da sopravvenuta inidoneità parziale e l’illegittimità del licenziamento disposto senza la prova datoriale di aver assolto tale obbligo
Il principio etico e giuridico di sperimentare - per il lavoratore divenuto parzialmente inidoneo alle mansioni originarie per motivi di salute - l’obbligo di repêchage in mansioni diverse, primariamente equivalenti ma secondariamente anche inferiori in caso di loro insussistenza, affermato dalla Cassazione (SU n. 7755/1998 e successive), venne recepito successivamente anche dal legislatore (e quindi generalizzato), tramite l’ art. 42 del d. lgs. n. 81/2008 (quale modificato dall’art. 52 d.lgs. n. 165/2001), mediante la seguente formulazione: «Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all'articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un'inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza».
La giurisprudenza di legittimità, chiamata a pronunciarsi sull’interpretazione da fornire all’art. 42 del d.lgs. n. 81/2008, ha affermato che il legislatore «nell'inciso "ove possibile", ha inteso contemperare il conflitto tra il diritto alla salute ed al lavoro, da parte del prestatore e, dall'altra, al libero esercizio dell'impresa del datore di lavoro, ponendo a carico di quest’ultimo l'obbligo di ricercare - anche in osservanza dei principi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del rapporto - le soluzioni che, nell'ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti e idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore» (Cass. 1 luglio 2016, n. 13511). E – come ha avuto modo di precisare la successiva e più recente Cass. 18 novembre 2019, n. 29893 - «collegando l'obbligo di mantenimento in servizio del lavoratore all'obiettiva possibilità di reperire mansioni che gli consentano di espletare la prestazione senza pregiudizio per la sua salute, anche se con una compromissione della professionalità qualora vi sia accettazione di un demansionamento (senza contenere alcuna previsione limitativa del licenziamento, qualora le mansioni compatibili con lo status del lavoratore non siano rinvenute in azienda: cfr., Cass. 26 gennaio 2017, n. 2008)».
Peraltro ne consegue – come è stato asserito da Cass. n. 4757/2015 – l’illegittimità del licenziamento del lavoratore parzialmente inidoneo per ragioni di salute nei cui confronti il datore di lavoro non abbia dimostrato di aver sperimentato il ricorso all’utilizzo del cd. repêchage in mansioni equivalenti o anche inferiori, giacché è principio consolidato che in tema di inidoneità fisica al lavoro, l'impossibilità di utilizzazione di un lavoratore in mansioni equivalenti, in ambiente compatibile con il suo stato di salute, deve essere provata dal datore di lavoro, «sul quale incombe anche l'onere di contrastare eventuali allegazioni del prestatore di lavoro, nei cui confronti è esigibile una collaborazione nell'accertamento di un possibile repêchage in ordine all'esistenza di altri posti di lavoro nei quali possa essere ricollocato» (così, Cass. n. 4920/2014).
3. L’obbligo di repêchage affiancato - prima giurisprudenzialmente e poi legislativamente - dall’onere aziendale di porre in atto i c.d. “ragionevoli adattamenti”
Nel frattempo, in data 27 novembre 2000, a livello comunitario veniva emanata la Direttiva 2000/78/CE (avente finalità antidiscriminatorie), diretta ad assicurare - ai lavoratori affetti, originariamente o per eventi sopravvenuti, da handicap - parità di trattamento con i lavoratori normali. Quanto alla nozione di «handicap» la sua specificazione è stata effettuata, in epoca successiva, da parte delle pronunzie rese dalla Corte di Giustizia, tenuto conto dell’avvenuta ratifica - da parte della Unione Europea (con decisione 2010/48) – della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD) del 2006. L’articolo 1, comma 2, della precitata Convenzione ONU così determina la platea delle persone disabili: «Le persone con disabilità includono quanti hanno minorazioni fisiche, mentali intellettuali o sensoriali a lungo termine che, in interazione con varie barriere, possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri».
