La clausola “visto e piaciuto” tra garanzia per vizi e mala fede del venditore

La clausola “visto e piaciuto” tra garanzia per vizi e mala fede del venditore

Riflessioni sull’ordinanza Cass. civ., Sez. II, Ordinanza,21/10/2025, n. 27968 e comparazione con i sistemi di common law.

Giovedi 13 Novembre 2025

L’ordinanza Cass. Civ. n. 27968/2025 conferma che la clausola “visto e piaciuto” non esonera dalla garanzia per vizi occultati in mala fede dal venditore. La pronuncia chiarisce l’efficacia probatoria del certificato di revisione e applica la correzione ex art. 384, co. 4 c.p.c. Il commento include una riflessione comparatistica sui diversi approcci alla responsabilità civile tra sistemi di civil law (modello riparatorio) e common law (punitive damages), evidenziando come la stessa fattispecie comporterebbe conseguenze più severe negli ordinamenti angloamericani.

L’ordinanza affronta una controversia relativa alla vendita di un autocarro usato con clausola “visto e piaciuto”, evidenziando principi fondamentali in materia di garanzia per vizi e di efficacia probatoria degli atti pubblici. L’esame della pronuncia offre l’occasione non solo per analizzare i principi consolidati in materia di garanzia per vizi e di efficacia probatoria degli atti pubblici, ma anche per sviluppare una breve riflessione comparatistica sulle diverse conseguenze che una fattispecie del genere avrebbe potuto determinare negli ordinamenti di common law, senza pretese scientifiche ma solo per mettere in luce le differenti filosofie sottostanti ai diversi sistemi di responsabilità civile.

Fatti di causa

Tizio acquista un autocarro usato da una società con la clausola “visto e piaciuto”. Durante il viaggio di ritorno, riscontra difetti di marcia e ne dà immediata comunicazione alla venditrice. Successive ispezioni rivelano che il veicolo presenta nella struttura portante danni non visibili a causa di una riverniciatura. Il compratore conviene in giudizio la venditrice per la risoluzione del contratto - per inadempimento, ma in primo grado si vede rigettare la domanda; la Corte d’Appello, invece, accoglie la richiesta e condanna la venditrice a restituire il prezzo, a rifondere le spese sostenute per il passaggio di proprietà e per il premio assicurativo. La venditrice ricorre in Cassazione.

I motivi del ricorso e le ragioni della decisione

La Suprema Corte ha esaminato due motivi di ricorso, entrambi rigettati, che toccano aspetti centrali della disciplina della vendita di beni mobili usati.

Efficacia probatoria del certificato di revisione. Con il primo motivo si denunciava la violazione degli artt. 2699 e 2700 c.c., sostenendo che la Corte d’appello avesse errato nel disattendere l’efficacia probatoria di atto pubblico del verbale di revisione del veicolo; si lamentava poi che la Corte territoriale avesse illegittimamente conferito prevalenza alle testimonianze rispetto alle risultanze dell’atto pubblico. La Cassazione ha chiarito un principio fondamentale: il certificato di revisione fa piena prova, fino a querela di falso, di quanto direttamente verificato sul veicolo, ma l’oggetto di tale prova è diverso dall’oggetto delle prove libere. Infatti. Se – da un lato - è vero che “il certificato di revisione attesta la conformità del veicolo alle prescrizioni tecniche e alle caratteristiche costruttive e funzionali previste dalla legge”, - dall’altro - “non ha la virtù di accertare in modo assoluto il difetto di qualsivoglia vizio”.

Il procedimento di correzione ex art. 384, co. 4 c.p.c. Premesso questo, la Corte utilizza la procedura prevista dall’art. 384, co. 4 c.p.c. che rappresenta uno strumento peculiare del giudizio di cassazione, volto a correggere errori di motivazione giuridica senza procedere alla cassazione della sentenza impugnata. Nel caso specifico, la Corte di appello aveva affermato che “l’esito positivo della revisione è smentito da tutte le altre prove assunte”, esprimendo un ragionamento giuridicamente scorretto circa l’efficacia probatoria del certificato di revisione.

La Cassazione ha precisato che tale motivazione richiedeva correzione, chiarendo che il certificato di revisione fa piena prova fino a querela di falso di quanto direttamente verificato, ma il suo oggetto probatorio è diverso da quello delle prove libere utilizzate per accertare i vizi del veicolo. La correzione ex art. 384, co. 4 c.p.c. si distingue dalla correzione di errori materiali di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., perché interviene su vizi logico-giuridici della motivazione, non su mere sviste materiali, e opera invece su errori di ragionamento giuridico che non compromettono la correttezza sostanziale della decisione. Per mezzo di tale strumento la motivazione della Corte di appello è stata ricondotta a conformità alla legge.

