La risoluzione del rapporto per superamento del comporto di malattia

La risoluzione del rapporto per superamento del comporto di malattia

Preventiva comunicazione al lavoratore dell’approssimarsi dell’esaurimento del comporto, nozione di malattia ed equiparazione ad essa dell’infortunio, non computabilità nel comporto delle assenze per infermità indotte dal comportamento datoriale, la legittimità del licenziamento per giusta causa in costanza di malattia.

Giovedi 8 Aprile 2021

Sommario 

  • 1) Cenni generali 
  • 2) Sulla presunta obbligatorietà della preventiva comunicazione al lavoratore dell’approssimarsi dell’esaurimento del comporto
  • 3) Nozione di malattia ed equiparazione ad essa dell’infortunio
  • 4) Non computabilità nel comporto delle assenze per infermità indotte dal comportamento datoriale
  • 5) La legittimità del licenziamento per giusta causa in costanza di malattia

  

1. Cenni generali

Il trattamento spettante al lavoratore in caso di malattia (e infortunio) è disciplinato dall’art. 2110 cod. civ., il quale riconosce al lavoratore:

a) la conservazione del posto di lavoro;

b) la corresponsione della retribuzione o di una indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dalle norme contrattuali, dagli usi o secondo equità, salvo che non siano previste forme equivalenti di previdenza e di assistenza.

La Cassazione ha riepilogato i motivi della protezione accordata dal legislatore allo stato di malattia, sin dalla lontana decisione dell’11 dicembre 1995 n. 126851.

Lo stato di malattia (cui è normalmente equiparato, quanto agli effetti, l’infortunio) costituisce un caso d’impossibilità temporanea sopravvenuta della prestazione lavorativa. Applicando le norme generali sulle obbligazioni - in particolare gli artt. 1256 e 1463 cod. civ., - in una situazione del genere nulla dovrebbe essere corrisposto al lavoratore e il rapporto di lavoro si dovrebbe estinguere, se il datore di lavoro non avesse più interesse alla sua prosecuzione.

In deroga a questi principi, invece, il rapporto continua, come disposto dall’art. 2110, 2° co., cod. civ., per il periodo di comporto fissato dalla legge, dai contratti collettivi dagli usi o secondo equità, e ciò malgrado sia cessata temporaneamente l’obbligazione principale del lavoratore di prestare la sua collaborazione al datore di lavoro.

Permane inoltre, durante tale periodo, il diritto alla retribuzione o ad una indennità, secondo quanto normativamente stabilito o contrattualmente fissato, nonché il rapporto assicurativo e il periodo di assenza viene computato ai fini dell’anzianità e del trattamento di fine rapporto.

Il periodo per il quale, al lavoratore assente per malattia o infortunio, viene garantita la conservazione del posto e del trattamento retributivo (o indennitario), si definisce “comporto” e, di norma, viene fissato dai contratti collettivi.

Al riguardo, si distinguono due tipologie: il cd. comporto “secco” e quello per “sommatoria”.

Il primo ricorre quando la contrattazione collettiva si limita a prevedere il periodo di conservazione del posto con riferimento ad un’unica malattia continuativa; il secondo, invece, quando il periodo di conservazione del posto viene riferito a plurime malattie frazionate, intervallate da riprese lavorative, talché il periodo di comporto definito contrattualmente assicura il mantenimento dell’occupazione fintanto che la morbilità intermittente non abbia superato, per sommatoria dei singoli episodi, cumulativamente, un periodo massimo, ad esempio 180 giorni (cd. “termine interno”) nell’arco di 3 anni (cd. “termine esterno”, di norma coincidente con il periodo di vigenza del ccnl).

Come ebbe a dire Cass. SS.UU. n. 12568/2018, nell’art. 2110, 2 cod. civ., si rinviene «un’astratta predeterminazione del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico, a tempo indefinito, del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale» .