A seguito di ulteriore giurisprudenza comunitaria (cfr. Sent. CGUE 11 aprile 2013 C- 335/11 e C-337/11), l’inidoneità parziale è stata, pertanto, ricondotta nell’ampia fattispecie della disabilità (quale sopra specificata), con la conseguenza dell’estensione al lavoratore (colpito da sopravvenuta inidoneità alla mansione) di garanzie per la conservazione del posto di lavoro addizionali al cd. repêchage, consistenti nell’approntamento da parte datoriale di “ragionevoli adattamenti” compatibili con il suo minorato stato di salute, finalizzati al mantenimento dell’occupazione ed a garantirgli una vita professionale in condizioni di uguaglianza con gli altri lavoratori. Con la conseguenza che il loro mancato approntamento è stato ritenuto configurare discriminazione indiretta e l’eventuale licenziamento attualizzare la fattispecie del licenziamento discriminatorio (con applicazione della reintegra ex art. 18 Statuto dei lavoratori e non quella del licenziamento ingiustificato per carenza del giustificato motivo oggettivo addotto dall’azienda). Pertanto anche con conseguenze indennitarie diverse.
La fattispecie della disabilità o di handicap, è stata oramai stabilmente individuata dalla giurisprudenza comunitaria in questi termini: «La nozione di handicap di cui alla Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27.11.2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica, causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata».
In ambito nazionale, la giurisprudenza ed i principi comunitari sono stati recepiti con il decreto-legge 28 giugno 2013, n. 76 (art. 9, comma 4-ter), convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 99, inserendo - nel testo del D. lgs. 9 luglio 2003 n. 216, (recante attuazione della direttiva - all'articolo 3, un comma 3 bis del seguente tenore: «Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all'attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente».
Quanto ai c.d. “accomodamenti ragionevoli” o “ragionevoli adattamenti”, conseguenti all’applicazione della direttiva n. 78/2000/CE del 27 novembre 2000 sulla parità di trattamento in materia di occupazione, l’art. 5 della medesima dispone che: «per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato...». Con la conseguenza che il limite di un’onerosità non proporzionata, eventualmente eccepito dall’azienda, sarà accertabile giudizialmente in caso di controversia.
Questa disposizione (cioè il citato art. 5 della direttiva n. 78/2000/CE) costituisce oramai uno stabile principio di diritto, recepito dal consolidato orientamento della nostra giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Cass. 6798/2018, Cass. 27243/2018, Cass.6678/2019).
I c.d. “ragionevoli adattamenti” – non tipizzati legislativamente - sono stati oggetto di individuazione, sia da parte della Cassazione, peraltro con specifico riferimento ai casi che ad essa sono pervenuti, sia in maniera più generale da parte delle prime decisioni di merito, tra cui Trib. Pisa del 16 aprile 2015 3, Trib. Ivrea del 24 febbraio 20164 e Trib. Firenze del 19 marzo 2020 n. 150 5
Il Tribunale di Pisa individua i c.d. “accomodamenti ragionevoli” – relativamente alle persone con disabilità (nozione estensivamente intesa, ex art. 2 Convenzione ONU, come afferente non solo ai disabili destinatari delle assunzioni obbligatorie ma alla condizione di tutti coloro che, abili all’atto dell’assunzione, in corso di rapporto siano stati oggetto di malattia/infortunio implicante una limitazione psico-fisica di lunga durata) – recependo le statuizioni della sentenza CGE 4 luglio 2013, in causa Commissione/Repubblica Italiana. Ove si precisa che, a mente dell’art. 5 della direttiva 2000/78, debbono intendersi come tali «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati, ove ve ne sia necessità, in casi
particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento o l’esercizio su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali (…), mentre il ventesimo e il ventunesimo considerando della Direttiva 2000/78 prevedono l’introduzione di misure appropriate ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti, o fornendo mezzi di formazione o inquadramento. Per determinare se le misure in questione non danno luogo a oneri finanziari sproporzionati è necessario tenere conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e risorse finanziarie dell’organizzazione dell’impresa, della possibilità di ottenere fondi pubblici o sovvenzioni».
