Cassazione Civile sez. Lavoro: Sentenza n. 10045 del 15/11/1996

Cassazione Civile sez. Lavoro: Sentenza n. 10045 del 15/11/1996
Lunedi 28 Ottobre 2013

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 10 aprile 1981, Giuseppe AAA adiva, ai sensi dell'art. 700 c.p.c., il Pretore di Thiene, in funzione di giudice del lavoro, chiedendo che, ritenuta la sussistenza del suo diritto di esercitare la professione sanitaria nel proprio laboratorio radio-diagnostico, convenzionato con la locale U.S. n. 6, fosse dichiarata l'illegittimità - e, quindi, inibita l'applicazione - dell'art. 3 dell'Accordo economico collettivo 22 febbraio 1980, reso esecutivo con D.P.R. 16 maggio 1980, nella parte in cui subordinava a preventiva autorizzazione della stessa USL l'ammissione degli utenti ai servizi offerti dalle strutture private convenzionate con S.S.N.

Accolto il ricorso, il relativo provvedimento veniva, tuttavia, travolto per effetto della sentenza 28 gennaio 1982, n. 3474, con la quale le Sezioni unite di questa Corte, in sede di regolamento, dichiaravano, relativamente alla pretesa svolta dal costa, il difetto della giurisdizione ordinaria, in favore di quella amministrativa.

Nelle more, il AAA introduceva davanti allo stesso pretore, con ricorso del novembre 1981, la causa di merito, chiedendo la conferma del provvedimento urgente, con conseguente pagamento degli esami da lui effettuati senza la preventiva autorizzazione, l'accertamento della illiceità del comportamento della USL e la condanna della medesima al risarcimento dei danni, a titolo di responsabilità sia contrattuale che extracontrattuale e da concorrenza sleale.

Nel corso del susseguente giudizio, promosso anche nei confronti della Regione Veneto, il pretore, con sentenza del 23 dicembre 1982, dichiarava nullo e privo di effetti ab origine il provvedimento ex art. 700 c.p.c. e, conseguentemente, il difetto della giurisdizione ordinaria in merito alla domanda concernente il compenso per le prestazioni rese a privati che non avevano ottenuto la relativa autorizzazione. Viceversa, relativamente alla domanda di risarcimento dei danni imputati alla triplice causale di cui sopra, affermava la propria competenza e la sussistenza della giurisdizione ordinaria.

La USL n. 6 proponeva un nuovo regolamento di giurisdizione ed un regolamento di competenza: quest'ultimo veniva rigettato con sentenza n. 4909 del 1984, mentre l'altro veniva dichiarato inammissibile con sentenza n. 6477 del 1984.

La causa, riassunta ad istanza del AAA, con ricorso del 14 marzo 1985, subiva una nuova sospensione, questa volta per la pendenza di procedimento penale nei confronti dei componenti del Comitato di gestione e di taluni dipendenti della USL, cui erano stati contestati i reati di cui agli artt. 323 e 328 c.p., per i fatti denunciati dallo stesso AAA, il quale si costituiva parte civile in codesto procedimento.

Gli imputati, riconosciuti colpevoli del reato di cui all'art. 328 c.p., venivano anche solidalmente condannati al risarcimento dei danni subiti dal AAA. Queste statuizioni venivano, però, riformate dalla Corte di appello di Venezia che, con sentenza del 25 gennaio 1989, assolveva gli imputati per insussistenza del fatto e, quanto alle risultassero infondate in forza di siffatta pronuncia assolutoria e, comunque, tali da non potere trovare accesso nel processo de quo, siccome correlate alla tutela non di diritti soggettivi, ma di interessi legittimi.

La successiva impugnazione per cassazione, proposta dalla parte civile, veniva dichiarata inammissibile da questa Corte con sentenza 16 febbraio 1990, n. 506, sull'assunto che, nel regime dell'autorizzazione, configurato ai fini dell'ammissione degli utenti alla fruizione dei servizi sanitari offerti da strutture private convenzionale, non erano riconoscibili, in capo al professionista titolare del rapporto convenzionale, diritti soggettivi suscettibili di tutela risarcitoria, ma soltanto interessi legittimi.

Il AAA chiedeva, allora, con ricorso del 26 marzo 1991, la fissazione dell'udienza ex art. 297 c.p.c., per la prosecuzione del processo civile sospeso a seguito dell'inizio dell'azione penale.

Ripreso il corso del giudizio, estromessa dal medesimo la Regione veneta e costituitisi Paola Da Rin, Andrea e Valeria AAA, in qualità, la prima, di moglie e, gli altri due, di figli del AAA, deceduto nel frattempo, il pretore, con sentenza definitiva del 21 ottobre 1992 dichiarava, in parte, inammissibili le domande del ricorrente e, per il resto, estinto il processo.