Ne consegue la conclusione che il cd. “comporto”, mentre soddisfa, da un lato, l’esigenza di «ovviare a una situazione meritevole di particolare considerazione per il fatto che è indipendente dalla volontà del lavoratore, il quale (...) trae dal reddito di lavoro i mezzi per il sostentamento suo e della propria famiglia», dall’altro lato, definisce il periodo massimo di tolleranza aziendale della carenza di prestazione lavorativa, superato il quale il bilanciamento delle due esigenze contrapposte del prestatore infermo e del datore viene riconosciuto pregiudicato al punto tale da legittimare - previa formale intimazione di licenziamento - la risoluzione del rapporto. Peraltro in forma cd. automatica, cioè a dire priva di giustificazioni (a differenza di quanto ricorre per le tipologie del licenziamento per “giustificato motivo soggettivo”,“oggettivo” e per “giusta causa”), essendo sufficiente che, nella comunicazione al dipendente, il datore di lavoro specifichi come causale l’avvenuto superamento del periodo contrattuale massimo di conservazione del posto. Giacché Il licenziamento per superamento del comporto è dotato di una disciplina peculiare in quanto ai fini della sua irrogazione rileva il solo elemento oggettivo del superamento del numero massimo di giorni di assenza per malattia o infortunio da parte del dipendente.

Quanto al calcolo del periodo di comporto la Cassazione (sentenze nn. 22928/2019 e 13816/2000) ha espressamente precisato che in esso rientrano tutti i giorni di calendario intercorrenti tra l’inizio della malattia o infortunio (quindi, festivi inclusi), e il rientro al lavoro, in ragione di una presunzione di ininterrotta continuità dell’evento morboso che può essere smentita solo dalla dimostrazione dell’avvenuta ripresa dell’attività lavorativa.

L’assicurato diritto alla conservazione del posto di lavoro, durante l’assenza per malattia o infortunio, comporta che il licenziamento per “giustificato motivo” (disciplinare o economico, pertanto diverso da quello per “giusta causa” che, per la gravità intrinseca del comportamento che l’ha occasionata, determina la cessazione immediata del rapporto) eventualmente intimato dal datore di lavoro, nel periodo di assenza per infermità del lavoratore, è inefficace; di conseguenza, soltanto dopo il rientro in servizio per cessazione dell’evento morboso, tale inefficacia viene meno e inizia a decorrere il periodo di preavviso.

Come anticipato, tale principio subisce tuttavia, un’eccezione nell’ipotesi in cui si sia in presenza di licenziamento per “giusta causa”. Infatti, al ricorrere di tale ipotesi, il licenziamento è sempre valido ed efficace, in quanto lo stato di malattia/infortunio del lavoratore non preclude il licenziamento in tronco, non avendo ragione d’essere la conservazione del posto di lavoro – seppure in periodo di malattia o infortunio - di fronte alla riscontrata esistenza di una causa che non consente (ex art. 2119 cod .civ.) la prosecuzione, neppure in via temporanea del rapporto di lavoro.

2. Sulla presunta obbligatorietà della preventiva comunicazione al lavoratore dell’approssimarsi dell’esaurimento del comporto

La giurisprudenza di legittimità, esprimendosi sul presunto onere datoriale di preavvertire il lavoratore dello scadere del comporto quale condizione propedeutica alla legittimazione del licenziamento, ne ha negata la giuridica obbligatorietà, ammettendola in via residuale - alla maniera di una mera cortesia - solo dietro espressa richiesta del lavoratore, in dipendenza dell’obbligo comportamentale reciproco, improntato a correttezza e buona fede.

Quindi, in linea di principio e di norma, un simile dovere non sussiste in capo all’azienda atteso che: «nella fattispecie di recesso del datore di lavoro per l'ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), la risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell'adempimento, in cui il dato dell'assenza dal lavoro per infermità ha una valenza puramente oggettiva; ne consegue che non rileva la mancata conoscenza da parte del lavoratore del limite cosiddetto esterno del comporto e della durata complessiva delle malattie e, in mancanza di un obbligo contrattuale in tal senso, non costituisce violazione - da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buonafede nella esecuzione del contratto - la mancata comunicazione al lavoratore dell'approssimarsi del superamento del periodo di comporto, in quanto tale comunicazione servirebbe in realtà a consentire al dipendente di porre in essere iniziative, quali richieste di ferie o di aspettativa, sostanzialmente elusive dell'accertamento della sua inidoneità ad adempiere l'obbligazione» (cfr. Cass. 26 maggio 2005 n. 11092 e Cass. 28 giugno 2006 n. 14891, cui adde, di recente, Cass., sez. lav., 11 settembre 2020, n. 18960).

