1. Molestie e mobbing:la disciplina giuridica

Prof. Mario Meucci.
1. Molestie e mobbing:la disciplina giuridica
Venerdi 16 Luglio 2021

LE MOLESTIE SESSUALI NEI LUOGHI DI LAVORO

1. Molestie e mobbing

La disciplina giuridica delle molestie è stata introdotta soltanto nel nostro ordinamento con il D.lgs. n. 145 del 2005, poi trasfuso nel Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (D.lgs. n. 198 del 2006).

Il riconoscimento giuridico delle molestie è avvenuto - sia da parte del diritto comunitario, sia da parte del diritto nazionale – prima con riguardo ad altri fattori di “rischio” (rispetto ai quali la tutela antidiscriminatoria ha conosciuto importanti sviluppi), e poi, successivamente, anche in relazione al sesso.

Seguendo le prescrizioni della Direttiva 2000/43/CE («che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica») e della Direttiva 2000/78/CE («che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro»), le normative italiane di trasposizione (D.lgs. n. 215 del 2003 e, rispettivamente, D.lgs. n. 216 del 2003) stabiliscono infatti che si debbano considerare come «discriminazioni» anche le molestie poste in essere per motivi di razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, handicap, età ed orientamento sessuale.

Viene spontaneo chiedersi perché le molestie sessuali sono state qualificate dal legislatore come «discriminazioni».

In effetti la discriminazione implica una comparazione tra un trattamento deteriore riservato a persona di un determinato sesso rispetto al trattamento privilegiato attribuito ad altra dell’altro sesso.

Nel caso delle discriminazioni da molestie sessuali, questa comparazione non viene e non va operata. La discriminazione, per scelta legislativa, è a monte, insita nel fatto che il trattamento vessatorio e persecutorio (potrebbe dirsi mobbizzante) è «fondato sul sesso». Il legislatore avrebbe più correttamente potuto qualificare le «molestie sessuali» come comportamento persecutorio o mobbizzante, ma – stante il fatto che il mobbing non era (e non è) ancora riconosciuto dotato di una disciplina giuridica – ha preferito ricondurre le vessazioni a connotazione sessuale nell’alveo della disciplina antidiscriminatoria, connotata da pacifico riconoscimento giuridico, in termini processuali e sanzionatori.

Si è trattato di una scelta discrezionale del legislatore, caratterizzata da cd. «favor» rispetto alle persecuzioni mobbizzanti non fondate sul sesso, che - senza essere inquadrabili in una cornice regolamentare di natura legislativa - possono solo ottenere riconoscimento e protezione in sede giudiziaria (con tutte le conseguenti incertezze anche in termini di esito della controversia). Tuttavia va rilevato che anche le molestie da mobbing, a nostro avviso, hanno successivamente ricevuto - per effetto del D. L. 23 febbraio 2009 n. 11 convertito nella L. 23 aprile 2009 n. 38 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori) - un riconoscimento legislativo di natura sanzionatoria (passato sotto silenzio per l’enfasi conferita al solo fenomeno dello stalking che ha visto impegnato l’allora Ministra Carfagna), proprio nella enfatizzata disciplina dello stalking, ad opera del neo introdotto art. 612-bis (Atti persecutori) del c.p.

L’articolo aggiuntivamente introdotto, così dispone: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita».

Chi ha esaminato o conosce la fattispecie vessatoria del mobbing – tramite le variegate e multiformi modalità di inflizione delle molestie e delle mortificazioni – sa bene che lo stato d’ansia e di paura, sfociante nelle sindromi depressive solitamente coniugate ad attacchi di panico, costituiscono la patologia degenerativa di elezione per il mobbing, rifluenti nel riscontro e nella richiesta risarcitoria di danno biologico; parimenti ricorre nel mobbing la conseguenza delle «modificazione peggiorativa della qualità della vita» derivante giustappunto da una sostanziale «alterazione delle proprie precedenti abitudini di vita», in tutte le sue forme manifestative che ricomprendono le relazioni sociali, le forme ricreative e gli abituali svaghi, i rapporti all’interno della famiglia, ecc.

Non si può quindi, oramai più, correttamente affermare che il mobbing sia fenomeno del tutto estraneo alla codificazione giuridica.

Il mobbing tuttavia – rispetto alle molestie sessuali - si caratterizza per la finalità del soggetto agente, i cui comportamenti vessatori sono tipicamente diretti ad emarginare la vittima dall’ambiente di lavoro, al limite inducendola a rassegnare le dimissioni; mentre obiettivi del genere non sono affatto necessari per poter considerare giuridicamente illecite le molestie sessuali.