Il successivo appello del AAA veniva rigettato dal Tribunale di Vicenza con sentenza depositata in cancelleria il 17 settembre 1993.

I giudici del gravame osservavano, in particolare, che:

- la circostanza che il pretore avesse, dopo la lettura del dispositivo e nelle more della redazione della sentenza, disposto la comparizione delle parti, per ottenerne precisazioni in ordine alle conclusioni dalle medesime rassegnate, non determinava alcuna invalidità della sentenza stessa, non avendo influito sulla regolarità della precedente trattazione della causa; ed anche a volerne inferire una non compiuta conoscenza dell'oggetto della causa da parte del giudice, nel momento della decisione, ciò avrebbe potuto rilevare soltanto sotto il profilo dell'ingiustizia della sentenza, e quindi senza nulla aggiungere al potere, derivante al Tribunale dai proposti motivi di appello, di riesaminare, in sede di gravame, del merito dell'intera controversia;

- la declaratoria di estinzione del processo era corretta limitatamente alle domande che potevano considerarsi trasferite nel procedimento penale, ai sensi e con le conseguenze di cui all'art. 24 c.p.p. previgente, applicabile nella specie ratione temporis;

- l'ampia formulazione delle pretese svolte dal AAA in occasione della citazione della USL n. 6, quale responsabile civile, nel giudizio penale dimostrava che siffatto trasferimento aveva riguardato tutte le domande di risarcimento per responsabilità extracontrattuale, proposte nell'originario giudizio civile, relativamente a quegli stessi fatti per i quali era stato poi promosso il giudizio penale e che erano stati contestati agli imputati come posti in essere per tutto il periodo fino al dicembre 1984;

- la rinuncia ex art. 24 c.p.p. cit., doveva poi ritenersi estesa, ad interessi e rivalutazione maturati sulle somme pretese per il risarcimento ora detto, anche successivamente alla domanda introduttiva del giudizio civile di primo grado, trattandosi di accessori del credito principale, che possono essere richiesti, ai sensi dell'art. 345 c.p.c., anche per il periodo successivo alla sentenza impugnata, senza che ciò configuri ampliamento di codesta domanda;

- per quanto, invece, concerneva i danni causalmente collegati dal AAA a comportamenti della USL, ugualmente ostruzionistici e preclusivi della possibilità di accesso degli assistiti al di lui laboratorio convenzionato, ma posti in essere solo successivamente alla proposizione della domanda introduttiva dell'originario giudizio civile, le relative allegazioni si risolvevano in una non consentita, né autorizzata dal pretore ex art. 420, primo comma, c.p.c., modificazione della domanda stessa, con l'introduzione di circostanze di fatto nuove, ancorché di natura omogenea rispetto alle precedenti;

- trasferimento in sede penale non poteva ritenersi avvenuto né per le pretese risarcitorie correlate a responsabilità contrattuale della USL, né per quelle correlate a fatti illeciti della stessa non assurti ad ipotesi di reato; emergeva, tuttavia, dalla prospettazione data alla relativa domanda che anche questa differente responsabilità era stata causalmente organi della USL ai fini del procedimento penale, sicché, l'ivi pronunciata sentenza di assoluzione con la formula "perché il fatto non sussiste" costituiva un insormontabile giudicato negativo, pienamente opponibile alla parte civile, relativamente ai fatti costituivi del diritto da questa vantato;

- di tale opponibilità non era dato dubitare, in quanto questa Corte, definendo l'impugnazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza di appello, aveva negato l'ammissibilità del ricorso per ragioni di merito, vale a dire per avere ritenuto che le situazioni giuridiche riconoscibili in capo all'istante non avessero la consistenza del diritto soggettivo, ma solo quella dell'interesse legittimo, risultando in tal guisa carenti le ipotesi che, secondo il disposto dell'art. 652 c.p.p. vigente (corrispondente all'art. 25 c.p.p. previgente, come emendato dalla Corte costituzionale), fanno escludere l'efficacia del giudicato formatosi sulla sentenza di assoluzione, per il danneggiato che non si è costituito o non è stato posto in condizione di costituirsi parte civile;

- in ogni caso, era da escludere che, nel regime (dettato dall'art. 3 del D.L. 26 novembre 1981, n. 678, convertito in legge 26 gennaio 1982, n. 12, in sostituzione dell'art. 25, commi sesto e settimo della legge 23 dicembre 1978, n. 833) dell'autorizzazione degli assistiti ad avvalersi delle prestazioni fornite da privati convenzionati con Servizio sanitario nazionale, sussistesse un diritto soggettivo di questi ultimi al rilascio dell'autorizzazione;

- quest'esclusione, del correlativo riconoscimento in capo a detti privati di interessi legittimi non suscettibili di tutela risarcitoria, non contrastava con l'irretrattabile affermazione della giurisdizione ordinaria, contenuta nella sentenza non definitiva del Pretore di Thiene, trattandosi di una statuizione di merito in ordine alla fondatezza della pretesa in contestazione, resa appunto in siffatta sede ordinaria.