Anche la richiesta del lavoratore a che l’azienda gli comunichi, con precisione e analiticamente, i giorni delle assenze effettuate, computabili ai fini del comporto, non è stata considerata un obbligo in capo al datore pretendibile dal lavoratore, per cui è stato asserito che: «Il licenziamento per superamento del periodo di comporto è assimilabile non già ad un licenziamento disciplinare, sebbene ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, causale di licenziamento a cui si fa riferimento anche per le ipotesi di impossibilità della prestazione riferibile alla persona del lavoratore diverse dalla malattia. Solo impropriamente, riguardo ad esso, si può parlare di contestazione delle assenze, non essendo necessaria la completa e minuta descrizione delle circostanze di fatto relative alla causale e trattandosi di eventi, l'assenza per malattia, di cui il lavoratore ha conoscenza diretta. Ne consegue che il datore di lavoro non deve indicare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, idonee ad evidenziare un superamento del periodo di comporto in relazione alla disciplina contrattuale applicabile, come l'indicazione del numero totale delle assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato» (così, Cass. 26 maggio 2005 n. 11092 e Cass. 28 giugno 2006 n. 14891; contra, Cass., 20 dicembre 2002 n. 18199 2).

Opinione condivisa anche da diverse decisioni di merito – per tutte Trib. Milano 31 agosto 2004 - così espressosi: «Nel rapporto di lavoro i principi di correttezza e buonafede rilevano, come norme di relazione con funzione di fonti integrative del contratto (art. 1374 c.c.), ove ineriscano a comportamenti dovuti in relazione ad obblighi di prestazione imposti al datore di lavoro dal contratto collettivo o da altro atto di autonomia privata; ne consegue che, in assenza di qualsiasi obbligo previsto dalla contrattazione collettiva, il datore di lavoro non ha l'onere di avvertire preventivamente il lavoratore della imminente scadenza del periodo di comporto per malattia (…)».

Se la mancata comunicazione da parte del datore di lavoro è da considerarsi, di regola, legittima in quanto non sussiste, al riguardo, alcun obbligo in capo all’azienda, talune decisioni di merito – quali, Trib. Santa Maria Capua Vetere, n. 20012/2019 e Trib. Milano, n. 2857/2016 - hanno asserito che la preventiva comunicazione dell’imminente esaurirsi del comporto si impone come obbligatoria nei confronti dei lavoratori disabili3. Con la motivazione secondo cui, estendere ad essi l’identico trattamento ostativo praticato legittimamente ai lavoratori normali, occasionerebbe la fattispecie di una discriminazione indiretta (a norma dell’art. 2 del d. lgs. n. 216 del 2003 attuativo della direttiva 2000/87/CE riguardante la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), idonea, pertanto, ad inficiare la validità del licenziamento intimato per superamento del comporto. Discriminazione indiretta che, notoriamente, ricorre quando un comportamento – apparentemente neutro per la generalità delle persone normali – risulta, invece, pregiudizievole (o maggiormente pregiudizievole) per coloro che versano, come i disabili, in una particolare condizione di disagio e di maggiore difficoltà degli altri anche nel tenere sotto controllo il novero delle assenze indottegli da malattie lunghe e di particolare gravità.

3. Nozione di malattia ed equiparazione ad essa dell’infortunio

In giurisprudenza è stato asserito che l’art. 2110 cod. civ. – assicurante la conservazione del posto per il periodo di comporto contrattuale – non fa alcuna distinzione tra assenza per malattia e assenza per infortunio.

In tal senso si è espressa la Cassazione sin dalla fine del secolo scorso, secondo cui: «Le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale sono riconducibili, in linea di principio, all’ampia e generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’ art. 2110 cod. civ., comprensiva anche di dette specifiche categorie di impedimenti dovuti a cause di lavoro, e sono pertanto normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro previsto nello stesso art. 2110, la cui determinazione è da questa norma rimessa alla legge, alle norme collettive, all’ uso o all’equità»(4). Egualmente si è espressa Cass. 25/11/2004 n.22248, secondo cui: « Le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale - al pari delle assenze per malattie comuni - sono riconducibili, in linea di principio, all'ampia e generale nozione di infortunio o malattia (di cui all'art. 2110 c.c.), e tali sono parimenti computabili - in difetto di contraria (o comunque diversa) previsione della contrattazione collettiva - nel periodo di comporto».