2. Molestie sessuali

Come anticipato, le molestie sessuali configurate legislativamente quali «discriminazioni», dal punto di vista meramente fattuale, non sono caratterizzate necessariamente da un trattamento penalizzante nei confronti di un lavoratore, accompagnato da un trattamento di favore riservato al lavoratore dell’altro sesso (ovvero l’ipotesi classica della discriminazione di sesso).

Le molestie, in realtà, sono vietate dall’ordinamento giuridico in quanto comportamenti lesivi della dignità dei soggetti che ne sono vittime. Per questo, nel caso delle molestie, a differenza di quanto tipicamente avviene di fronte ad una discriminazione vera e propria, non è necessario andare alla ricerca di un termine di comparazione (il trattamento di maggior favore riservato al lavoratore dell’altro sesso).

Le molestie, peraltro, hanno in comune con le discriminazioni la circostanza che al loro accertamento si procede con un valutazione di tipo oggettivo. Non occorre, in altre parole, accertare l’intento del soggetto agente, essendo sufficiente verificare l’effetto (di lesione della dignità della persona) prodotto sul soggetto molestato, allo stesso modo della «condotta antisindacale» ricorrente indipendentemente dall’intenzionalità datoriale di nuocere, sufficiente essendo l’oggettiva compressione e/o vanificazione del ruolo del sindacato (al riguardo, in tal senso, Cass. SU. 12.6.1997 n. 5295).

Il fatto che le molestie vadano considerate come «discriminazioni», d’altra parte, implica – come già anticipato - che esse siano assimilate alle discriminazioni vere e proprie sia sul versante sanzionatorio, sia su quello processuale.

Il legislatore (comunitario e nazionale) si è preoccupato innanzi tutto di sanzionare il cosiddetto ricatto sessuale, stabilendo che «il rifiuto di, o la sottomissione a, tali comportamenti (molestie e molestie sessuali) da parte di una persona non possono essere utilizzati per prendere una decisione riguardo a detta persona» (Direttiva 2002/73/CE, art. 1). Si tratta di una prescrizione che il legislatore italiano ha raccolto, precisando che qualsiasi atto inerente al rapporto di lavoro (un mutamento di mansioni, un trasferimento, un provvedimento disciplinare, ecc.) è nullo se adottato «in conseguenza del rifiuto o della sottomissione» ai comportamenti molesti (art. 26, comma 3, del Codice delle pari opportunità, che così letteralmente dispone:«Gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei lavoratori o delle lavoratrici vittime dei comportamenti di cui ai commi 1 e 2 sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti medesimi»).

Grazie a tale previsione, solo per fare un esempio, una lavoratrice che - per aver rifiutato di sottostare ad un certo comportamento molesto - sia stata colpita da un trasferimento punitivo (ancorché formalmente giustificato da ragioni tecnico-organizzative), potrà rivolgersi al giudice ed ottenere l’annullamento del trasferimento stesso.

Le molestie, d’altra parte, possono esaurirsi in se stesse, senza che vi si accompagnino ulteriori provvedimenti lesivi nei confronti del soggetto molestato, tuttavia non per questo sono destinate a restare senza conseguenze per il loro autore. Soccorre, infatti, la loro considerazione da parte del legislatore come «discriminazioni», in virtù della quale sarà possibile agire in giudizio richiedendo il risarcimento del danno.

Va sottolineato che la vittima delle molestie potrà avvalersi della procedura d’urgenza prevista dall’art. 38 del Codice delle pari opportunità, ed utilizzabile nei confronti di qualsiasi forma di discriminazione («in tutti i casi di azione individuale in giudizio», come precisa il comma 6 dell’art. 38), per ottenere «il risarcimento del danno anche non patrimoniale». L’azione in giudizio, naturalmente, come per qualsiasi ipotesi di discriminazione, potrà essere intentata, su delega della persona molestata, dal consigliere/a di parità.

Va precisato che il risarcimento del danno va sempre chiesto nei confronti del datore di lavoro, anche quando non si tratti dell’autore delle molestie, dal momento che sul datore di lavoro grava il generale obbligo, previsto dall’art. 2087 c. c., di adottare tutte le misure necessarie a preservare, nei luoghi di lavoro, non solo l’integrità fisica ma anche «la personalità morale dei prestatori di lavoro».

Se poi l’autore materiale dei comportamenti molesti è un superiore gerarchico o un collega di lavoro, resta aperta la possibilità di agire direttamente nei suoi confronti, facendone valere la relativa responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., in ragione della violazione del principio del «neminem laedere».

3. Tipologia legale delle molestie

Seguendo l’impostazione della direttiva comunitaria, l’art. 26 del d.lgs. n. 198 del 2006 (Codice delle pari opportunità) distingue due ipotesi diverse, considerando separatamente le molestie (semplici) e le molestie sessuali (vere e proprie):

a) le molestie sono «quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo» (art. 26, comma 1);

b) per molestie sessuali, invece, si intendono «quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo» (art. 26, comma 2).

