Mobbing e responsabilità ex art. 96 comma 3 cpc del datore di lavoro

Commento alla sentenza resa dal Tribunale di Ravenna, Sez. Lav., sentenza 7 novembre 2024, n. 391 
Mobbing e responsabilità ex art. 96 comma 3 cpc del datore di lavoro

La condotta "mobbizzante" accertata in via processuale: condanna del datore di lavoro per responsabilità ex art. 96, comma 3 c.p.c. per aver negato l'evidenza di un ambiente di lavoro nocivo e stressogeno.

Venerdi 22 Novembre 2024

La vicenda oggetto della presente pronuncia riguarda un caso di abuso lavorativo caratterizzato da un ambiente di lavoro nocivo. La lavoratrice, impiegata in un’azienda produttrice di salotti, ha citato in giudizio sia l'INAIL, per l’accertamento della malattia professionale e il risarcimento dell’indennizzo, sia il datore di lavoro per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, sia contrattuali che extracontrattuali.

Il materiale istruttorio, composto da e-mail inviate dal datore di lavoro e da testimonianze, ha evidenziato un ambiente lavorativo segnato da comportamenti sistematici e prolungati lesivi della dignità dei dipendenti, tra cui:

  • E-mail in cui il datore di lavoro insulta, minaccia sanzioni disciplinari e licenziamenti;

  • Multa inflitte ai dipendenti senza procedimento disciplinare;

  • Esposizione pubblica delle multe tra i colleghi, creando vergogna e umiliazione;

  • Uso del “mystery shopper” per un controllo stressante e continuo;

  • Assegnazione di mansioni demansionanti, come pulizie dei locali, e la sottrazione di postazioni di lavoro;

  • Esposizione al discredito aziendale di chi non partecipava alle trasferte aziendali, con commenti denigratori.

Il giudice ha evidenziato come tali comportamenti mostrano un chiaro atteggiamento di disprezzo e umiliazione della persona del lavoratore, creando un clima di paura e stress.

Mobbing, Straining, Stalking e Costrittività Organizzativa

Nonostante la gravità della situazione, la qualificazione giuridica della condotta del datore di lavoro risulta complessa. La sentenza menziona una combinazione di mobbing, straining e stalking, rendendo difficile identificare un'unica fattispecie. In effetti, l'accertamento che le condotte illecite fossero rivolte a una pluralità di lavoratori e che talvolta il datore di lavoro avesse manifestato apprezzamenti, rende problematica la qualificazione come mobbing o straining, che presuppongono un intento persecutorio. Come affermato in giurisprudenza, quando le condotte illecite riguardano una pluralità di lavoratori e sono espressione di una cattiva gestione sistematica, non vi è discriminazione, ma si tratta di disfunzioni organizzative.

In tale contesto, emerge una nuova prospettiva giuridica che, al di là della definizione di mobbing, considera l'organizzazione lavorativa come fattore di rischio per la salute del lavoratore, un concetto ampiamente sviluppato dalla giurisprudenza recente e in linea con l’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di garantire condizioni di lavoro che non danneggino la salute e la dignità dei dipendenti.

Il Risarcimento e la Responsabilità Processuale Aggravata

Il risarcimento per il danno non patrimoniale, liquidato secondo le Tabelle Milanesi, ammonta a 32.724,26 euro, di cui solo 12.657,00 euro sono a carico del datore di lavoro. Nonostante la gravità della condotta accertata, l’importo risarcitorio appare insufficiente rispetto alla lesione della dignità della lavoratrice e al contesto lavorativo coinvolto.

Il punto innovativo della sentenza riguarda l’applicazione dell’art. 96, comma 3 e 4 c.p.c., che prevede la responsabilità processuale aggravata. Il giudice ha infatti condannato il datore di lavoro per mala fede processuale, poiché, nonostante la mole di prove documentali e testimonianze a favore della ricorrente, ha continuato a negare l’evidenza dei fatti, proponendo difese inconsistenti. In tal modo, il datore di lavoro ha ulteriormente contribuito alla "vittimizzazione secondaria" della lavoratrice attraverso l’abuso del processo.

La condanna prevede il risarcimento delle spese legali e una somma di 5.000 euro a favore della Cassa delle Ammende, come sanzione per la gravità della condotta sia sostanziale che processuale. Questo approccio mira a dissuadere simili comportamenti.

Considerazioni Finali

Nonostante l’esito risarcitorio, rimane il dubbio se la risposta giuridica fosse sufficientemente tutela per la dignità del lavoro. La questione risarcitoria e la protezione del diritto di difesa, seppur importanti, devono essere bilanciate con una protezione più adeguata della dignità lavorativa. La speranza di una riforma legislativa che aggiorni i criteri risarcitori e introduca parametri più dissuasivi resta viva, poiché ancora mancano risposte adeguate alle problematiche complesse della dignità lavorativa.

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