Anche da parte di Cass. 9 settembre 2015, n. 17837, si sostiene che, ai fini del superamento del periodo di comporto contrattuale, la normativa legale non distingue tra assenze per malattia e assenze per infortunio, a meno che la loro sommatoria non sia, anche espressamente, esclusa dalla disciplina pattizia. Per la Suprema Corte compete, infatti, alla contrattazione collettiva di categoria regolamentare la disciplina del superamento del periodo di comporto, ai fini dell’intimazione del licenziamento al lavoratore.

Anche Cass. n. 5527/2016 conviene in tal senso, asserendo che, ai fini del superamento del periodo di comporto, «l’assenza per infortunio sul lavoro e quella dovuta a malattia professionale sono equiparate, e devono essere entrambe computate nel calcolo del limite complessivo, oltre il quale è esperibile la risoluzione del rapporto di lavoro».

Peraltro da Cass. 10 agosto 2012, n. 14377 5 è stato convincentemente sottolineato che «nessuna norma imperativa vieta che disposizioni collettive escludano dal computo delle assenze ai fini del cosiddetto periodo di comporto, cui fa riferimento il richiamato art. 2110, quelle dovute a infortuni sul lavoro, né tale esclusione – che è ragionevole e conforme al principio di non porre a carico del lavoratore le conseguenze del pregiudizio da lui subito a causa dell’attività lavorativa espletata – incontra limiti nella stessa disposizione che, come lascia ampia libertà all’autonomia delle parti nella determinazione di tale periodo, così non può intendersi preclusiva di una delle forme di uso di tale libertà, qual è quella di delineare la sfera di rilevanza delle malattie secondo il loro genere e la loro genesi (v., ex multis, Cass. 9187/1997)».

L’atteggiamento non univoco della giurisprudenza di legittimità riscontrato negli ultimi tempi, porta alla conclusione che, per raggiungere una certezza di equiparazione tra malattia ed infortunio – ai fini della cumulabilità delle relative assenze nel comporto – è necessario far riferimento esclusivo alla volontà delle parti espressa nel contratti collettivi. In mancanza, l’esclusione di cumulabilità delle assenze per infortunio con quelle per malattia (ovvero l’equiparazione ad esse), viene rimessa alla valutazione equitativa giudiziale.

3a. I controlli medico-fiscali sulla veridicità della malattia

Da questi principi discende, come conseguenza, che non solo le assenze per infortunio, di norma, si cumulano – salvo deroga migliorativa ed esonerativa, disposta a livello contrattuale collettivo – con quelle per malattia ai fini del superamento del comporto, ma che, durante l’infortunio, possono essere disposti gli stessi accertamenti medico-fiscali previsti – ex art. 5, l. n. 300/70 (cd. Statuto dei lavoratori) – per la malattia.

Tale orientamento sostenitore di una equiparazione dell’infortunio alla malattia – relativamente anche alla facoltà di controllo medico-fiscale durante le fasce orarie – si è imposto, nonostante una carente previsione legislativa6, eminentemente tramite recepimento, da parte delle formulazioni contrattuali, dell’opinione prospettata da Cass. 9 novembre 2002, n. 15773 (in causa Telecom SpA), che - dissentendo dai precedenti giurisprudenziali (riferiti in nota 4, correttamente assertori della riserva del controllo fiscale solo per la malattia) - ebbe a legittimare anche per l'infortunato il controllo domiciliare ex art. 5 Stat. lav. nelle fasce orarie per la malattia, sostenendo la sussistenza sul lavoratore infortunato di un dovere di disponibilità, o assoggettamento, al controllo dello stato di salute per infortunio, in ragione dei principi generali di correttezza e buona fede.

Pertanto, in adesione a quest’ultima precisazione della Suprema corte, in diversi CCNL l’infortunio è stato equiparato alla malattia anche ai fini dell’assoggettamento al controllo medico-fiscale, talora controbilanciando questa sottoposizione con la sottrazione delle assenze per infortunio dal computo cumulativo con le assenze per malattia, ai fini del superamento del periodo di conservazione del posto (cd. comporto).

Va sottolineato, altresì, come risulti prevalente in giurisprudenza l’orientamento secondo cui la perdita della retribuzione (o dell’indennità di malattia) sia correlata al solo evento dell’assenza ingiustificata dal domicilio, a prescindere quindi dall’effettività della malattia, e, quindi, dalla successiva presentazione del lavoratore a visita ambulatoriale e dall’esito confermativo di questa, fermo restando che la decurtazione retributivo-indennitaria cessa dal momento - e per il periodo posteriore a quello - in cui viene accertata, tramite visita ambulatoriale, l’effettività della malattia.