Le due ipotesi sembrano alludere a comportamenti, comunque connessi al sesso, di diversa gravità secondo la valutazione del legislatore (minore nel caso delle molestie semplici, ove il sesso pare venire in rilievo come mero movente della condotta; maggiore in quello delle molestie sessuali, rispetto alle quali il fattore sesso si riflette sulle modalità della condotta stessa): fermo restando che sia le molestie, sia le molestie sessuali «sono considerate come discriminazioni» (art. 26, commi 1 e 2).

Da ultimo il d.lgs. n. 5 del 2010, ha aggiunto il comma 2-bis all’art. 26 d.lgs. n. 198/2006, dilatando la definizione di «discriminazione» fino a ricomprendervi anche i «trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifiutato i comportamenti di cui ai commi 1 e 2 o di esservisi sottomessi».

4.Casistica giurisprudenziale

In tema di risarcimento del danno biologico temporaneo (per shock e turbamento della sfera emotiva a carattere transitorio e non permanente) a seguito di molestie sessuali sul posto di lavoro, induttive di dimissioni per giusta causa della lavoratrice, si registra il caso di una lavoratrice dimessasi ex art. 2119 c.c. per indesiderato corteggiamento da parte del proprio datore di lavoro, cui sono stati liquidati, all’epoca, 10 milioni per danno morale (strutturando il comportamento datoriale il reato ex art. 610 c.p. o quello ex art. 56 e 521 c.p.), ed altri 10 milioni per danno biologico, consistente nella lesione – in violazione dell'art. 2087 c.c. - della personalità morale e della dignità della lavoratrice 1 .

Si registra altresì il caso di un'altra lavoratrice, anch'essa dimessasi per giusta causa a seguito di molestie sessuali subite dal rappresentante legale della società (consistite in tentata violenza carnale), alla quale il magistrato2 ha riconosciuto, per risarcimento del danno morale (riconducibile al turbamento psicologico indotto dalla condotta delittuosa), la somma, all’epoca, di 30 milioni ed altri 10 milioni, per il ristoro del danno biologico (costituito nell'alterazione dell'integrità psico-fisica della vittima). Tale decisione venne confermata dal Tribunale di Milano 3 che condivise, in punto di diritto, la sentenza di primo grado asserendo che: «alla lavoratrice che, in occasione di lavoro, abbia subito un'aggressione sessuale in azienda da parte del preposto alla stessa, compete il risarcimento del relativo danno biologico a carico dell'autore e dell'azienda medesima – in via solidale ex art. 2087 c.c. – nonché del danno morale, anche se la molestia ha agito nella determinazione del danno con ruolo di concausa in ragione della particolare fragilità della personalità dell'interessata che l'ha portata a risentire della violenza patita con una sofferenza psichica ben maggiore di quanto accada ad altre persone, atteso che la condotta – come insegna Cass. 20.12.1986 n. 7801 – è causa in senso giuridico di un determinato effetto dannoso quando, sulla base di un giudizio di probabilità ex ante, è ragionevolmente idonea a provocare le conseguenze in realtà verificatesi». In ordine alla misura del risarcimento, tuttavia, il Collegio giunse – in via equitativa – a disporre una riduzione (di oltre il 50%) degli indennizzi definiti, sia per danno biologico che per danno morale, dal primo giudice.

La Cassazione - occupandosi della competenza giurisdizionale per il risarcimento del danno da «molestie sessuali» – ha avuto occasione di puntualizzare come la responsabilità del datore di lavoro rivesta natura contrattuale, atteso che si fonda sulla violazione dei doveri su di esso gravanti ex art. 2087 c.c., a tal fine affermando che: «l'obbligo previsto dall'art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, determina, in caso di violazione di esso, una responsabilità contrattuale – rientrante nelle competenze del giudice del lavoro – che concorre con quella extra contrattuale originata dalla violazione di diritti soggettivi primari; tale obbligo non è limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma (come si evince da una interpretazione della norma in aderenza ai principi costituzionali e comunitari) implica anche il divieto di comportamenti commissivi lesivi dell'integrità psico-fisica del lavoratore, che in quanto caratterizzati da colpa o da dolo (come le molestie sessuali o veri e propri atti di libidine violenti) ed attuati durante l'orario dell'attività lavorativa, sono perciò fonte di responsabilità contrattuale per inosservanza della norma anzidetta, oltre ad integrare violazione dei doveri di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.»4.

La natura contrattuale della responsabilità datoriale e dell'azione risarcitoria del vessato ha indubbie conseguenze sul piano dell'azione rivendicativa, considerato che l'azione per il risarcimento di danno contrattuale si prescrive in 10 anni, mentre si prescrive in 5 anni quella per il risarcimento del danno extracontrattuale fondato sull'art. 2043 c.c. (afferente al risarcimento del danno ingiusto da fatto illecito).