Per la cassazione di questa sentenza ricorrono Betta Paola Da Rin, Andrea e Valeria AAA, sulla base di sette motivi, poi illustrati con memoria. Resiste la USL n. 6 "Alto Vicentino" con controricorso e ricorso incidentale condizionato.

 

Motivi della decisione

Col primo motivo i ricorrenti denunciano violazione delle "norme a valenza costituzionale sul riparto della giurisdizione", degli artt. 4 e 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. F; dell'art. 25, commi sesto e settimo, della legge n. 833 del 1978, come sostituiti dall'art. 3 del D.L. 26 gennaio 1982, n. 12; "delle altre norme che regolano i rapporti tra USL e medici convenzionati"; "delle norme in materia di risarcimento del danno da responsabilità contrattuale, extracontrattuale e da concorrenza sleale"; degli artt. 10, 41 e 113 della Costituzione.

Sostengono che il regime dell'autorizzazione dell'accesso dei cittadini alle strutture private convenzionate col servizio pubblico, come strutturato dalle citate norme di previsione, comporta l'insorgere, in presenza delle condizioni prestabilite, di un diritto soggettivo perfetto, anche in capo ai titolari delle strutture stesse, all'emissione del detto provvedimento, rispetto al quale l'amministrazione non dispone di potestà discrezionali. Negano che argomenti contrari possano trarsi dalla mera difficoltà di quantificazione del danno conseguente alla lesione di quel diritto e che la sentenza resa da questa Corte sul ricorso proposto dalla parte civile costituitasi nel processo penale di cui si è detto in parte narrativa possa ritenersi fonte di giudicato circa la necessità di qualificare come interessi legittimi le situazioni giuridiche soggettive nascenti dalla convenzione in favore dei medici. Lamentano che l'impugnata sentenza abbia, nella sostanza, prodotto l'aberrante conseguenza del riconoscimento dell'arbitrio dell'amministrazione pubblica nella scelta di rispettare o non la disciplina della convenzione e di decretare, senza possibilità di un'effettiva tutela per gli interessati, l'eliminazione di una struttura convenzionata.

Col secondo motivo, denunciano violazione di giudicato di questa Corte in punto di giurisdizione: ciò in quanto sul riconoscimento di diritti soggettivi in favore del AAA si fondavano, sia la sentenza non definitiva del pretore, recante l'affermazione della giurisdizione ordinaria e della competenza del giudice del lavoro, sia le susseguenti sentenze di cassazione, rispettivamente reiettiva del regolamento di competenza e dichiarativa dell'inammissibilità di quello di giurisdizione. Ribadiscono l'impossibilità di una diversa soluzione motivata col richiamo alla succitata sentenza resa da questa stessa Corte in sede di impugnazione della parte civile, posto che, come riconosciuto dai giudici a quibus, non v'era stato alcun trasferimento in sede penale dell'azione civile intesa a far valere la responsabilità contrattuale e da concorrenza sleale della USL.

Col terzo motivo, denunciando violazione delle norme sul rito del lavoro ed in particolare di quelle (artt. 414 - 420 c.p.c.) sulla determinazione della domanda giudiziale, lamentano che il Tribunale abbia ritenuta preclusa e, quindi, inammissibile la domanda intesa ad ottenere la liquidazione del danno riferibile a comportamenti ostruzionistici ulteriori rispetto a quelli contestati col ricorso introduttivo, sebbene la pretesa risarcitoria fosse stata estesa, con quest'atto, anche ai danni che si sarebbero verificato in corso di causa.

Col quarto motivo denunciano ulteriori violazioni della disciplina del processo del lavoro nonché violazioni delle norme che regolano il trasferimento dell'azione civile nel processo penale. Sotto un primo aspetto si lamenta la contraddittorietà della sentenza nella parte in cui, pur avendo esclusa l'ammissibilità di domande risarcitorie relative a danni verificatisi in corso di causa, ritiene poi che il trasferimento de quo sia stato esteso anche a queste domande. Soggiungono, sotto altro aspetto, che, in realtà, ad un trasferimento siffatto era stata assoggettata la sola domanda concernente la responsabilità extracontrattuale e che, tuttavia, neppure rispetto ad essa era configurabile, nel giudizio civile, decadenza o rinuncia, in quanto, da un lato, questa Corte, nella sede penale, sia pure senza effetto per l'assoluzione ormai definitiva degli imputati e limitatamente all'impugnazione della parte civile, aveva riconosciuto il carattere illecito dei comportamenti; e dall'altro lato, la negazione, nella stessa sede, della riconoscibilità della sussistenza di diritti soggettivi propri di detta parte non poteva prevalere sugli opposti giudicati specificati col secondo motivo di ricorso.