E’ stato altresì giudicato legittimo dalla Cassazione7 e, pertanto, praticabile dal datore di lavoro, il controllo di veridicità della malattia (denunciata e certificata), ad opera di agenzia investigativa privata, così motivando: «Il divieto a carico del datore di lavoro di (far) effettuare accertamenti sanitari relativi all'idoneità e all'infermità per malattia o infortunio del dipendente, stabilito dall'art. 5 della legge 20 maggio 1970 n. 300 (Statuto dei lavoratori), non si estende alle osservazioni su mere circostanze di fatto, effettuate a mezzo di agenzia investigativa, anche se dalle stesse possano emergere incompatibilità logiche con il dichiarato stato di malattia. L'attendibilità delle certificazioni mediche relative allo stato di malattia del lavoratore dipendente (...) può essere superata da rilevi relativi a circostanze di fatto che, pur non avendo direttamente ad oggetto l'accertamento della situazione sanitaria del dipendente, dimostrino per deduzione logica l'insussistenza dello stato di malattia denunciato, o, comunque, l'inidoneità della malattia a cagionare l'incapacità lavorativa che giustifica l'assenza». Nel caso esaminato, l'agenzia investigativa aveva riscontrato che il lavoratore, affetto da lombo-sciatalgia, aveva effettuato frequenti viaggi alla guida della macchina, aperto un club della moglie ove aveva svolto impegnativa attività di ricezione (in piedi) della clientela e pubbliche relazioni, legittimando, pertanto, il licenziamento disposto dall’ azienda, per riscontrata simulazione.

4. Non computabilità nel comporto delle assenze per infermità indotte dal comportamento datoriale

Non sono naturalmente computabili, ai fini del licenziamento per superamento del comporto, le assenze per malattia o infortunio discendenti da comportamenti posti in essere dal datore in violazione della norma prevenzionale di cui all’art. 2087 cod. civ.

E’ quindi pacifica l’affermazione secondo cui: «La malattia o le malattie del lavoratore non giustificano il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto ove l’infermità abbia avuto causa, in tutto o in parte, nella nocività insita nelle modalità di esercizio delle mansioni o comunque esistente nell’ambiente di lavoro, della quale il datore di lavoro sia responsabile per aver omesso le misure atte a prevenirla o ad eliminare l’incidenza, in adempimento dell’obbligo di protezione ed eventualmente anche delle specifiche norme di legge connesse alla concretizzazione di esso, incombendo peraltro al lavoratore di dare la prova del collegamento causale fra la malattia che ha determinato l’assenza ed il carattere morbigeno delle mansioni espletate» (Cass. 18/4/2000, n. 5066).

Nello stesso senso, più di recente – ma l’orientamento giurisprudenziale è oramai stabile in tal senso anche a livello di Cassazione – Corte appello Firenze, sez. lav., 17/09/2020, n.438, secondo cui: «Le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c, sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un’origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cc. Più esattamente, la computabilità delle assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale nel periodo di comporto non si verifica nelle ipotesi in cui l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell’ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell’attività lavorativa, ma altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all’obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell’art. 2087 cc, norma che gli impone di porre in essere le misure necessarie - secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica – per la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l’impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata».

4a. Riconducibilità/assimilabilità al “giustificato motivo oggettivo” del licenziamento per superamento del periodo di comporto

Quanto alla natura del licenziamento per superamento del periodo di comporto, si ritiene concordemente che sia riconducibile all’ambito del licenziamento per “giustificato motivo oggettivo”, conseguente al superamento del cd. “bilanciamento” tra le esigenze produttivo-organizzative aziendali ed il dovere di solidarietà sociale verso il prestatore8 incorso in evento pregiudizievole, ad esso non imputabile.

In tal senso si è espresso, recentissimamente - confermando l’orientamento della giurisprudenza di Cassazione - Trib. Roma 18/05/2020, n.2474, asserendo quanto segue: «Le regole dettate dall’art. 2110 cod. civ., per le ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore (…) si sostanziano nell’impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonché nel considerare quel superamento unica condizione di legittimità del recesso. Le stesse regole hanno quindi la funzione di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l’occupazione), riversando sull’imprenditore, in parte ed entro un determinato tempo, il rischio della malattia del dipendente. Ne deriva che il superamento del periodo di comporto è condizione sufficiente a legittimare il recesso, e pertanto non è necessaria, nel caso, la prova del giustificato motivo oggettivo né dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa né quella della correlativa impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse».