Sull’obbligo datoriale di tutela della lavoratrice dalle molestie sessuali, la Cassazione è ritornata con la decisione del 18 aprile 2000, n. 5049 5, e, successivamente con Cass. 18/9/2009, n. 20272, affermando in entrambe che: «Le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.; deve ritenersi pertanto legittimo il licenziamento irrogato a dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro, a nulla rilevando la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare, e senza che, in contrario, possa dedursi che il datore di lavoro è controparte di tutti i lavoratori, sia uomini che donne, e non può perciò essere chiamato ad un ruolo protettivo delle seconde nei confronti dei primi, giacché, per un verso, le molestie sessuali possono avere come vittima entrambi i sessi, e, per altro verso, il datore di lavoro ha in ogni caso l’obbligo, a norma dell’art. 2087 cit., di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, provvedimenti tra i quali può certamente ricomprendersi anche l’eventuale licenziamento dell’autore delle molestie sessuali». In senso conforme sull’obbligo prevenzionale a carico del datore, Trib. Milano 28 dicembre 2001, secondo cui:«Ai sensi dell'art. 2087 c.c. l'imprenditore è tenuto ad adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure necessarie a tutelare non solo l'integrità fisica ma anche la personalità morale dei dipendenti; tale obbligo di protezione impone al datore di lavoro, cui sia noto il compimento di molestie sessuali nell'ambito dell'impresa, di intervenire, adottando tutte le misure, anche di natura disciplinare ed organizzativa, necessarie a garantire la tutela dei dipendenti. Il prolungato comportamento omissivo del datore di lavoro a fronte di atti di molestia sessuale costituisce dunque violazione dell'art. 2087 c.c.; è illegittimo il licenziamento intimato alla lavoratrice molestata ove le condotte alla stessa imputate quale giusta causa di recesso siano causalmente ricollegabili al detto comportamento omissivo; ove tale nesso di causalità sussista anche in relazione al danno biologico lamentato dalla lavoratrice, la stessa ha diritto al relativo risarcimento, che è quantificabile in via equitativa»6.

Tornando alla casistica giudiziaria va segnalato come sia approdato a livello giudiziario il caso di una lavoratrice di una boutique «molestata» per circa un biennio dal proprio superiore gerarchico (sia per telefono sia con tentativi di palpeggiamenti a sfondo sessuale sul posto di lavoro), cui il Tribunale di Milano 7] ha riconosciuto congruo (anzi, forse peccante per difetto) il risarcimento, in ragione, all’epoca, di circa 30 milioni, liquidatole dal primo giudice per danno biologico e in ragione di 20 milioni per danno morale, in presenza del reato di «molestie…alla persona», ex art. 660 c.p. Da segnalare il fatto che il Collegio ritenne irrilevante – ai fini dell'esclusione, richiesta dal convenuto, del nesso di causalità tra la condotta molesta ed il danno biologico indotto alla ricorrente - la circostanza pacifica, riscontrata dal CTU, dell'aver tale condotta insistito su «una preesistente struttura di personalità della ricorrente, incapace di elaborare esperienze stressanti».

Nel merito e con specifico riguardo a tale circostanza, il Collegio giunse ad asserire che: «è proprio su soggetti psicologicamente meno attrezzati e più fragili che possono prodursi gli effetti deleteri di comportamenti illeciti, gli altri riuscendo a reagire non solo facendo scivolare sulla loro pelle gli effetti della condotta, ma ancor prima, magari anche in forza di un'esperienza di vita maggiore specie nel confronto con il 'potere' – si ripete che il convenuto era il responsabile della boutique ed un componente del Consiglio di amministrazione della società – e l'altro sesso, ponendo il molestante nella condizione di lasciar perdere subito, ovvero denunciandolo prontamente a chi di dovere. La preesistente struttura della personalità, allora, non esclude affatto il nesso causale tra disturbo e molestie…», soggiungendo poi che «rientra nei limiti della prevedibilità – ex art. 1225 – il fatto che dall'omesso intervento societario a tutela della persona della ricorrente le potesse derivare un danno alla salute cui consegue, pertanto, una correlativa responsabilità contrattuale aziendale».