Col quinto motivo denunciano nullità della sentenza e del procedimento per non avere il giudice di appello accolto il motivo con cui si censurava la mancata ricostruzione del fatto nella sentenza pretorile ed in particolare l'omessa menzione della sentenza non definitiva in punto di giurisdizione nonché di quelle di cassazione sui regolamenti di competenza e di giurisdizione.

Col sesto motivo lamentano ulteriore nullità della sentenza, per non avere il giudice di appello accolto il motivo di censura relativo alla disposta (ad opera del pretore) comparizione delle parti dopo e nonostante l'avvenuta decisione della causa con la pronuncia del dispositivo.

Col settimo ed ultimo motivo lamentano che non sia stata disposta alcuna istruttoria ai fini dell'accertamento dei danni lamentati.

Col ricorso incidentale condizionato, la USL sollecita la cassazione dell'impugnata sentenza nella parte in cui ha escluso l'avvenuto trasferimento in sede penale di tutte le domande originariamente proposte nel giudizio civile e la conseguente, totale estinzione di questo ex art. 24 c.p.p. previgente.

I due ricorsi devono essere riuniti, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., siccome proposti avverso la medesima sentenza.

I primi due motivi del ricorso principale, che, per la loro connessione, possono congiuntamente esaminarsi, non sono fondati.

Al riguardo, deve preliminarmente osservarsi che la proposta eccezione di giudicato interno sulla sussistenza della giurisdizione ordinaria (della quale non è necessario investire la Sezioni unite, in quanto, secondo un consolidato orientamento, non implicando essa alcuna statuizione sulla giurisdizione medesima, può conoscerne anche una sezione semplice di questa Corte: v., ex plurimis, Cass., 14 febbraio 1980, n. 1063; Id., 8 aprile 1981, n. 2010; Id. 12 aprile 1984, n. 2377; Id. 1° marzo 1988, n. 2193) è del tutto irrilevante, poiché, nella specie, tale sussistenza non è revocata in dubbio dall'impugnata sentenza, che, all'opposto, espressamente la presuppone e coerentemente pronuncia nel merito delle pretese svolte dal ricorrente, negando la titolarità, da parte del medesimo, di situazioni giuridiche suscettibili di tutela risarcitoria.

Né la lamentata violazione del giudicato può dirsi corroborata dalla deduzione che il riconoscimento della suddetta giurisdizione avvenne sulla base della qualificazione come diritti soggettivi delle medesime situazioni giuridiche, qualificate, invece, dai giudici a quibus come interessi legittimi.

Non è qui fondatamente invocabile il principio per cui qualora la decisione della giurisdizione, resa dalle Sezioni Unite della S.C., sia fondata sulla qualificazione del rapporto dedotto in giudizio, il giudicato sulla giurisdizione si estende anche a tale qualificazione e diventa pertanto vincolante per il giudice del merito il quale, pertanto, se può. ai sensi dell'art. 386 c.p.c., negare in fatto la sussistenza del rapporto (in quanto ciò attiene alla pertinenza del diritto), non può rimetterne in discussione la qualificazione (v. Cass., 19 aprile 1995, n. 4341).

Invero, il giudicato rispetto al quale si assume sussistente il contrasto non riguarda una sentenza resa dalle Sezioni unite di questa Corte, ma quella non definitiva del Pretore di Thiene, a seguito della quale, pur essendo stato proposto ricorso per regolamento di giurisdizione, non vi fu luogo a pronuncia nel merito dallo stesso, o comunque identificativa della natura delle situazioni giuridiche soggettive controverse, ma ad una mera declaratoria (sent. n. 6577 del 1984) di inammissibilità derivante dal rilievo che, avendo la ricorrente USL proposto anche regolamento di competenza avverso la medesima sentenza, ciò costituiva evento incompatibile con la persistente negazione della giurisdizione riconosciuta dal pretore.

D'altra parte, la decisione (sent. n. 4909 del 1984) su questo secondo regolamento, conformemente alla sua funzione, non implicava alcun accertamento della Corte di ordine alla sussistenza o meno di diritti soggettivi in capo al professionista convenzionato, ma soltanto la designazione del giudice competente nell'ambito dell'ormai definitivamente sancita giurisdizione ordinaria.