4b. Il requisito della cd. tempestività del licenziamento (talora ragionevolmente attenuata)

Il licenziamento per superamento del comporto contrattuale – allo stesso modo di qualsiasi tipologia di licenziamento – viene considerato legittimo quando risulta essere assistito dalla cd. “tempestività” del provvedimento risolutorio del rapporto, con la conseguenza che il mantenimento al lavoro (per un apprezzabile periodo di tempo) del dipendente che abbia esaurito il comporto, determina, concludentemente, la rinunzia aziendale all’esercizio di un successivo e tardivo licenziamento, che pertanto viene ritenuto invalido (tamquan non esset).

Il principio de quo risulta asserito, dalla giurisprudenza della Cassazione, nelle seguenti massime: «Anche nel caso di superamento da parte del dipendente del periodo di comporto cosiddetto per sommatoria, il recesso del datore di lavoro deve essere caratterizzato da tempestività, requisito la cui sussistenza va verificata dal giudice di merito con riferimento all'intero contesto delle circostanze al riguardo significative (ivi compresa la eventuale complessità strutturale e organizzativa del datore di lavoro) non potendo il detto recesso considerarsi giustificato a norma dell'art. 2110 cod. civ., qualora il datore di lavoro, valutati nel loro complesso gli episodi morbosi del lavoratore riammesso in servizio, lasci trascorrere un ulteriore e prolungato lasso di tempo prima di esercitare la facoltà di sciogliere il rapporto, potendo tale atteggiamento rilevare come implicita rinuncia a tale facoltà, in una valutazione complessiva del comportamento delle parti, condotta secondo il fondamentale principio di buona fede e di correttezza» (ex plurimis, Cass. 17/6/98, n. 6057). «E' illegittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto, ove l'esercizio del potere di recesso intervenga con notevole ritardo rispetto al momento del superamento del periodo stesso (nella fattispecie concreta, sei mesi); infatti, le vicende successive al superamento del periodo di comporto, quali la ripresa dell'attività lavorativa e il godimento delle ferie da parte del lavoratore, integrano la rinuncia, per fatti concludenti, del datore di lavoro al potere di recesso»9.

Più di recente, tuttavia, l’orientamento si è atteggiato in forma meno rigida in ordine al requisito della “tempestività” del licenziamento accordando, dietro riscontro di ragionevolezza, al datore uno spatium deliberandi, così espresso: «Mentre nel licenziamento disciplinare vi è l'esigenza della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa all'incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia l'interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole “spatium deliberandi” che va riconosciuto al datore di lavoro perché egli possa valutare convenientemente nel complesso la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di compatibilità della presenza in azienda del lavoratore in rapporto agli interessi aziendali; ne consegue che in questo caso la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito deve fare caso per caso, con riferimento all'intero contesto delle circostanze significative e la cui valutazione non è sindacabile in Cassazione ove adeguatamente motivata» (così, Cass.,11 settembre 2020, n. 18960, Cass. 12/10/2018 n. 25535, Cass. 28/03/2011 n. 7037, Cass. 7 gennaio 2005 n. 253, Cass., 8 maggio 2003 n. 7047).

Il più recente (e altresì maggioritario) orientamento esclude, pertanto, che un licenziamento non disposto dall’azienda immediatamente dopo il superamento del comporto - ma con riammissione al lavoro per qualche mese del lavoratore - equivalga a tacita rinunzia (per cd. intempestività) all’esercizio del recesso datoriale, sempreché, tuttavia, venga dimostrato o accertato (giudizialmente, in caso di controversia) che tale intervallo temporale sia stato utilizzato dall’azienda per «verificare in concreto l’esistenza di margini residui di persistente utilizzabilità della prestazione con un equilibrato bilanciamento dei concorrenti interessi delle parti (del lavoratore a conservare la posizione lavorativa e del datore di lavoro a ricevere una prestazione utile)» (cfr. Cass., 11 settembre 2020, n. 18960, Cass. n. 7849/2019).