All’inizio del nuovo secolo, il giudice unico del lavoro del Tribunale di Pisa 8 – occupandosi di un caso di molestie sessuali determinative di dimissioni della lavoratrice – giunse a statuire (conformemente ai giudicati innanzi riferiti) quanto segue: «Il riferimento codicistico (art. 2087 c.c.) e Costituzionale (art. 41, 2 co., attinente al divieto per l’iniziativa economica privata di arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana) alla necessaria tutela anche della personalità morale e della dignità umana da parte del datore di lavoro consente di qualificare come illecito contrattuale ogni comportamento che cagioni ingiustificatamente al lavoratore un pregiudizio alla sua personalità umana. Normativa ordinaria e costituzionale dunque approntano una tutela all’uomo in sé, sanzionando con il risarcimento ogni atteggiamento che travalichi il diritto ad ottenere dal lavoratore una corretta prestazione, nel presupposto, ovvio, che si tratti della parte più debole del rapporto e quindi, in astratto, disposta (o costretta) a subire pressioni od umiliazioni pur di mantenere la sua fonte di reddito. Lo status di soggezione anche meramente psicologica - che diventa ingravescente quando il rapporto di sottordinazione si realizza fra soggetti di sesso diverso (proprio perché ognuno si porta dietro la sua natura, anche quando va a lavorare) - comporta l’obbligo giuridico del datore di lavoro di vigilare affinché nel contesto organizzativo nessuno approfitti della sua posizione gerarchica per acuire lo stato di soggezione del sottordinato, imponendo comunque il rispetto della personalità, soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli (minori, donne lavoratrici, lavoratori con contratti precari, lavoratori cui sono affidate mansioni semplici ) e conseguentemente più esposti ad ogni tipo di pressione, o, se si vuole, di ricatto, in ragione della necessità di non perdere il lavoro.

Il danno conseguente alla violazione dell’art. 2087 c.c., per la parte in cui tutela la personalità morale del lavoratore, non corrisponda sempre e solo al c.d. danno biologico, cioè a quel danno che comprometta la capacità di relazionare nella vita civile, mediante la causazione di un pregiudizio fisico o psichico; quello del danno per lesione della personalità morale è concetto più ampio del c.d. danno biologico quale oggi è inteso dalla giurisprudenza e consiste nell’oggettivo travalicamento del potere di eterodirezione o gerarchico che si concretizzi in un pregiudizio“morale” (quindi non necessariamente psichico).

Si può correttamente qualificare tale danno – né biologico né morale – come danno “esistenziale”, eventualmente in concorso con il danno alla vita di relazione e quello – di natura extracontrattuale – che tradizionalmente si riconduce alla figura del danno morale, correlata alla ricorrenza del reato (in fattispecie individuabile negli atti di libidine molesta). Se si ritenesse l’inconfigurabilità del danno esistenziale per la violazione dell’art. 2087 c.c., quest’ultima norma risulterebbe inutiliter data, nelle ipotesi, frequentissime, di pregiudizio alla personalità morale che non cagioni un vero e proprio danno psichico con conseguenze permanenti nella vita di relazione. Per il danno “esistenziale” o alla vita di relazione, conseguente a violazione dell’art. 2087 – liquidabile equitativamente in 30 milioni (utilizzando il parametro delle 15 mensilità opzionali previste indennitariamente ex art. 18 stat. lav. per il licenziamento ingiustificato) - sono responsabili in solido il molestatore (per comportamento commissivo) e l’azienda (per comportamento omissivo), mentre per il danno morale, liquidabile in 15 milioni, è responsabile esclusivamente l’autore del reato di molestie».

Sulle molestie sessuali e risarcimento del danno morale, si registra altresì Trib. Milano 30 gennaio 2001 9, secondo cui: «Il licenziamento irrogato a causa delle proteste della dipendente per essere stata sottoposta a molestie sessuali da un suo superiore è illegittimo ove il datore di lavoro ometta ogni verifica circa la fondatezza delle proteste (nella specie, comunque il giudice ha anche ritenuto che i fatti denunciati dalla dipendente sussistessero effettivamente).

Nel luogo di lavoro, apprezzamenti allusivi, battute a sfondo sessuale, inviti a cena tendenziosi, telefonate continue con costanti ricadute sul piano sessuale, approccio tramite un bacio o proposte di approccio, sono qualificabili come molestie sessuali e come tali ledono la personalità, di cui la dignità personale è un attributo, dando luogo alla risarcibilità del danno in via equitativa; a tal fine debbono essere utilizzati come parametri durata, intensità e gravità dell’offesa, la posizione delle parti, le circostanze in cui l’offesa è arrecata. Anche il datore di lavoro, che posto a conoscenza della condotta del suo preposto, non abbia agito secondo gli obblighi a lui imposti dall’art. 2087 c.c., va condannato in solido al risarcimento del danno».

Sul tema specifico il Tribunale di Milano si si è nuovamente espresso con sentenza del 9 maggio 2003, (Est. Ianniello), affermando che: «In ipotesi di atti di libidine violenti e di violenza carnale commessi in danno di lavoratrice subordinata, il datore di lavoro e l'autore dei fatti delittuosi sono solidalmente responsabili per il risarcimento del danno morale, del danno biologico nelle due componenti temporanea e permanente, nonché del danno esistenziale; per la determinazione della misura di tali voci il Giudice può procedere in via equitativa»10.

