La Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 33027 del 10/1172021 chiarisce in quale ipotesi è ammissibile la richiesta di risarcimento del danno da occupazione abusiva di un immobile a seguito di risoluzione di un contratto di vendita avente ad oggetto l'immobile di cui il venditore chiede il rilascio.
Il caso: NT e LM convenivano in giudizio, davanti al Tribunale di Taranto, Sezione distaccata di Manduria, i coniugi GM e MM chiedendo che fossero condannati al rilascio di un immobile di proprietà degli attori ed al risarcimento del relativo danno: in particolare gli attori esponevano che:
- un precedente giudizio, da loro promosso nei confronti dei medesimi convenuti, si era concluso con una sentenza definitiva che aveva dichiarato la risoluzione del contratto di vendita tra loro stipulato nel 1972 avente ad oggetto un suolo edificatorio, senza però che venisse ordinato ai convenuti il rilascio del bene medesimo;
- chiedevano, pertanto, che venisse ordinato il rilascio del bene ed il risarcimento del danno derivante dall'illegittima occupazione protrattasi nel tempo per molti anni.
Si costituivano m giudizio i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda e proponendo domanda riconvenzionale per il riconoscimento della spettanza di una somma pari al valore dell' edificio da loro costruito sul terreno in questione, a titolo di miglioramenti.
Il Tribunale accoglieva la domanda principale di rilascio, rigettava quella di risarcimento dei danni da occupazione illegittima e accoglieva la domanda riconvenzionale dei convenuti, condannando gli attori al pagamento, in loro favore, della somma di euro 69.850, quale aumento di valore conseguito al sensi dell'art. 1150 del codice civile.
La Corte d'Appello, adita dagli eredi di NT, nel frattempo deceduto, e da LM, rigettava il gravame, ritenendo che gli appellanti non avessero dimostrato il danno derivante dall'abusiva occupazione dell' immobile, danno che non poteva considerarsi in re ipsa.
Gli eredi di NT e LM ricorrono in Cassazione, censurando la sentenza impugnata laddove non aveva ritenuto di aderire all'orientamento maggioritario, riconoscendo quindi l'esistenza del danno in re ipsa, ossia sulla base di una «ineluttabile automaticità», e per non aver considerato che la prova del danno può essere fornita anche tramite presunzioni.
Per la Suprema Corte il ricorso è infondato per le seguenti ragioni:
a) La giurisprudenza relativa al danno da illegittima occupazione di un immobile non contiene, in realtà, un vero e proprio contrasto: non si tratta, infatti, di stabilire se tale danno sia in re ipsa o se debba essere oggetto di prova; trattandosi, infatti, di un danno-conseguenza, esso necessita comunque di una prova, non potendosi ritenere in re ipsa; tale prova, però, può essere data anche tramite presunzioni, dovendosi presumere la naturale fruttuosità di un bene immobile ed essendo la presunzione una prova prevista e regolata dalla legge;
b) Nel caso di specie, la sentenza impugnata, dichiarando di condividere l'orientamento secondo cui il danno richiede comunque una prova, anche per presunzioni, ha accertato in punto di fatto che gli odierni ricorrenti, pur avendone avuta ogni possibilità, avevano solo tardivamente e del tutto genericamente dedotto l'esistenza del danno, senza fornirne alcuna indicazione o specificazione concreta.