Orbene, le sentenze dei giudici di merito sulla giurisdizione, come è noto, sono dotate, una volta passate formalmente in giudicato, di una mera efficacia endoprocessuale, che ne riduce la portata precettiva all'incontestabilità della giurisdizione nell'ambito del processo in cui sono state pronunciate; mentre l'inidoneità al giudicato sostanziale induce ad escludere che gli accertamenti in essa strumentalmente svolti ai fini della pronuncia sulla giurisdizione stessa possano fondare uguale preclusione quando i fatti ché ne sono oggetto o le relative qualificazioni giuridiche debbano essere esaminati ai diversi fini della decisione nel merito: diversamente opinando, si riconoscerebbe ad essi una capacità di "fare stato" oltre gli stretti limiti oggettivi segnati dalla funzione che li caratterizza, in tal guisa finendo per accreditarli, nell'ottica di quanto disposto dall'art. 2909 c.c., di quella stessa idoneità che in tesi si assume di dover negare.

Esattamente, pertanto, i giudici di appello hanno precisato che la propria valutazione in ordine alla consistenza delle situazioni giuridiche delle quali il ricorrente poteva vantare la titolarità, non essendo finalizzata ad una pronuncia sulla giurisdizione, ma soltanto alla decisione circa la fondatezza o meno della domanda, rimaneva rite et recte ad essi affidata.

Tanto ritenuto circa l'assenza di qualsiasi preclusione da giudicato, deve osservarsi come codesta valutazione, che ha riconosciuto alle dette situazioni natura di interesse legittimo, è anche giuridicamente corretta.

In tema di prestazioni medico-specialistiche - comprese quelle di diagnostica strumentale e di laboratorio, fornite agli utenti del servizio sanitario da parte di gabinetti, ambulatori e strutture convenzionate, l'art. 3 dell'accordo collettivo nazionale del 22 febbraio 1980, reso esecutivo con D.P.R. 16 maggio 1980 - così come l'art. 3 del D.L. 26 novembre 1981, n. 678 (convertito in legge 26 gennaio 1982, n. 12), che ne ha recepito il contenuto ad interpretazione ed integrazione della disciplina fissata dall'art. 25 della legge n. 833 del 1978 - fissando e regolando la preventiva autorizzazione dell'unità sanitaria locale, quale presupposto per il ricorso dell'utente ai professionisti e presidi convenzionati, non incide, in via innovativa, sulle posizioni soggettive degli interessati rispetto alla disciplina dettata da quest'ultima legge, dal momento che, anche alla stregua di essa, l'erogazione delle suddette prestazioni viene attribuita all'unità sanitaria locale preferenzialmente e prioritariamente rispetto alle strutture convenzionate: ciò con la conseguenza che, alla stregua della citata legge n. 833 del 1978, deve escludersi un diritto soggettivo dell'utente alla libera scelta fra struttura pubblica e struttura privata convenzionata, indipendentemente dalle vicende della disposizione di cui all'art. 3 dell'Accordo nazionale del 1980 e dell'annullamento della seconda parte della medesima - concernente il termine entro il quale la struttura pubblica avrebbe dovuto assicurare la prestazione per impedire il ricorso a quella privata - con sentenza del TAR Umbria 9 marzo 1981, n. 80 (Cass., 10 marzo 1995, n. 2789; Cons. Stato, Sez. V, 4 ottobre 1994, n. 1103).

Né esiste un principio costituzionale che garantisca l'astratta libertà di scelta fra medicina privata e strutture sanitarie pubbliche, come ha riconosciuto la Corte costituzionale allorché con sentenza 15 maggio 1987, n. 173, ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità dell'art. 3 del D.L. 26 novembre 1981, n. 678 convertito nella legge 26 gennaio 1982, n. 12, nella parte in cui non tiene conto dei cittadini, in precarie condizioni economiche, al fine cittadini, in precarie condizioni economiche, al fine di assicurare loro la libertà di scelta fra le prestazioni private, il cui costo è elevato, e le prestazioni delle strutture pubbliche.

In tale ordine di idee è stato già affermato da questa Corte che, con riguardo alle prestazioni di cui sopra, la facoltà dell'utente di ricorrere a gabinetti, ambulatori ed altri presidi convenzionati, in alternativa a quelli offerti dalle strutture pubbliche dei servizio sanitario nazionale, e, correlativamente, la possibilità del professionista convenzionato di beneficiare di tale scelta, configurano, tanto nella disciplina della legge 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva di detto servizio, quanto in quella dell'Accordo nazionale del 22 febbraio 1980 (stipulato in attuazione dell'art. 48 della legge n. 833 del 1978 e reso esecutivo con D.P.R. 16 maggio 1980), quanto infine in quella del D.L. 26 novembre 1981, n. 678 (convertito in legge 26 gennaio 1982, n. 12), nella parte in cui ha recepito detto accordo, posizioni di interesse legittimo e non di diritto soggettivo, poiché la scelta delle indicate strutture convenzionate (a differenza della scelta dell'assistenza medico-generica e pediatrica) viene subordinata ad una discrezionale valutazione, da parte dell'amministrazione pubblica, dell'insufficienza delle strutture pubbliche a soddisfare le richieste dell'utente, in relazione a funzioni prioritarie e preferenziali che sono assegnate a queste ultime, secondo determinazioni del legislatore ordinario attinenti alla concreta organizzazione del servizio sanitario e non interferenti sul diritto assoluto alla salute fissato dall'art. 32 Cost. (Cass., 21 novembre 1983, n. 6920; Id. 21 novembre 1983, n. 6921 1983; Id. 16 novembre 1982, da n. 6107 a n. 6118; Id. 9 giugno 1982, n. 3474).