Sul tema, si menzionano decisioni della magistratura in sede penale, quali Cass. pen. sez. III, 26/10/2005, n.45957, secondo cui: «La molestia sessuale si differenzia dall’abuso – anche nella forma tentata – in quanto prescinde da contatti fisici a sfondo sessuale e normalmente si estrinseca o con petulanti corteggiamenti non graditi o con petulanti telefonate o con espressioni volgari, nelle quali lo sfondo sessuale costituisce un motivo e non un momento della condotta». Nonché Cass. pen. sez. III, 05/06/2008, n.27469, secondo cui: «La molestia sessuale, forma particolare di molestia comunque punita come reato dall’art. 660 c.p., è cosa diversa dall’abuso sessuale sia pure nella forma tentata, giacché prescinde da contatti fisici a sfondo sessuale e si estrinseca o con petulanti corteggiamenti non graditi o con altrettante petulanti telefonate o con espressioni volgari nelle quali lo sfondo sessuale costituisce un motivo e non un momento della condotta. In definitiva, coincide con tutte quelle condotte, sessualmente connotate, diverse dall’abuso sessuale, che vanno oltre il semplice complimento o la mera proposta di instaurazione di un rapporto interpersonale. Mentre, nel momento in cui dalle espressioni volgari a sfondo sessuale o dal corteggiamento invasivo e insistito si passa a toccamenti non casuali suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale si è fuori della molestia e si realizza quantomeno il tentativo di abuso sessuale».

Ed altresì, Cass. pen. sez. III, 07/10/2014, n.24895, che riconfermò la differenza tra molestie sessuali e reato di violenza sessuale, asserendo che: «La contravvenzione prevista dall’art. 660 c.p. (molestie sessuali) è configurabile solo in presenza di espressioni verbali a sfondo sessuale o di atti di corteggiamento, invasivi ed insistiti, diversi dall’abuso sessuale (confermata la condanna per violenza sessuale nei confronti di un datore di lavoro che si era strusciato addosso ad una dipendente toccandole il seno e varie parti del corpo)».

5. Responsabilità risarcitorie

Traendo le conclusioni in ordine alle responsabilità, va detto che la giurisprudenza di merito – in tema di «molestie sessuali» – distingue quelle riconducibili al «danno biologico» da quelle riconducibili al «danno morale», ricorrente (ante Corte cost. n. 233/2003, di interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.) solo in presenza di fattispecie delittuosa, rilevante penalmente. Con la conseguenza che per il ristoro del «danno biologico» derivante da «molestie sessuali» arrecate alla lavoratrice, rispondono solidalmente 11 l'autore delle molestie ed il datore di lavoro – quest'ultimo ex art. 2087 c.c., per non aver tutelato l'integrità psico-fisica e la personalità morale della dipendente -, mentre per il risarcimento alla lavoratrice del «danno morale» risponde il solo autore dell'aggressione, con esonero di responsabilità dell'azienda al riguardo.

Nel caso che le molestie sessuali non abbiano occasionato la fattispecie del reato penale, ma solo la violazione di diritti della personalità (costituzionalmente garantiti), il Tribunale di Milano ha riconosciuto una responsabilità solidale (tra molestatore ed azienda) per il risarcimento di un danno – che potremo definire “esistenziale” o alla serenità e gioia della vita – in ragione degli obblighi aziendali ex art. 2087 c.c. (e ex art. 2049 c.c.) volti alla tutela della personalità morale del lavoratore, non assolti (in fattispecie) ma infranti da atteggiamento di indifferenza o di mero attendismo dei preposti provvisti dei poteri di intervento (rei, pertanto, di responsabilità omissiva).

Va detto altresì che le molestie debbono rispondere al criterio dell’oggettività secondo il comune apprezzamento ed il comune buon senso, non tanto essere frutto di percezione indotta da ipersensibilità soggettiva, poiché – stante il fatto che l’onere probatorio grava su chi le adduce – un eventuale addebito indimostrato può portare a gravi implicazioni, come nel caso deciso da Cass., sez. lav., n. 143/2000, secondo cui: «L'onere di provare la ricorrenza di molestie sessuali da parte del superiore gerarchico grava sulla lavoratrice che si assume molestata; qualora la prova sia raggiunta, alla lavoratrice spetta il risarcimento del danno biologico, se verificatosi, ex art. 2087 c.c.; qualora la prova non sia stata fornita e la lavoratrice abbia accusato la società datrice di lavoro, con espressioni idonee a lederne il prestigio, di non averla tutelata, sussiste un giustificato motivo di licenziamento, per essere venuto meno il rapporto fiduciario intercorrente tra le parti»12.