La misura organizzativa oggetto dei “ragionevoli accomodamenti” viene, peraltro, individuata dal Giudice, per la fattispecie oggetto della controversia, nella «sola redistribuzione di taluni compiti tra i dipendenti addetti al magazzino (…) non averla adottata costituisce violazione del generale principio di parità di trattamento dei lavoratori portatori di handicap posto dalla Direttiva 2000/78 e nell’ordinamento interno dal d. lgs. 216/2003».
Anche il Tribunale di Ivrea, con ordinanza del 24.2.2016, ritiene che «l’obbligo di adottare tutte quelle ragionevoli misure di adattamento che siano richieste dalla situazione concreta per evitare il licenziamento del lavoratore divenuto inidoneo all’espletamento delle proprie mansioni, si riferisca ad una nozione di handicap più estesa di quella impiegata dalla legge 68/99 in relazione alle diverse categorie e ai corrispondenti diversi gradi di inabilità intorno a cui sono state disegnate le norme sull’avviamento al lavoro dei disabili».
In particolare, il Tribunale riprende e riconferma in ambito nazionale la nozione di “handicap” delineata a livello europeo, comprendente tutte le persone che «per una minorazione fisica, psichica, sensoriale o intellettuale, soffrono di un deficit di integrazione nella vita professionale o nel rapporto di lavoro», le quali «risultano quindi protette dall’obbligo delle soluzioni ragionevoli ora espressamente recepite dal d. lgs. 216/2003»; cosicché rientrano in tale nozione i lavoratori destinatari di provvedimenti di inidoneità sopravvenuta alla mansione, in ragione di menomazioni fisiche psichiche sensoriali che possano ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale.
Ne consegue l’affermazione, per il caso esaminato, che sul datore di lavoro graverà l’onere di adempiere all’obbligo dei “ragionevoli adattamenti”, obbligo che «dovrà essere commisurato a tutte le misure atte a scongiurare l’espulsione di tale lavoratore anche modificando l’assetto organizzativo aziendale, con il solo limite della comprovata sproporzione degli oneri finanziari a tal fine necessari».
Osserva, infine, il Giudice che l’obbligo di approntare i c.d. “ragionevoli adattamenti” condiziona il potere di recesso del datore di lavoro, e che tutte le specifiche previsioni di legge devono essere interpretate alla luce di tale obbligo generale che concorre a «disegnare una tutela unitaria proprio perché abbraccia tutte le situazioni alle quali si riferisce l’art. 3, comma 3 bis, del d. lgs. 216/2003».
Giungendo, pertanto, alla conclusione di carattere generale che «l’adibizione a mansioni equivalenti o in mancanza inferiori», disposta dall’art. 42 del d. lgs. 81/2008, «costituisce soltanto uno dei ragionevoli adattamenti rientranti nell’obbligo generale imposto dall’art. 3, comma 3 bis, del d. lgs. 216/2003. Non è quindi sufficiente che il datore di lavoro dimostri di non poter reperire una mansione equivalente o inferiore, all’interno della organizzazione aziendale, ma dovrà dimostrare che gli adattamenti, anche di natura organizzativa, che sarebbero nella specie effettivamente necessari per consentire la ricollocazione del lavoratore divenuto inidoneo alla specifica mansione, gli imporrebbero la sopportazione di un onere finanziario irragionevole, vale a dire sproporzionato nel senso precisato dall’art. 5 della Direttiva 2000/78».
Asserendo, infine, che «la prova della impraticabilità degli adattamenti necessari, ovvero della loro irragionevolezza e sproporzione finanziaria dovrà essere fornita dal datore di lavoro in termini concreti e rigorosi, tenendo quindi conto di tutte le soluzioni disponibili, quali la redistribuzione delle mansioni, il cambiamento dei turni, la riduzione o rimodulazione dell’orario di lavoro, nonché gli interventi di carattere materiale, come il riallestimento della postazione lavorativa».