Tutta la cospicua giurisprudenza successiva, citata dai ricorrenti specialmente con le note illustrative, è, invece, priva di qualsiasi pertinenza al caso di specie, in quanto riguarda il riconoscimento della devoluzione alla giurisdizione ordinaria delle controversie scaturenti dai rapporti costituiti per mezzo delle convenzioni stipulate ai sensi della riferita normativa di previsione, nel presupposto della natura privatistica degli uni e delle altre e della conseguente espunzione dei primi dal novero dei rapporti di impiego pubblico, al fine della loro riconduzione nell'ambito della prestazione d'opera professionale, sia pure con i connotati della parasubordinazione, di cui all'art. 409, n. 3, c.p.c. Trascurano, invero, i ricorrenti la decisiva circostanza che la possibilità di accesso dell'assistito alla struttura convenzionata attiene ad un aspetto esterno al rapporto convenzionale ed è disciplinata nei suoi presupposti non dalla convenzione, ma da una specifica disposizione di legge che regola l'azione dell'amministrazione competente nei confronti dell'assistito e non del professionista titolare del detto rapporto, come si desume agevolmente dal ricordato art. 25 della legge n. 833 del 1978, modificato dall'art. 3 del D.L. n. 678 del 1981, che identifica le "prestazioni di cura" e ne determina le modalità di erogazione, onde non a caso è inserito nel Capo terzo della stessa legge (intitolato a "Prestazioni e funzioni") e non già nel Capo quarto, che riguarda i rapporti col personale, anche convenzionato.

Del pari infondato è il terzo motivo del ricorso principale.

La domanda giudiziale di risarcimento del danno si fonda su di una causa petendi identificabile alla stregua dell'accadimento lesivo, quale fatto della vita spazialmente e temporalmente determinato, sicché postula l'ormai avvenuto compimento del medesimo.

Il riferimento all'eventualità che, nelle more del giudizio, abbiano a verificarsi nuovi accadimenti (siano pur essi omogenei rispetto ai precedenti), suscettibili di ledere ancora la situazione giuridica protetta e di cagionare così una ulteriore ragione di danni, non risponde al requisito minimo di determinazione che l'oggetto della domanda deve presentare, per non incorrere nella sanzione di nullità espressamente prevista, per la citazione, dall'art. 164 c.p.c., sia nel testo originario, che in quello modificato dall'art. 9 della legge 26 novembre 1990, n. 353, ma argomentabile anche per il ricorso introduttivo di controversie soggette al rito del lavoro, per l'evidente identità di ratio e, comunque, in base alla necessaria rilevanza da riconoscere, ai sensi dell'art. 156, secondo comma, c.p.c., al difetto di un requisito formale indispensabile allo scopo dell'editio actionis.

Ne consegue che in un riferimento del genere, come non è ravvisabile alcuna valida proposizione di domanda, così non può risiedere una sorta di legittimazione alla proposizione stessa, nel giudizio pendente, in occasione dell'effettivo verificarsi dei fatti originariamente solo paventati, Queste sopravvenienze, per la loro stessa qualificazione temporale, verrebbero ad integrare una causa petendi diversa (arg. ex Cass., 17 marzo 1994, n. 2538; Id. 11 gennaio 1988, n. 43) da quella anteriormente dedotta e, pertanto, implicherebbero un mutamento non consentito e, comunque, non autorizzato (art. 420, primo comma, c.p.c.) della primitiva domanda, come esattamente è stato ritenuto, nella specie, dai giudici del merito, allorché hanno confermato la declaratoria di inammissibilità delle domande risarcitorie proposte dal AAA con riguardo a lamentati comportamenti ostruzionistici posti in essere della USL nelle more del giudizio.

Non è dato diversamente argomentare, sulla base dell'art. 345, primo comma, c.p.c., ove deroga al divieto di domande nuove in appello con riferimento ai danni sofferti dopo la sentenza impugnata, trovando tale norma applicazione solo quando nel giudizio di primo grado sia stato richiesto il risarcimento del danno maturato in precedenza, e giustificandosi detta deroga solo nel presupposto che si incrementino soltanto le conseguenze dannose del medesimo fatto generatore posto a fondamento della pretesa, senza che gli ulteriori danni siano ricollegabili anche a fatti nuovi e diversi (Cass., Sez. Un., 16 settembre 1992, n. 10597).