In ogni caso è onere del magistrato esaminare approfonditamente la fattispecie concreta sottoposta alla sua valutazione, ed in un caso – deciso da Cass. 23 gennaio 2001 n. 623 - si è giunti a sancire l’insussistenza della natura riprovevole e penalmente rilevante del comportamento molesto, così stabilendosi:«Va confermata la decisione della Corte di Appello - e conseguentemente respinto il ricorso - secondo la quale, sebbene fosse risultato probatoriamente dimostrato che l'imputato dette una pacca isolata e repentina sul sedere della di lui dipendente, egli non intese compiere un vero e proprio atto di libidine sulla donna, non essendo emersi elementi per ritenere che il gesto, e cioè, quel toccamento, fosse rappresentativo di un gesto di concupiscenza di natura sessuale»13. Analogamente è stata riscontrata l'inconfigurabilità del reato di atti di libidine in relazione al fatto del palpeggiamento isolato e repentino14 e, all'opposto, la configurabilità del reato in ordine al tentativo di baci sul collo15.

Quanto alle implicazioni penali connesse al riscontro dei reati che la «molestia sessuale» concretizza – e alle conseguenze sul piano della responsabilità civile – si menzionano: Cass. III pen. 14 maggio 2004 n. 2278616, secondo cui: «Commette il delitto di violenza sessuale con abuso di autorità di cui all'art. 609 bis, comma 1. C.p. il datore di lavoro che abbia intrattenuto rapporti intimi con una lavoratrice dipendente, non per il mero rapporto di subordinazione aziendale, ma a condizione che - pur senza usare coazione fisica o morale - abbia utilizzato la sua autorità in maniera deviata, distorta, oltre il limite lecito e consentito, sì da porre la lavoratrice nella condizione di non poter rifiutare le sue richieste»; nonché Cass. pen. 9 giugno 2003, n. 2484817, che ebbe a stabilire: «Affinché il delitto di violenza sessuale di cui all'art. 609 bis c.p. possa considerarsi aggravato dalla circostanza dell'abuso delle relazioni d'ufficio prevista dall'art. 61 n. 11 c.p., non è richiesto che l'agente e la persona offesa appartengano allo stesso ufficio (pubblico o privato), essendo invece sufficiente che entrambi, per esigenze del proprio lavoro, ancorché autonomamente esercitato, frequentino abitualmente lo stesso ambiente lavorativo tanto da instaurare un rapporto fiduciario»; e, infine Cass., V pen., 8 marzo 2010 n. 9225, secondo cui: «Le insistenti richieste di prestazioni sessuali, rivolte con la protervia e l’arroganza che l’abuso del ruolo di superiore gerarchico della vittime consentiva, ed i comportamenti vessatori che facevano seguito in guisa di sanzione dei rifiuti, integravano ampiamente la fattispecie di violenza privata - tentata quella consumata nei confronti della dottoressa C. -, in quanto costringevano le vittime quantomeno a patire ingiuste e mortificanti vessazioni, inducendo in loro non solo sofferenza e malessere, ma anche concreti pregiudizi della loro serenità sul lavoro e delle loro legittime aspirazioni a progressioni in carriera, lasciate intravedere solo in guisa di ricompensa di disponibilità, manifestata almeno sotto forma dell’intrigante offerta del proprio corpo allo sguardo, mercé l’ausilio di abbigliamento acconcio.

Infondata si rivela la capziosa tesi del Tribunale, secondo il quale siccome reprimende, contestazioni e minacce di sanzioni disciplinari erano successive ai rifiuti, non potevano essere qualificate come violenze finalizzate al conseguimento di un risultato che era stato già negato; basti considerare che, come ha esattamente rilevato la corte territoriale, era la stessa caratterizzazione deteriore del rapporto di lavoro che costituiva violenza, e non aveva senso parcellizzare ogni episodio svalutando cosi il contesto, che amplificava la violenza, rendendola penosa ed inaccettabile»18.

A conclusione, va, peraltro, condivisa l’amara osservazione effettuata in dottrina, secondo cui: «Quanto al risarcimento del danno ed alla relativa liquidazione, i risarcimenti (per le molestie sessuali, ndr) concessi dai giudici, esclusi i danni patrimoniali, sono sempre di poche migliaia di euro, e che le somme liquidate stridono rispetto alle quantificazioni, ben maggiori, riconosciute in sede civile in caso di incidenti stradali e danno da prodotti difettosi ed in sede lavoristica in ipotesi di dequalificazione e infortuni sul lavoro»19.

Non senza sottolineare, da parte nostra, l’intrinseco limite di tale considerazione, giacché, purtroppo, l’insufficienza risarcitoria – da parte dei giudici –sia in termini compensativi per le vittime che di deterrenza alla reiterazione da parte dei colpevoli, risulta essere prerogativa comune ad altre e più diffuse pratiche riprovevoli, offensive della dignità, della serenità della vita e della salute psico–fisica, quali lo stalking, il mobbing e lo straining che attengono a tutte le persone, indifferentemente dal genere.


