Straining e mobbing: un minus rispetto ad un plus

Straining e mobbing: un minus rispetto ad un plus

La Suprema Corte con l’ordinanza n. 10725 del 17 aprile 2019 ribadisce alcuni principi ormai consolidati in giurisprudenza in tema di mobbing lavorativo.

Lunedi 13 Maggio 2019

Per mobbing si intende una condotta tenuta dal datore di lavoro, o da anche da un superiore gerarchico del prestatore di lavoro subordinato, sistematica e protratta nel tempo e che abbia il contenuto di comportamenti ostili e prevaricatori nei confronti del lavoratore, anche con una possibile mortificazione ed emarginazione del prestatore di lavoro, che ledono l’equilibrio psico – fisico dello stesso provocandogli anche un danno alla salute.

L’imprenditore è responsabile civilmente dei danni provocati al lavoratore per il comportamento “mobbizzante” perché viola il c.d. diritto alla sicurezza sul posto di lavoro sancito dagli articoli 2,32 e 41 della Costituzione e dall’art. 2087 c.c.v. (l’art. 2087 così recita: “L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”).

Si legge nell’ordinanza n. 10725/2019 : “ …ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assuma di aver subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica: sicchè la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata (Cassazione 10 novembre 2017, n. 26684; Cass. 21 maggio 2018, n. 12437)”;

“il mobbing si caratterizza, quindi, non solo per una serie di comportamenti illeciti protrattisi nel tempo a danno del lavoratore unificati tra loro da un intento persecutorio; l’onere della prova è a carico del lavoratore; scrivono, ancora, gli Ermellini, nella ordinanza in esame:

“....pertanto la responsabilità per mobbing deve essere, come è, inquadrata nell’ambito applicativo dell’art. 2087 c.c, in quanto ricollegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento ( Cass. 29 gennaio 2013 n. 2038; Cass. 5 novembre 2012 n. 18927; Cass. 25 luglio 2013, n. 18093): siccome in violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dal citato art. 2087...”.

In definitiva per aversi mobbing deve sussistere una “strategia” del datore di lavoro concretizzantesi in una serie di comportamenti di natura persecutoria e/o vessatoria nei confronti del lavoratore e che danneggiano la sua integrità psico – fisica. Spesso è accaduto che il datore di lavoro dopo una serie di comportamenti di tal tipo abbia anche provveduto a licenziare il prestatore di lavoro ovvero abbia provveduto al licenziamento qualificandolo come licenziamento economico ovvero con un giustificato motivo oggettivo dopo aver tenuto una serie di comportamenti “mobbizanti”; “E' ritorsivo il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo ritenuto insussistente, allorquando l'effettiva ragione del recesso sia rappresentata dal contenzioso instaurato, dal medesimo lavoratore, allo scopo di accertare un suo precedente demansionamento” (Cass. Civ. 03 novembre 2016 n. 22323).

La prova che il licenziamento sia l’ulteriore conseguenza di una serie di comportamenti caratterizzati da un intento persecutorio rende il licenziamento discriminatorio; la sanzione per il datore di lavoro, indipendentemente dal numero di lavoratori occupati nella sua azienda e anche sotto il regime del Job Act, in tal caso è quella della reintegra nel posto di lavoro del lavoratore e un’indennità risarcitoria. Il licenziamento discriminatorio come anche quello ritorsivo viene sanzionato dal nostro ordinamento con la tutela reale piena indipendentemente dal numero di persone occupate nell’impresa.

E se le condotte non sono continuative ovvero manca il carattere dell’intento persecutorio, ma sono pur sempre vessatorie e /o prevaricatrici della dignità e ledono la salute del lavoratore, vi è in questo caso una forma di tutela? Alla domanda ha dato risposta la Suprema Corte con due pronunzie – ordinanza del 10 luglio 2018 n. 18164 e l’ordinanza n. 3977/2018 - che ci consentono anche di dare una definizione di straining.

Lo straining non è altro che una forma attenuata di mobbing che si caratterizza per il fatto che le azioni vessatorie non hanno il carattere della continuità ma che provocano situazioni stressogene per il lavoratore violando così pur sempre l’art. 2087 c.c. e sono, quindi, da dichiarare condotte illecite generatrici di un danno per il lavoratore che va risarcito; “tanto precisato si osserva che questa Corte ha già affermato, con indirizzo cui il Collegio intende dare continuità, che lo straining altro non è se non una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 cod. civ., norma di cui da tempo è stata fornita un'interpretazione estensiva costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 Cost. (v. Cass. 4 novembre 2016, n. 3291 e la recente Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977);

Così nelle decisioni citate è stato precisato che non integra violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. l'aver qualificato la fattispecie come straining mentre in ricorso si sia fatto riferimento al mobbing, in quanto si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale, per identificare comportamenti ostili, in ipotesi atti ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni "stresso gene" che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (sul punto, la già citata Cass. n. 3291/2016 e la più recente Cass. 29 marzo 2018, n. 7844); nella fattispecie, dunque, non poteva essere considerata preclusiva di una valutazione della condotta datoriale come straining la prospettazione, nel ricorso di primo grado, di tale condotta come mobbing, non sussistendo alcuna novità della questione” ( Cass. Sez. lavoro, ordinanza 10 luglio 2018 n. 18164).

Nell’ ordinanza 3977/2018 la Cassazione, ancor più chiaramente scrive: “si è, quindi, evidenziato che non integra violazione dell'art. 112 c.p.c. l'avere utilizzato "la nozione medico-legale dello straining anzichè quella del mobbing" perchè lo straining altro non è se non " una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie.." azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 c.c.; al principio di diritto enunciato il Collegio intende dare continuità perchè dell'art. 2087 c.c. questa Corte ha da tempo fornito un'interpretazione estensiva, costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 Cost.; l'ambito di applicazione della norma è stato, quindi, ritenuto non circoscritto al solo campo della prevenzione antinfortunistica in senso stretto, perchè si è evidenziato che l'obbligo posto a carico del datore di lavoro di tutelare l'integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore gli impone non solo di astenersi da ogni condotta che sia finalizzata a ledere detti beni, ma anche di impedire che nell'ambiente di lavoro si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità della persona; la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. sorge, pertanto, ogniqualvolta l'evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad un comportamento colposo, ossia o all'inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell'esercizio dei diritti;”.

Lo straining rappresenta una forma attenuata del mobbing, nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, azioni che, peraltro, ove si rilevino produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull’art. 2087 c.c. interpretato alla  luce degli artt. 32, 41 e 2 della Costituzione per  tutelare dei beni essenziali e primari quali sono la salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona. Il datore di lavoro sarà ritenuto responsabile ogniqualvolta l’evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad un comportamento colposo, ossia all’inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti dal mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell’esercizio dei diritti.

Con la tutela apprestata nel caso di straining i lavoratori che subiscono atti discriminatori nei luoghi di lavoro possono ottenere il risarcimento del danno laddove non riescano a provare il più difficile danno da mobbing. la posizione più favorevole al lavoratore espressa dalla Cassazione , tuttavia, rischia di comprimere il potere organizzativo del datore di lavoro, in contrasto con le regole sull'onere probatorio espresse dagli stessi giudici sia  in materia di mobbing che di straining con una prova rigorosa a carico dei lavoratori.

Allegato:

Cassazione|Sezione L|Civile|Ordinanza|17 aprile 2019| n. 10725


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