Commento alla sentenza Corte Cost. n. 59/2021 in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Corte Costituzionale - sentenza n. 59 anno 2021 del 1 aprile 2021.
Commento alla sentenza Corte Cost. n. 59/2021 in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo

La Corte Costituzionale, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina della reintegra.

Martedi 6 Luglio 2021

La Consulta, in data 1 aprile, dopo quasi 10 anni dalla entrata in vigore della c.d. riforma Fornero, ha pronunciato sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92.

Il Tribunale di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 7 febbraio 2020, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2020, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 41, primo comma, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della norma indicata nella parte in cui prevede che, in ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza di un fatto posto a fondamento di un licenziamento per gmo “possa” e non “debba” applicare la tutela reintegratoria.

La pronuncia è estremamente complessa e tecnica e lo scrivente tenterà di semplificare al massimo la interpretazione del Tribunale Ravennate e della Consulta, per facilità e rapidità di comprensione.

➢ La reintegrazione nel posto di lavoro è obbligatoria nei licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo quando il fatto che li ha determinati è insussistente: “Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del gms o della gc, per insussistenza del fatto contestato (…), annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma (…) dedotto l’aliunde perceptum

Deve quindi, non può. Non vi è alternativa per il Giudicante.

➢ La disposizione censurata, invece, testualmente, afferma che nella ipotesi in cui il Giudice accerti la “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento per gmo “Può altresì applicare la predetta disciplina” della reintegrazione nel posto di lavoro (ndr).

Può quindi, non deve.

Ciò rende la forma di tutela reintegratoria meramente facoltativa, senza peraltro offrire al Giudice del c.d. merito, un criterio certo per la scelta o meno delle differenti tutele, lasciandolo privo di precisi punti di riferimento.

E’ questo il punto nodale su cui si sofferma il Tribunale di Ravenna nella sua Ordinanza di rimessione, perché individua una palese violazione del principio di uguaglianza e la irragionevolezza dei criteri proclamati dalla Legge in esame, che conducono a ulteriori e ingiustificate disparità di trattamento al momento della applicazione pratica della legge.

Il diniego della reintegrazione in caso di GMO, che la legge non subordina a criteri espliciti che il Giudice dovrebbe seguire, rappresenterebbe una sorta di paradosso, ovvero, un “nuovo licenziamento intimato dal Giudice” sulla base di una valutazione ampiamente discrezionale.

Il carattere meramente facoltativo della reintegrazione lederebbe il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), in quanto, per effetto di una «insindacabile e libera scelta del datore di lavoro di qualificare in un modo o nell’altro l’atto espulsivo», determinerebbe un’arbitraria disparità di trattamento tra «situazioni del tutto identiche, ossia il licenziamento per giusta causa e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei quali si sia accertata in giudizio l’infondatezza».

La disposizione censurata violerebbe anche l’art. 41 Cost., poiché attribuirebbe al datore di lavoro «un potere di scelta di tipo squisitamente imprenditoriale», che si tradurrebbe nell’intimazione di «un nuovo ed autonomo atto espulsivo».

Il Giudice a quo prospetta, inoltre, il contrasto con l’art. 24 Cost., che tutela il diritto di agire in giudizio. Il lavoratore «si troverebbe esposto all’esercizio di una facoltà giudiziale totalmente discrezionale», senza avere alcuna facoltà di difendersi. L’art. 24 Cost., in connessione con l’art. 3 Cost., sarebbe violato anche perché l’insindacabile qualificazione del datore di lavoro condizionerebbe «le tutele del lavoratore» e quindi sarebbe rimessa in mano all’autore dell’illecito la tipologia di tutela giurisdizionale da applicare.

La Presidenza del Consiglio dei Ministri, intervenuta in con l’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto di dichiarare inammissibile o comunque infondata la questione sollevata dal Tribunale di Ravenna, e la Corte Costituzionale ne ha puntualmente ed analiticamente analizzato le difese, respingendole.

La Corte Costituzionale ha infatti ritenuto la questione non solo ammissibile, ma anche fondata nel merito. Cercheremo anche in questo caso di essere il più chiari e sintetici possibile utilizzando le parole della Corte.

I dubbi di costituzionalità si concentrano sull’art. 18, settimo comma, secondo periodo, dello statuto dei lavoratori, così come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, nel quadro di un ampio intervento riformatore sulle tutele contro i licenziamenti illegittimi.

