Con la sentenza n. 10473/2020, la Terza Sezione della Corte di Cassazione si è pronunciata circa il potere riconosciuto al Giudice delle indagini preliminari, adito per l’emissione del mandato di arresto europeo, di mutare d’ufficio la misura cautelare in corso.
Mercoledi 1 Aprile 2020 |
E’ stato dichiarato inammissibile il ricorso in Cassazione depositato, da un uomo agli arresti domiciliari, avverso la decisione del Tribunale del Riesame che aveva ripristinato la misura genetica applicata con l’ordinanza del 24/4/2019 e modificata in prima battuta dal Gip del Tribunale di Brindisi, con ordinanza dell’8/10/2019.
Quest’ultimo, in fase di rigetto della richiesta di mandato di arresto europeo, aveva infatti d’ufficio modificato la misura degli arresti domiciliari con l’obbligo di dimora. Preliminarmente, i Giudici della Suprema Corte eseguono una attenta disamina della normativa relativa al mandato di arresto europeo e ai poteri di revoca o sostituzione di misura cautelare riconosciuti al Gip.
Il mandato di arresto europeo è definito come quel provvedimento giudiziario emesso da uno Stato membro dell’Unione Europea, per consentire l’arresto e la consegna da parte di altro Stato membro di un soggetto ricercato per l’esercizio dell’azione giudiziaria penale o per l’esecuzione di una pena ovvero di una misura di sicurezza. L’art. 29 comma 1 della legge 69/2005 recita: “L'autorita' giudiziaria competente ai sensi dell'articolo 28 emette il mandato d'arresto europeo quando risulta che l'imputato o il condannato e' residente, domiciliato o dimorante nel territorio di uno Stato membro dell'Unione europea”.
In base a quanto sopra esposto, pertanto, si evince che il Giudice per le indagini preliminari all’atto della richiesta di emissione del mandato di arresto europeo è tenuto a verificare soltanto l’esistenza di tale presupposto. Infatti il dettato normativo della legge n.69/2005 non concede al giudice adito per l’emissione del mandato di arresto europeo di procedere di ufficio alla revoca o alla sostituzione della misura cautelare genetica. La Suprema Corte richiama quanto disposto dall’art.299 C.P.P., comma 3, che stabilisce che il giudice provveda con ordinanza, sulla richiesta di revoca o di sostituzione della misura cautelare formulata dal pubblico ministero o dall’indagato, subordinando, quindi, l’investitura del giudice alla proposizione della domanda; pertanto, in base a quanto stabilito dall’art.328 C.P.P., comma 1, il Gip esercita le sue funzioni su impulso di parte.
La parte motiva della sentenza in commento richiama quanto disposto dall’art. 299 C.P.P., comma 3, che di seguito, si riporta “Il pubblico ministero e l’imputato richiedono la revoca o la sostituzione delle misure al giudice, il quale provvede con ordinanza entro cinque giorni dal deposito della richiesta. La richiesta di revoca o di sostituzione delle misure previste dagli articoli 282-bis, 282-ter, 283, 284, 285 e 286, applicate nei procedimenti di cui al comma 2-bis del presente articolo, che non sia stata proposta in sede di interrogatorio di garanzia, deve essere contestualmente notificata, a cura della parte richiedente ed a pena di inammissibilità, presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa, salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio. Il difensore e la persona offesa possono, nei due giorni successivi alla notifica, presentare memorie ai sensi dell’articolo 121. Decorso il predetto termine il giudice procede. Il giudice provvede anche di ufficio quando assume l’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare o quando è richiesto della proroga del termine per le indagini preliminari o dell’assunzione di incidente probatorio ovvero quando procede all’udienza preliminare o al giudizio”.
Gli Ermellini, sulla base delle predette considerazioni e disamina della normativa, concludono affermando come il Tribunale del Riesame abbia correttamente applicato l’art.299 C.P.P., ritenendo che il Gip non avesse il potere di ufficio di sostituire la misura cautelare in atto a seguito della richiesta di mandato di arresto europeo. Il ricorso è stato pertanto dichiarato inammissibile, con condanna alle spese per il ricorrente. Inoltre gli Ermellini richiamando quanto stabilito nella sentenza della Corte Costituzionale del 13 giugno 2000, n.186, hanno condannato il ricorrente al pagamento di € 2.000 in favore della cassa delle ammende.