4d. La controversa questione della possibilità per il lavoratore di mutare la malattia in ferie per arrestare l’esaurimento del comporto

L’impostazione sopra riferita, assunta dalla Cassazione nelle decisioni emesse nel primo decennio del nuovo secolo - espressa in forma preclusiva dell’obbligo datoriale di comunicazione preventiva dei giorni di malattia computabili ai fini del comporto «in quanto tale comunicazione servirebbe in realtà a consentire al dipendente di porre in essere iniziative, quali richieste di ferie o di aspettativa, sostanzialmente elusive dell'accertamento della sua inidoneità ad adempiere l'obbligazione» - evidenzia inequivocabilmente una indisponibilità verso il cd. mutamento di titolo dell’assenza per malattia in assenza per ferie, effettuato dal lavoratore ai fini della salvaguardia del superiore interesse alla conservazione dell’occupazione.

La questione – invero dibattuta con contrasti in dottrina e in giurisprudenza - che ricevette, già all’epoca, un’apprezzabile legittimazione ad opera di Cass., 3 aprile 2009 n. 5078, è stata recentissimamente risolta positivamente (per il prestatore di lavoro) da un orientamento, allo stato maggioritario, strutturato ad opera di plurime sentenze di Cassazione, tra cui Cass. 14 settembre 2020, n. 19062 , Cass. 27392/2018, Cass. 8834/2017, Cass. 7433/2016, Cass. 14471/2013.

Quest’ultime sentenze hanno stabilito che sussiste, legittimamente, la possibilità per il lavoratore di mutare il titolo giustificativo dell’assenza da malattia a ferie, così motivando: «Il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie, senza che a tale facoltà corrisponda comunque un obbligo del datore di lavoro di accedere alla richiesta, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa; in un'ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è necessario, tuttavia, che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive».

5. La legittimità del licenziamento per giusta causa in costanza di malattia

La nozione di giusta causa di licenziamento risiede nell’art. 2119 cod. civ., secondo cui ad essa è riconducibile qualsiasi comportamento del lavoratore che risulti inadempiente e tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro; che, pertanto, ne legittimi la risoluzione in tronco, senza intimazione (cioè concessione) di preavviso lavorabile.

Il che avviene, di norma, per infrazione del vincolo fiduciario o a causa di altro comportamento che non consenta al datore di lavoro di ritenere ragionevolmente affidabile, per il futuro, l’adempimento della prestazione lavorativa, ovvero per effettuazione in malattia di un secondo lavoro; licenziamento, per tale fattispecie, giustificato da plurime decisioni della Suprema corte, tra cui Cass., 5 novembre 2009 n. 23444, non tanto a motivo del compimento di un altro lavoro, quanto dal fatto che questo nuovo impegno avrebbe la conseguenza di una compromissione dello stato di salute del dipendente, aggravandone la malattia, e ritardandone il rientro in azienda. In pratica, si tratterebbe di una grave violazione dell'obbligo di leale collaborazione che dovrebbe contraddistinguere il comportamento del dipendente. Conformi, in tal senso, le più recenti Cass. 6077/2018 e Cass. 12902/2017.

La specificazione, in sede giurisprudenziale, del concetto sopra riferito è reperibile in un orientamento che così recita:«La giusta causa di recesso dal rapporto di lavoro importa l’immediata estinzione del rapporto pur in costanza del periodo di comporto per malattia, e ciò anche quando la cognizione dei fatti da parte del datore di lavoro sia anteriore all’inizio della malattia e la contestazione sia successiva a questa» (Cass., 20 ottobre 2000 n. 13903). «In costanza di malattia il lavoratore può essere legittimamente licenziato per giusta causa, con effetto immediato» (Cass., 29 luglio 1998, n. 7467 10).«Lo stato di malattia del lavoratore preclude al datore di lavoro l’esercizio del potere di recesso solo quando si tratta di licenziamento con preavviso per giustificato motivo; esso non impedisce, invece, l’intimazione del licenziamento per giusta causa, non avendo ragion d’essere la conservazione del posto di lavoro in periodo di malattia di fronte alla riscontrata esistenza di una causa che non consente la prosecuzione neppure in via temporanea del rapporto» 11. «Lo stato di malattia del lavoratore - ancorché non impedisca l’intimazione del licenziamento per giusta causa, non avendo ragione d’essere la conservazione del posto di lavoro in periodo di malattia di fronte alla riscontrata esistenza di una causa che non consenta la prosecuzione, neppure in via temporanea, del rapporto di lavoro - preclude, invece, al datore di lavoro l’esercizio del potere di recesso quando si tratta di licenziamento con preavviso per giustificato motivo; sicché legittimamente il datore di lavoro - che abbia contestato l’ addebito e ricevuto, nel termine di cui all’ art. 7 st. lav., le giustificazioni del lavoratore, subito dopo assentatosi dal lavoro per malattia - attende la cessazione del periodo di malattia prima di intimare il licenziamento disciplinare, senza che in tal caso il decorso del tempo possa ingenerare nel lavoratore l’affidamento in ordine all’accoglimento delle giustificazioni precedentemente comunicate, né comportare la tardività del recesso» (Cass., 20 dicembre 1997, n. 12915 12).