All’originario modello, incentrato sulla tutela reintegratoria per tutte le ipotesi di nullità, annullabilità e inefficacia del licenziamento, fanno riscontro quattro regimi, applicabili ai rapporti a tempo indeterminato instaurati fino al 7 marzo 2015 [A decorrere da questa data si dispiega la disciplina introdotta dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (le c.d. tutele crescenti)].

Si deve ricordare che la tutela reintegratoria piena, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati, si applica nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo per causa di matrimonio o di maternità o di paternità, retto da motivo illecito determinante o dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. In tali casi il Giudice deve (non può) reintegrare il lavoratore e gli deve (non può) riconoscere un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, con detrazione dell’aliunde perceptum.

L’art. 18 dello statuto dei lavoratori, così come novellato nel 2012, prevede, inoltre, una tutela reintegratoria attenuata e una tutela indennitaria, declinata in forma piena e ridotta, e ne sancisce l’applicazione ai datori di lavoro che superino il noto e c.d. requisito dimensionale.

La tutela reintegratoria attenuata, contempla la reintegrazione nel posto di lavoro, al pari della tutela reintegratoria piena, ma limita a dodici mensilità l’ammontare dell’indennità risarcitoria che il datore di lavoro è obbligato a corrispondere dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. Da tale importo, peraltro, deve essere detratto l’aliunde perceptum, e l’aliunde percipiendum. Anche in questo caso il lavoratore ha la facoltà – in concreto esercitata nel giudizio principale – di optare per l’indennità sostitutiva della reintegrazione.

La tutela di cui sopra si applica ai licenziamenti disciplinari, per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, allorché il giudice riscontri l’insussistenza del fatto contestato o la riconducibilità del fatto alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari.

La predetta tutela reintegratoria attenuata sanziona anche i licenziamenti intimati senza giustificazione «per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore», o intimati in violazione delle regole che disciplinano il periodo di comporto (art. 2110 del codice civile).

Nei licenziamenti economici, la tutela reintegratoria attenuata può essere applicata nelle ipotesi di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo». Quella risarcitoria negli altri casi di ingiustificatezza e illegittimità del licenziamento.

Tale penultimo caso, che rappresenta il fulcro dell’odierna questione di legittimità costituzionale, prescrive di regola la corresponsione di una indennità risarcitoria, compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità. Il ripristino del rapporto di lavoro (la reintegra), con un risarcimento fino a un massimo di dodici mensilità, è circoscritto all’ipotesi della manifesta insussistenza del fatto e dunque la sua natura pretestuosa (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 19 marzo 2020, n. 7471).

Il rimettente prende le mosse dall’assunto, avallato anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 3 febbraio 2020, n. 2366), che la reintegrazione non sia obbligatoria, neppure quando l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento si connoti come manifesta.

Il dato testuale ne è conferma. Nel contesto dell’art. 18, settimo comma, dello statuto dei lavoratori, al perentorio «applica» del primo periodo fa riscontro il «può applicare» del secondo periodo e sottende, secondo il significato proprio delle parole, una facoltà discrezionale del giudice.

La giurisprudenza di legittimità, nel tentativo di scongiurare le incertezze applicative che il testo della legge avrebbe ingenerato (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 luglio 2016, n. 14021), ha provato a definire i criteri che presiedono alla valutazione discrezionale del giudice e ha posto l’accento, in particolare, sui principi generali in tema di risarcimento in forma specifica (art. 2058 cod. civ.), che precludono la restitutio in integrum quando si riveli eccessivamente onerosa.

Nella ricostruzione della Corte di cassazione, che costituisce diritto vivente, il richiamo alla disciplina del risarcimento del danno in forma specifica offre «un parametro di riferimento per l’esercizio del potere discrezionale del giudice», che impone di valutare se la reintegrazione sia «al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 maggio 2018, n. 10435), cioè all’ulteriore valutazione discrezionale rispetto alla non eccessiva onerosità del rimedio (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 31 gennaio 2019, n. 2930).

La disposizione censurata, nel sancire quindi una doppia facoltà discrezionale di concedere o negare la reintegrazione, contrasta con l’art. 3 Cost., con riguardo ai profili e per i motivi sopra e di séguito esposti.

Sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.), questa Corte ha fondato, già in epoca risalente, l’esigenza di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le fattispecie di licenziamento (sentenza n. 45 del 1965, punto 4 del Considerato in diritto). L’attuazione del diritto «a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991, punto 9 del Considerato in diritto) è stata ricondotta, anche di recente, nell’alveo delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto alla scelta dei tempi e dei modi della tutela (sentenza n. 194 del 2018, punto 9.2. del Considerato in diritto), anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili come, per esempio, le dimensioni dell’impresa.

La disposizione censurata entra in conflitto con i princìpi di eguaglianza e ragionevolezza sanciti non solo dalla nostra Carta Costituzionale, ma anche dalle fonti sovranazionali ed Europee (art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 e dell’Unione europea art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – CDFUE – proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007).

Il carattere meramente facoltativo della reintegrazione rivela, anzitutto, una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla legge n. 92 del 2012.

Per i licenziamenti disciplinari, il legislatore ha previsto la reintegrazione del lavoratore, quando si accerti in giudizio l’insussistenza del fatto posto a base del recesso del datore di lavoro.

Per i licenziamenti economici, l’insussistenza del fatto può condurre alla reintegrazione ove sia manifesta.

L’insussistenza del fatto, pur diversamente graduata, assurge dunque a elemento qualificante per il riconoscimento del più incisivo fra i rimedi posti a tutela del lavoratore. Secondo la valutazione discrezionale del legislatore, l’insussistenza del fatto – sia che attenga a una condotta di rilievo disciplinare addebitata al lavoratore sia che riguardi una decisione organizzativa del datore di lavoro e presenti carattere manifesto – rende possibile una risposta sanzionatoria omogenea, che è quella più energica della ricostituzione del rapporto di lavoro. In un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici.

L’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro. Tali elementi comuni alle fattispecie di licenziamento poste a raffronto dal rimettente, valorizzati dallo stesso legislatore nella previsione di una identica tutela reintegratoria, privano di una ragione giustificatrice plausibile la configurazione di un rimedio meramente facoltativo per i soli licenziamenti economici.

Alla violazione del principio di eguaglianza e alla disarmonia interna a un sistema di tutele, già caratterizzato da una pluralità di distinzioni, si associa l’irragionevolezza intrinseca del criterio distintivo adottato, che conduce a ulteriori e ingiustificate disparità di trattamento. Il rimettente scorge nella previsione censurata le caratteristiche di una norma “in bianco” e stigmatizza l’irragionevolezza di una disciplina «del tutto priva di criteri applicativi» idonei a orientare il potere discrezionale di disporre o meno la reintegrazione.

Anche questi rilievi, che sorreggono l’argomentazione dell’ordinanza di rimessione, sono fondati. Per i licenziamenti economici, il legislatore non solo presuppone una evidenza conclamata del vizio, che non sempre è agevole distinguere rispetto a una insussistenza non altrimenti qualificata, ma rende facoltativa la reintegrazione, senza offrire all’interprete un chiaro criterio direttivo.

La scelta tra due forme di tutela profondamente diverse – quella reintegratoria, pur nella forma attenuata, e quella meramente indennitaria – è così rimessa a una valutazione del giudice disancorata da precisi punti di riferimento. Il richiamo alla eccessiva onerosità, che la giurisprudenza di legittimità ha indicato nell’intento di conferire alla previsione un contenuto precettivo meno evanescente, non pone rimedio all’indeterminatezza della fattispecie.

Nella fattispecie sottoposta all’odierno scrutinio, la diversa tutela applicabile – che ha implicazioni notevoli – discende invece da un criterio giurisprudenziale che, per un verso, è indeterminato e improprio e, per altro verso, privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento.

Il mutamento della struttura organizzativa dell’impresa (c.d. eccessiva onerosità) che preclude l’applicazione della tutela reintegratoria è riconducibile allo stesso imprenditore che ha intimato il licenziamento illegittimo e può dunque prestarsi a condotte elusive. Tale mutamento, inoltre, può intervenire a distanza di molto tempo dal recesso ed è pur sempre un elemento accidentale, che non presenta alcun nesso con la gravità della singola vicenda di licenziamento.

È, pertanto, manifestamente irragionevole la scelta di riconnettere a fattori contingenti, e comunque determinati dalle scelte del responsabile dell’illecito, conseguenze di notevole portata, che si riverberano sull’alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria o una meramente indennitaria.

Per tutti i superiori motivi la Corte Costituzionale, definitivamente pronunciando, “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma”.

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