Applicabilità della clausola ‘visto e piaciuto’. Con il secondo motivo si denunciava la violazione dell’art. 1490 co. 2 c.c., assumendo che la Corte di appello avesse erroneamente disapplicato la clausola “visto e piaciuto”, che dovrebbe esonerare il venditore dalla garanzia per i vizi della cosa, salvo il caso di mala fede nell’occultamento degli stessi. Questo motivo si sarebbe forse potuto anche dichiarare inammissibile, perché sotto la veste di una censura per violazione di legge, sottopone alla corte di legittimità, una (ri) valutazione di merito circa la natura occulta o non occulta dei vizi, insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione sufficiente. Nondimeno la Corte preferisce entrare nel merito (svolgendo così la propria funzione nomofilattica) e ribadire il proprio orientamento.

I principi di diritto consolidati Viene confermato l’orientamento secondo cui la clausola “visto e piaciuto” non esonera dalla garanzia per i vizi quando questi siano stati taciuti in mala fede dal venditore e scoperti dopo l’uso della cosa. Tale principio, già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, trova applicazione nel caso di specie, in cui la Corte territoriale aveva accertato il volontario occultamento dei vizi attraverso un’opera di riverniciatura della carrozzeria. L’orientamento consolidato della Cassazione, espressamente richiamato nell’ordinanza, stabilisce che la clausola “visto e piaciuto” non esonera dalla garanzia per i vizi quando questi siano stati taciuti in mala fede dal venditore e scoperti dopo l’uso della cosa. La clausola mantiene la sua efficacia esonerativa solo per i vizi che erano effettivamente riconoscibili al momento dell’acquisto con l’ordinaria diligenza dell’acquirente, ma perde ogni valore quando il venditore abbia posto in essere condotte volte a occultare dolosamente i difetti.

Nel caso specifico, la Corte ha confermato che la riverniciatura della carrozzeria costituiva uno strumento di occultamento dei vizi strutturali del veicolo, configurando quella mala fede che rende appunto inefficace la clausola “visto e piaciuto”. La decisione si fonda sull’apprezzamento di merito della Corte di appello, che aveva accertato come i danni alla struttura portante non fossero visibili proprio a causa dell’intervento di riverniciatura posto in essere dalla venditrice.

Pretesto a una breve nota “comparatistica”: la fattispecie nei sistemi di common law.

Supponiamo ora di trasferirci oltreoceano: la stessa condotta esaminata nell’ordinanza - il mascheramento di difetti strutturali mediante riverniciatura - avrebbe esposto l’autore a conseguenze ben più severe nel sistema statunitense.

Nei sistemi giuridici di matrice anglosassone, infatti, condotte di questo tipo non si limiterebbero a configurare una mera violazione contrattuale con conseguente responsabilità civile per “breach of contract”, ma integrerebbero fattispecie di frode o “misrepresentation” che comportano rimedi molto più incisivi: non solo il risarcimento dei danni compensativi (compensatory damages), ma anche l’applicazione di punitive damages o exemplary damages, volti a sanzionare la condotta dolosa e a fungere da deterrente per comportamenti analoghi.

Particolarmente significativo è il principio consolidato nei sistemi di common law, e segnatamente in quello statunitense, secondo cui le clausole “as she lies” (“come sta e giace”) o “with all faults” - equiparabili alla nostra clausola “visto e piaciuto” - perdono ogni efficacia quando il venditore abbia posto in essere “artifice” o “fraud” finalizzati “to conceal” o “to prevent from discovering such defects” (occultare un vizio o impedire all’altra parte di scoprirlo), come richiamato dalla stessa Cassazione civile sez. II,23/03/2018, n.7287 (su fattispecie ben più complessa). Nel sistema statunitense, inoltre, la Federal Trade Commission e le legislazioni statali prevedono specifiche tutele per i consumatori contro le pratiche commerciali ingannevoli (deceptive trade practices), che possono comportare sanzioni amministrative, class actions e, in alcuni casi, anche conseguenze penali per commercial fraud.

BMW v. Gore: un leading case emblematico La “riverniciatura” volta a nascondere difetti divenne un noto leading case nella giurisprudenza americana sui punitive damages, all’epoca riportato anche nelle “nostre” riviste giuridiche: BMW of North America, Inc. v. Gore, deciso dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1996 (517 U.S. 559).