In termini analoghi si esprime il Tribunale di Firenze (nella citata decisione del 19 marzo 2020) – resa in fattispecie di licenziamento dichiarato nullo, per mancata adozione datoriale dei c.d. “ragionevoli adattamenti” (posticipazione di 2 ore di ciascun turno di lavoro: mattutino, pomeridiano e serale) nei confronti di un disabile – laddove afferma che: «ai sensi dell’art. 2 della Convenzione dell’ONU richiamata dall’art. 3, comma 3-bis, D.lgs. 216/2003, per “accomodamenti ragionevoli” si intendono “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali” (…) La nozione di “accomodamento ragionevole” che impone al datore di lavoro di modificare la propria organizzazione per salvaguardare il diritto dei dipendenti a svolgere mansioni compatibili con il proprio stato di salute implica che tale modifica non deve essere tale da imporre al medesimo datore di lavoro modifiche di tale entità da sconvolgere l’assetto organizzativo dell’impresa. La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, avuto modo di precisare che “[…] l’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale attività, ad attività diverse e riconducibili alla stessa mansione, o ad altra equivalente, o anche a mansione inferiore, può essere rifiutata legittimamente dall’imprenditore se comporti (non meri aggravi organizzativi come statuito da Cass. S.U. n. 7755 del 1998, bensì) oneri organizzativi eccessivi (da valutarsi in relazione alle peculiarità dell’azienda ed alle relative risorse finanziarie) e, in particolare, se derivi, a carico di singoli colleghi dell’invalido, la privazione o l’apprezzabile modificazione delle modalità di svolgimento della loro prestazione lavorativa che comportino l’alterazione della predisposta organizzazione aziendale” (Cass., sez. lav., n. 27243/2018)».
A conclusione, e per contiguità con quanto in precedenza esaminato, va detto che, come per il caso in cui il datore di lavoro incorra nella violazione dell’art. 2087 cod. civ. per mancata predisposizione delle misure a tutela della salute del lavoratore - ivi inclusa l’inosservanza all’obbligo di sottrarlo da mansioni accertate sanitariamente (dal medico competente o da strutture sanitarie pubbliche) come pregiudizievoli per la salute - anche nel caso in cui il datore di lavoro non si attivi tempestivamente a porre in atto i c.d. “ragionevoli adattamenti”, le eventuali e comprovate assenze per malattia riconducibili (per attestazione sanitaria pubblica o meglio per perizia medica equipollente) come conseguenti al comportamento inadempiente datoriale, non sono computabili nel cd. periodo di comporto ai fini del suo esaurimento e del conseguente provvedimento di risoluzione automatica del rapporto (cfr. Cass. 4/2/2020 n. 2527 6; Cass. 28/3/201 n. 7037; Cass.3351/1996).
1 Così Meucci M., nell'articolo Il diritto alla flessibilità delle mansioni accordato dall'art. 2103 c.c. all'impresa e negato ai lavoratori colpiti da sopravvenuta inidoneità psico/fisica, in Riv. crit. dir. lav. 1996, 35.
2 Cass. sez. lav. 21 gennaio 2002, n. 572, trovasi in Not. giurisp. lav. 2002, 259; Riv. crit. dir. lav. 2002, 426; Riv. it. dir. lav. 2002, II, 865 con nota di P. Albi.
3 Trib. Pisa, 16 aprile 2015, Arg. Dir. Lav., 2016, II.
4 Trib. Ivrea, 24 febbraio 2016, Riv. Giur. Lav., 2016, II, 366.
5 Trib. Firenze , 19 marzo 2020 n. 150, Bollettino Adapt, 2021, n. 8.
6 In armonia con un orientamento di legittimità del tutto consolidato, la precitata sentenza di Cassazione afferma quanto segue:«le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale sono riconducibili, in linea di principio, all’ampia e generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 cod. civ., comprensiva anche di dette specifiche categorie di impedimenti dovuti a cause di lavoro, e sono pertanto normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro previsto nel citato art. 2110, la cui determinazione è da questa norma rimessa alla legge, alle norme collettive, all’uso o all’equità. La suddetta computabilità nel periodo di comporto non si verifica, peraltro, nelle ipotesi in cui l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell’ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell’attività lavorativa, ma altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all’obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., norma che gli impone di porre in essere le misure necessarie – secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica – per la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l’impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata (Cass. n. 3351/1996)».