Neanche le censure svolte col quarto motivo colgono il segno.

Del tutto irrilevante è il denunciato profilo di contraddittorietà, che quand'anche ravvisabile, concernendo domande risarcitorie (relative a fatti lesivi ricadenti nel periodo compreso fra l'inizio della presente controversia e quello del procedimento penale) inammissibili per le ragioni esposte in occasione dell'esame del precedente motivo, non comporterebbe una pronuncia caducatoria dell'impugnata sentenza, rimanendo, anche in parte qua, conforme a diritto il dispositivo di rigetto dell'appello.

Quanto agli ulteriori profili, deve rilevarsi:

a) essendo riconosciuto dagli stessi ricorrenti che la domanda intesa a far valere la responsabilità extracontrattuale della USL venne trasferita nel procedimento penale, si impone, sia pure limitatamente ad essa, come hanno statuito i giudici di appello, la declaratoria di estinzione del giudizio, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 24 c.p.p. all'epoca vigente (regolando l'art. 75, primo comma, c.p.p. del 1988 unicamente i trasferimenti dell'azione civile nel processo penale effettuati dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina: Cass., 7 aprile 1994, n. 3289), per rinuncia rilevante ex art. 306 c.p.c. e ss. (Cass., 11 maggio 1995, n. 5167; Id. 12 dicembre 1986, n. 7391).

b) Non osta a siffatta conseguenza la circostanza che, da un lato, la Corte di appello di Venezia, nell'assolvere gli imputati per insussistenza dei fatti e nel pronunciare sulle domande della parte civile ebbe a dichiarare le stesse inammissibili per carenza, in capo all'interessato, di diritti soggettivi suscettibili di tutela risarcitoria; e, dall'altro lato, questa Corte, esaminando il ricorso della parte civile, ne dichiarò, per identiche ragioni, l'inammissibilità. Si tratta, invero, di declaratorie non riducibili a statuizioni di mero rito con funzione preclusiva della presenza della parte civile nel processo penale e tali, quindi, da determinare, nei confronti questi la situazione di estraneità che, ai sensi dell'art. 652 c.p.p. vigente (come dell'art. 25 c.p.p. anteriore, emendato dalla Corte Costituzionale) preclude la soggezione all'efficacia del giudicato formatosi nel processo penale.

Una situazione del genere può verificarsi quando via sia, per libera scelta della parte civile, un suo esodo dal processo penale nel quale aveva trasferito la propria azione, ovvero in caso di revoca dopo che il processo penale sia stato sospeso per infermità mentale dell'imputato (art. 71, sesto comma, c.p.p.), o quando la parte civile costituitasi sia stata esclusa di ufficio o su richiesta di altra parte: ciò che deve avvenire nei precisi limiti temporali di cui agli artt. 80 e 81 c.p.p.; o, infine, quando sia stato ammesso il giudizio abbreviato e la parte civile non lo abbia accettato (art. 441, terzo comma, c.p.p.) o il giudice abbia accolto la domanda di applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 442, secondo comma, c.p.p.). Nessuna di tali situazioni si è verificata nella specie; e la suddetta declaratoria di inammissibilità è stata chiaramente motivata con ragioni che sono soltanto di merito, siccome attinenti alla riscontrata inesistenza di diritti soggettivi della parte civile suscettibili di tutela risarcitoria, in applicazione del generale principio della non risarcibilità della lesione degli interessi legittimi (Cass., Sez. Un., 16 dicembre 1994, n. 10800): onde deve riconoscersi la piena applicabilità del citato art. 652 c.p.p., là dove dispone che la sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nei confronti del danneggiato, quanto all'accertamento che il fatto non sussiste, sempre che questi, come nel caso in esame, "si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile".

c) Il Tribunale, peraltro, con accertamento di fatto congruamente motivato e, quindi, non censurabile in questa sede, ha stabilito che anche le azioni di responsabilità proposte nei confronti della resistente, ma non trasferite nel processo penale (nel quale la costituzione di parte civile era avvenuta, come dianzi riferito soltanto per la proposizione della domanda di responsabilità extracontrattuale) sono state causalmente ricollegate "agli stessi fatti contestati agli organi delle ULSS che sono stati esaminati nel processo penale conclusosi con la sentenza di assoluzione pronunciata dalla Corte di appello di Venezia", con la formula "perché il fatto non sussiste".

