Cassazione sez. Lavoro, sentenza n. 23949 del 22/10/2013: causa di lavoro di una dipendente del Ministero del beni culturali e ambientali che assume di aver subito, da parte del suo datore di lavoro, comportamenti qualificabili come mobbing e volti alla dequalificazione della stessa, con conseguente richiesta di risarcimento danni conseguenti alla perdita dei compensi previsti nel contratto e alla perdita delle opportunità professionali, nonché di risarcimento del danno biologico e del danno all'immagine professionale.
In prima udienza la dipendente chiede di poter provare, a sostegno dell'esistenza e continuità di tali comportamenti e anche ai fini della determinazione della misura del danno, fatti accaduti successivamente al deposito del ricorso, anche in virtù dei principi di economia processuale, di ragionevole durata del giudizio e divieto di frazionare in più processi una pretesa ritenuta fondata su un comportamento lesivo, sostanzialmente unitario, e quindi rientrante nella causa petendi e nel petitum della domanda.
Avverso la sentenza di appello, che ha aveva peraltro esaminato solo i fatti precedenti il deposito del ricorso e non su quelli sopravvenuti, propone ricorso per Cassazione.
Sostanzialmente la Corte rigetta il ricorso richiamando un orientamento già formulato in precedenza e che si può riassumere nel seguente principio: “ la domanda giudiziale di risarcimento del danno si fonda su di una causa petendi identificabile in uno specifico accadimento lesivo spazialmente e temporalmente determinato, sicchè, una volta che essa sia stata proposta in relazione a determinati fatti, il riferimento all'eventualità che nelle more del giudizio abbiano a verificarsi nuovi accadimenti (siano pur essi omogenei rispetto ai precedenti), suscettibili di ledere ancora la situazione giuridica protetta e di cagionare così una ulteriore ragione di danni, non introduce alcuna valida domanda, nè, una volta che tali fatti si siano verificati, può legittimare alla sua proposizione nel corso del giudizio.(cfr. ex plurimis Cass. n. 10045/1996).
Ne deriva che la richiesta di ristoro del danno per fatti sopravvenuti in corso di causa comporta un non consentito mutamento della primitiva domanda, con la conseguente inammissibilità della stessa anche in appello.
Tale assunto non si pone assolutamente in contrasto con altro orientamento espresso dalla Suprema Corte, secondo cui nel rito del lavoro, proposta una domanda risarcitoria ex art. 414 c.p.c., la richiesta del risarcimento degli ulteriori danni maturati nel corso del processo e di una somma maggiore rispetto a quella inizialmente indicata in relazione ad un più ampio periodo temporale maturato nel corso dello svolgimento del giudizio, non comporta alcuna immutazione dei fatti posti a fondamento della domanda, non introducendo alcun nuovo tema di indagine sul quale la controparte non abbia potuto svolgere le proprie difese, nè un ampliamento del tema sottoposto all'indagine del giudice, versandosi in tema di conseguenze risarcitorie dipendenti dall'unico fatto dedotto con il ricorso introduttivo (Cass. n. 17101/2009).
Diversamente, nel caso in esame le ulteriori conseguenze dannose che si assumono verificate dopo il deposito del ricorso introduttivo sono in realtà dipendenti da ulteriori sviluppi della vicenda lavorativa (consistenti, fra l'altro, nell'avvio di un procedimento disciplinare in relazione alla mancata esecuzione di un incarico di lavoro) e pertanto da episodi fattuali successivi e diversi rispetto a quelli dedotti nella domanda introduttiva, sui quali è comunque necessaria un'ulteriore indagine istruttoria.