Roma, 13 luglio 2021

Prof. Mario Meucci - Giuslavorista


1 Pret. Trento 22.2.1993, in Giust. civ. 1994, I, 555 con nota di Raffi; in Riv. it. dir. lav. 1994, II, 172, con nota di Poso, Dimissioni per giusta causa della lavoratrice che abbia subito molestie sessuali e risarcimento del danno. Detta decisione ha esteso – con una certa arditezza - alle dimissioni "indotte" (e non volontarie) anche il trattamento indennitario previsto per il licenziamento ingiustificato dall'art. 2 L. n. 108/'90. La pronuncia è stata peraltro riformata sul punto da Trib. Trento 1.4.1994, poi confermata da Cass. 8.8.1997 n. 7380, in Riv. it. dir. lav. 1998, 795 (con nota di Pizzoferrato) che ha riconosciuto solo il preavviso.

In tema, Pret. Milano 14.8.1991, in Orient. giur. lav. 1991, 888 che ha riconosciuto alla lavoratrice molestata e dimessasi per giusta causa il risarcimento del danno biologico e del danno morale, asserendo che:"sono ravvisabili gli estremi della giusta causa di dimissioni nelle molestie sessuali perpetrate dal datore di lavoro nei confronti di una dipendente, approfittando oltre che della sua condizione di donna, della sua condizione di lavoratrice subordinata, esposta, come tale, non solo alla superiorità fisica dell'aggressore, ma anche al ricatto morale e psicologico, giocato dal datore di lavoro in ragione della posizione di supremazia e di forza che gli deriva dall'essere non solo l'arbitro di gran parte del tempo e delle energie della lavoratrice, ma anche del futuro andamento del rapporto di lavoro e della sua stessa possibilità di sopravvivenza".

2 Pret. Milano 14.8.1991, in Riv. it. dir. lav. 1992, II ,403 con nota di Poso.

3 Trib. Milano 19.6.1993, in Riv. crit. dir. lav. 1994, 130.

4 Così Cass. 17.7.1995, n. 7768, in Not. giurisp. lav. 1995,740. Cfr. anche Cass. 1.2.1995, n. 1168, ibidem 1995, 421; Cass 6. 3. 1995, n. 2577 e Cass. 5.10.1994, n. 8090 (inedite per quanto consta).

5 Così Cass. sez. lav.18.4.2000, n. 5049, in Mass. giur. lav. 2000, 773, n. 62. Conformi: Pret. Torino, 26.1.1991, in Riv. it. dir. lav. 1991, II, 431 con nota di Pera; Cass. 19.1.1998 n. 437; Pret. Milano 15.5.1996, in Orient. giur.lav. 1996,649; Pret. Modena 29.7.1999, in Lav. giur. 1999, 559, con nota di Lanotte, Molestie sessuali, dimissioni per giusta causa e danni risarcibili.

6 In Riv. crit. dir. lav. 2002, 371.

7 Trib Milano 21.4.1998, in Riv. crit. dir. lav. 1998, 957.

8 Trib. Pisa 7.10.2001, in Riv. giur. lav. 2002, 2, 353 con nota di Scillieri.

9 Trib. Milano 30.1.2001, trovasi in Riv. crit. dir. lav. 2001, 483, con nota di Zezza. Sul tema delle molestie sessuali vedi, altresì, la monografia di Pizzoferrato, Molestie sessuali sul lavoro. Fattispecie giuridica e tecniche di tutela, Padova 2000.

10 In Riv. crit. dir. lav. 2003, 649, con nota di Bernini, Le voci di danno alla persona e la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro.

11 Così Trib. Milano 19.6.1993, cit.

12 Cass. 8.1.2000, n. 143, in Riv. it. dir. lav. 2001, 92, con nota di Conte, L'onere della prova in tema di molestie sessuali e le conseguenze del suo mancato assolvimento.

13 In Lav. prev. oggi, 2001, 127, con nota di Sangiovanni, In tema di molestie sessuali sui luoghi di lavoro.

14 Cass. pen. 24.11.2000, Michieli, in Lav. prev. oggi, 2001, 127 con nota di Sangiovanni.

15 Cass. pen. 27.4.1998, Di Francia, in Foro. it. 1998, II, 5005 con nota di Fiandaca, La rilevanza penale del bacio tra anatomia e cultura; App. L’Aquila 20 novembre 1996, PQM, 1997, 3, 47 con nota di Di Girolamo.

16 In Dir. e prat. lav. 2004, 1933.

17 In Dir. e prat. lav. 2003, 1982.

18 In http://dirittolavoro.altervista.org/cass_pen_9225_10_molestie_sessuali.html.

19 Pizzoferrato, Molestie sessuali, cit. 172.

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