Ed allora, non possono i ricorrenti sfuggire all'ulteriore conseguenza dell'irrevocabile esclusione della sussistenza dei fatti costitutivi del diritto vantato, i quali vanno, - per l'efficacia che, nel giudizio civile, deve riconoscersi alla sentenza penale pronunciata in presenza delle condizioni indicate sub b) - necessariamente negati, in coerenza con la peculiarità della suddetta formula assolutoria.

Sicché ineccepibile appare le conclusione cui sono pervenuti i giudici del merito nel riconoscere, da un lato, la sussistenza delle condizioni di estinzione del processo per rinuncia, rispetto alla domanda di responsabilità extracontrattuale trasferita nel processo penale per effetto dell'ivi avvenuta la costituzione di parte civile; e, dall'altro lato, l'infondatezza delle ulteriori domande risarcitorie, che, sebbene conservate al dominio del processo civile, assumevano quali causae petendi quegli stessi fatti dei quali il giudicato formatosi nel detto processo penale aveva accertato l'insussistenza.

L'infondatezza del quinto motivo discende dal principio consolidato per cui l'assenza della concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa vale ad integrare un motivo di nullità della sentenza soltanto se tale o missione impedisca totalmente, non risultando in alcun modo richiamati i tratti essenziali della lite neppure nella parte motiva, di individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione, nonché di controllare che siano state osservate le forme indispensabili poste dall'ordinamento a garanzia del regolare esercizio della giurisdizione (Cass., 3 aprile 1990, n. 2711; Id. 26 febbraio 1985, n. 1672; Id. 22 aprile 1976, n. 1428). Questa inidoneità all'indicato scopo è, nella specie, da escludere alla stregua dello stesso motivo di ricorso in esame, là dove espressamente riconosce che le carenze espositive della sentenza di primo grado non hanno impedito al giudice del gravame una puntuale ricostruzione dei fatti di causa.

Né può, in particolare, sottacersi che, l'omessa menzione, sempre nella sentenza di primo grado, della sentenza non definitiva sulla giurisdizione e di quelle rese in sede di regolamento di giurisdizione e di competenza, non essendosi tradotta, come si è chiarito nell'esame del primi due motivi del ricorso, in una violazione delle relative statuizioni ad opera della sentenza di appello, finisce per risultare del tutto irrilevante ai fini della validità di quest'ultima: in effetti - ed quanto, al postutto, rileva ai fini della reiezione del motivo in esame - la regola dell'assorbimento della nullità nei mezzi di gravame e l'effetto sostitutivo della sentenza di appello rispetto a quella di primo grado comportano che i vizi denunciati col gravame, se riconosciuti sussistenti, devono, qualora non configurino casi di rimessione della causa al primo giudice ex art. 354 c.p.c., essere rimossi nello stesso giudizio di appello, la cui pronuncia conclusiva risulta, pertanto, legittima, ove non inficiata essa medesima da quei vizi.

Il sesto motivo è, a sua volta, infondato per ragioni identiche a quelle da ultime indicate in relazione alla specificazione dei rapporti fra giudizio di primo grado e giudizio di appello.

La denuncia della disposta comparizione delle parti, per la precisazione delle conclusioni, dopo la pronuncia del dispositivo e prima del deposito della sentenza attiene bensì ad un atto che, può ritenersi viziato da nullità per carenza di un requisito formale indispensabile allo scopo (di consentire la definitiva fissazione dei termini della controversia, anteriormente all'esercizio della potestas decidendi, che. nel rito del lavoro, si estrinseca nella pronuncia suddetta, cui consegue la irretrattabilità delle relative statuizioni); e tuttavia risulta ininfluente, nei limiti del suo riferimento alla sentenza d'appello, non essendo dimostrato che la suddetta nullità siasi tradotta in un vizio anche di questa, la cui legittimità è la sola da scrutinare in questa sede, in relazione al ricordato effetto sostitutivo.

Il settimo motivo, infine, è del pari infondato, per l'ovvia considerazione che, una volta esclusa la sussistenza dei fatti causativi del danno lamentato con le domande non trasferite nel processo penale, o stabilita l'estinzione del processo rispetto a quella trasferita, o dichiarata l'inammissibilità delle altre che non potevano ritenersi proposte rite et recte già con l'originario atto introduttivo del giudizio, non v'era più luogo a disporre alcun accertamento in ordine alla effettiva sussistenza ed all'entità dei danni suddetti.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Ne segue l'assorbimento di quello incidentale, proposto solo condizionatamente all'accoglimento di quello principale.

I ricorrenti, in ragione della loro soccombenza, vanno condannati, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione e dei relativi onorari, liquidati in complessive lire 4.000.000 (quattromilioni).

 

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta quello principale e dichiara assorbito l'incidentale.

Condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione in lire 72.000, oltre agli onorari, liquidati in complessive lire 4.000.000 (quattromilioni).

Così deciso in Roma il 2 aprile 1996.

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