Da quanto sopra riferito consegue l’infondatezza di quella vera e propria “leggenda metropolitana” coltivata da molti lavoratori, alla stregua della quale il “porsi in malattia” immediatamente dopo una contestazione disciplinare lumeggiante un licenziamento in tronco (a motivo della gravità del proprio comportamento), li salvaguarderebbe, per tutta la durata dell’assenza, dal licenziamento per giusta causa.

Mario Meucci - Giuslavorista


 

1 In Not. giur. lav. 1995, 893.

2 In D&L 2003, 151, con nota di Muggia S., "Superamento del periodo di comporto ed obbligo di motivazione del licenziamento".

3 Va evidenziato come la qualificazione di “disabile” non sia circoscritta a coloro che, per handicap, sono destinatari delle cd. assunzioni obbligatorie, ma - per effetto dell’art. 3 bis, del d. lgs. 9 luglio 2003 n. 216 (attuativo della direttiva 2000/87 CE) - include tutti coloro che sono affetti da «una condizione patologica, causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata».

4 Così Cass., 10 aprile 1996, n. 3351, in Giust. civ., Mass., 1996, 539.

5 Nello stesso senso Cass., 28 marzo 2011, n.7037, Cass. 12 giugno 2013, n.14756,  Trib. Milano 8 maggio 1999.

6 Su tale carenza si fonda l’opinione di una riserva esclusiva dei controlli medici, per le sole assenze indotte da malattia. Opinione espressa da Cass., 10 aprile 1996, n. 3351 e da Cass., 25 novembre 2004, n. 22248, secondo cui: «le norme relative alle fasce orarie di reperibilità che il lavoratore deve osservare ai fini dei controlli medici in caso di assenza (art. 5 della l. n. 638 del 1983) devono interpretarsi restrittivamente, dal momento che incidono sul diritto garantito al lavoratore, quale cittadino, dall'art. 16 della Costituzione, alla libertà di movimento nel territorio dello Stato; pertanto esse riguardano solo gli accertamenti espressamente indicati dal legislatore, ossia quelli relativi a malattie ordinarie e non anche quelli sullo stato di inabilità conseguente ad infortunio sul lavoro. In materia può ritenersi sussistente per il lavoratore interessato soltanto un generico obbligo di correttezza e buona fede, che implica un atteggiamento collaborativo per rendere possibile il controllo; questo generico obbligo può anche essere meglio specificato dalla contrattazione collettiva; deve comunque escludersi l'applicabilità delle specifiche prescrizioni recate dalla legge n. 683 del 1983 in materia di reperibilità».

7 Così Cass., sez. lav., n. 6236 del 3.5.2001, est. Toffoli.

8 In tal senso Cass., sez. lav., 6 settembre 2005, n. 17780.

9 Così Pret. Milano 25/10/95, in D&L 1996, 246, e Pret. Milano 3/10/94, ivi 1995, 435.

10 In Riv. it.dir. lav., 1999, II, 715 con nota di Scognamiglio R..

11 Così, Cass., 1 giugno 2005 n. 11674; Cass., 27 febbraio 1998, n. 2209, in Not. giur. lav., 1998, 446; conformi: Cass., 22 febbraio 1995, n. 2019, in Giur. it., 1995, I, 1, 2040; Cass., 17 marzo 1987 n. 2707, in Orient. giur. lav., 1987, 483; Cass., 7 maggio 1983, n. 3142, in Giust. civ., Mass., 1983, fasc. 5.

12 In Not. giur. lav., 1998, 46.

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