La BMW aveva riverniciato alcuni veicoli danneggiati durante il trasporto o l’esposizione, senza informare di tale circostanza né i concessionari né i successivi acquirenti. Il signor Gore aveva acquistato una BMW Serie 5 nuova per circa 40.000 dollari, scoprendo successivamente che era stata riverniciata per un valore di circa 600 dollari a causa di danni da pioggia acida subiti durante il trasporto. La giuria dell’Alabama aveva inizialmente condannato la BMW al pagamento di 4 milioni di dollari di punitive damages (poi ridotti a 2 milioni dalla Corte Suprema dell’Alabama), oltre ai compensatory damages. La ratio della condanna era che BMW aveva posto in essere una pratica commerciale ingannevole sistematica, nascondendo ai consumatori le riparazioni effettuate sui veicoli “nuovi”.

La Corte Suprema degli Stati Uniti, pur confermando il principio dei punitive damages, ridusse drasticamente l’importo ritenendo eccessiva la sproporzione rispetto al danno effettivo subito, stabilendo importanti criteri per la determinazione dei danni punitivi (il famoso “guideposts test”: in sostanza un controllo di proporzionalità e ragionevolezza dell’importo sanzionatorio o risarcitorio). Nel nostro ordinamento la riverniciatura volta a nascondere difetti comporta “solo” la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno effettivo (come nell’ordinanza in commento), nel sistema statunitense – invece - la stessa condotta può esporre a sanzioni pecuniarie di carattere punitivo di entità ben superiore al danno patrimoniale concretamente subito.

Tale differenza riflette le diverse concezioni sistematiche della responsabilità civile nei due ordinamenti: mentre il common law configura la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale secondo una logica bifasica che distingue tra compensatory damages (volti al ristoro integrale del danno) e punitive damages (finalizzati alla deterrenza e alla sanzione della condotta riprovevole), il civil law adotta un modello monofasico incentrato sul principio della riparazione integrale del danno secondo il paradigma dell’equivalenza economica. Nel sistema di common law, i punitive damages o exemplary damages costituiscono un istituto autonomo rispetto alla funzione riparatoria, operando secondo una logica sanzionatoria-deterrente che trascende il mero ristoro del pregiudizio subito dal danneggiato. Il meccanismo, consolidato nella giurisprudenza anglosassone sin dal XVIII secolo, mira a perseguire finalità di general deterrence e specific deterrence, scoraggiando tanto il responsabile quanto i potenziali autori di condotte analoghe.

Il civil law, per converso, rimane ancorato al principio neminem laedere e alla concezione riparatoria della responsabilità civile, secondo cui il risarcimento deve tendere alla restitutio in integrum attraverso il ripristino della situazione patrimoniale antecedente al fatto dannoso. La funzione punitiva rimane estranea alla responsabilità civile e relegata nell’ambito del diritto penale e amministrativo-sanzionatorio, in coerenza con il principio di tipicità delle sanzioni e con la tradizionale separazione tra illecito civile e illecito penale.

Costituisce tuttavia eccezione a tale principio il riconoscimento di sentenze straniere contenenti punitive damages, ammesso dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 16601 del 2017, subordinatamente alla sussistenza di specifiche condizioni di tipicità, prevedibilità e proporzionalità. Tale diversità sistematica si riflette anche nella diversa configurazione dei rimedi contrattuali: mentre il common law prevede una gamma articolata di “remedies” (damages, specific performance, injunction, restitution) modulabili secondo le esigenze del caso concreto, il civil law privilegia rimedi tipizzati (risoluzione, riduzione del prezzo, risarcimento del danno) orientati al ripristino dell’equilibrio sinallagmatico originario.

Il “nostro” fondamento teorico si riferisce alla Differenztheorie di matrice pandettistica tedesca. La teoria della differenza, elaborata dalla dottrina tedesca dell’Ottocento e codificata nel § 249 del BGB, stabilisce che il risarcimento del danno deve tendere a collocare il danneggiato nella situazione patrimoniale in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non si fosse verificato (Naturalrestitution, ripristino in forma specifica) o, quando ciò non sia possibile, attraverso il risarcimento per equivalente (Geldersatz). Questa concezione, che ha influenzato il nostro art. 2043 c.c. e l’intera disciplina della responsabilità civile italiana, si fonda sul calcolo differenziale tra la situazione patrimoniale attuale del danneggiato e quella, ipotetica, che si sarebbe realizzata sine damno. Il risarcimento deve essere tantundem, né più né meno del danno effettivamente subito, secondo il principio dell’equivalenza economica.

Ecco perché, anche nel caso dell’ordinanza n. 27968/2025, la risoluzione del contratto e la restituzione del prezzo rappresentano la conseguenza “naturale” dell’inadempimento, senza che si ponga neppure il problema di sanzioni aggiuntive a carattere punitivo, che sono e rimangono (per ora) concettualmente estranee al nostro sistema di responsabilità civile.

Allegato:

Cassazione civile ordinanza 27968 2025

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