Al fine di individuare se la sospensione disposta dal Collegio possa essere impugnata/revocata/modificata, occorre interrogarsi anzitutto sulla natura giuridica del provvedimento in questione.
Giovedi 19 Dicembre 2019 |
I decreti e le ordinanze pronunciati dal Giudice dell’esecuzione ai sensi di tale norma, su istanza del professionista delegato o su ricorso delle parti, costituiscono un esercizio di un’attività ordinatoria di impulso, coordinamento e controllo, non un’attività decisoria finalizzata a risolvere con efficacia di giudicato una questione controversa.
Attività ordinatoria giustificata dalla particolare natura del rapporto tra giudice delegante e professionista delegato, il quale ultimo è un ausiliario del tutto sui generis ed espleta funzioni in tutto equiparate a quelle giurisdizionali del delegante.
Autorevole dottrina, all’indomani dell’introduzione della norma de qua, aveva già ritenuto che il controllo del Collegio sui provvedimenti del Giudice dell’esecuzione rendesse evidente che scopo del procedimento previsto dall’art. 591 ter c.p.c. non è quello di accertare diritti, ma di risolvere difficoltà pratiche e superare celermente le fasi di empasse dovute ad incertezze operative o difficoltà materiali incontrate dal professionista delegato nello svolgimento delle operazioni di vendita.
Di conseguenza, anche il controllo del Collegio sulle ordinanze emesse dal Giudice dell’esecuzione in esito al ricorso ex art. 591 ter c.p.c. costituisce un controllo su un’attività ordinatoria, e ne mutua tale natura. Dunque, l’ordinanza collegiale sarà insuscettibile di statuire su diritti con efficacia di giudicato.
Va anche dato rilevo al fatto che la sospensione disposta ex art. 591 ter cpc, costituisce pur sempre un procedimento cautelare e, come ogni procedimento cautelare, risponde ad una specifica esigenza di tutela dell’ordinamento processuale diversa da quella dichiarativa ma pur sempre ricompresa nel diritto costituzionale di azione ex art. 24 Cost., ovvero quella di evitare che il processo possa risultare infruttuoso o inutile per la parte che avanza domanda in giudizio. Di qui, la sua possibile duplice funzionalità, tesa – a seconda dei casi – a preservare la situazione sostanziale oggetto della controversia, ovvero a garantire anticipatamente la soddisfazione del diritto vantato, in attesa della pronuncia di merito.
Data la particolare connotazione di tale tutela, ne deriva che, sul piano strutturale, il provvedimento cautelare emanato è sempre caratterizzato dalla sua intrinseca provvisorietà in quanto non possiede efficacia di accertamento.
Per concludere, va ricordato che i vari procedimenti di esecuzione forzata, previsti dal libro III del codice di procedura civile, rispondono ad un’autonoma esigenza di tutela, diversa sia da quella dichiarativa che da quella cautelare, ma pur sempre ricompresa nella garanzia costituzionale del diritto di azione ex art. 24 Cost. Nel processo esecutivo non vi sono «controversie da decidere, ma diritti da attuare».
Si può quindi ritenere che tanto il provvedimento reso in virtù del procedimento di revoca o modifica, quanto quello pronunciato sul reclamo, mantengono le medesime caratteristiche dell’originaria ordinanza cautelare, la quale è espressione di una cognizione sommaria inidonea a consentire il passaggio in giudicato della statuizione ex art. 2909 c.c.
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Tali considerazioni sembrerebbero avvalorate dalle affermazioni contenute nella recentissima sentenza della Cassazione, Sez. III Sent., del 09/05/2019, n. 12238, con la quale è stato affermato che “L'ordinanza collegiale pronunciata all'esito del reclamo ai sensi dell'art. 591 ter c.p.c. avverso gli atti pronunciati dal giudice dell'esecuzione nel corso delle operazioni di vendita per espropriazione di immobili delegate al professionista ex art. 591 bis c.p.c., non ha natura né decisoria, nè definitiva e, come tale, non è suscettibile di passare in giudicato, sicchè non è impugnabile con ricorso per cassazione, né ordinario, né straordinario ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost.”
Peraltro, in motivazione è stato affermato che “lo scopo del procedimento previsto dall'art. 591 ter c.p.c. non è quello di accertare diritti, ma di risolvere difficoltà pratiche e superare celermente le fasi di empasse dovute ad incertezze operative o difficoltà materiali incontrate dal professionista delegato nello svolgimento delle operazioni di vendita” […]
Dunque, conclude la Corte affermando che “eventuali nullità verificatesi nel corso delle operazioni delegate al professionista, e non rilevate nel procedimento di reclamo ex art. 591 ter c.p.c., potranno essere fatte valere impugnando ai sensi dell’art. 617 c.p.c. il primo provvedimento successivo adottato dal giudice dell’esecuzione”.
Quid juris in caso di sospensione “abnorme”?
Le premesse così sinteticamente esposte sono fondamentali per comprendere l’atteggiamento giurisprudenziale in tema di impugnazione del provvedimento cautelare qualificato dalla parte come abnorme, per avere il giudice effettuato in concreto un vero e proprio accertamento sconfinante nel merito della controversia.
Si potrebbe ritenere che, analogamente al principio espresso da Cass. Civ., 23 gennaio 2004, n. 1245, il capo “abnorme” dell’ordinanza sarà dunque sempre denunciabile dalla parte in sede di opposizione all’esecuzione: “non vi è ragione per sostenere che le ordinanze in questione debbano apparire estranee all'intero sistema organico della legge processuale, in quanto la stessa pretesa abnormità è pur sempre motivo di opposizione agli atti esecutivi, non essendovi ragioni particolari per sottrarre l’atto al suo normale regime”. (1) ;principio che, tradotto in termini pratici, consente alla Suprema Corte di dichiarare inammissibili i ricorsi proposti ex art. 111 Cost. direttamente avverso l’atto di esecuzione.
Ad ogni modo, è stato in passato rilevato che quando il vizio è talmente grave da condurre all’inesistenza giuridica del provvedimento, allora al rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi si affianca la possibilità di esperire in ogni tempo un’apposita actio nullitatis – che eventualmente potrà essere introdotta nei termini ex art. 618 cpc. (2).
Non va però dimenticato il principio della “prevalenza della sostanza sulla forma” (cfr. Cass., sez. un., 11 gennaio 2011, n. 390) per il quale ai fini dell’impugnazione di un provvedimento giudiziale, assume rilevanza prioritaria la forma adottata dal Giudice, a patto che la stessa sia frutto di una scelta consapevole che “può essere anche implicita e desumibile dalle modalità con le quali si è in concreto svolto il relativo procedimento” (Cass. 8 marzo 2012, n. 3672, ivi, 2012, 3, 292).
(1) Così Cass. Civ., 10 giugno 2008, n. 15331, cit. Chiarisce Cass. Civ., 19 febbraio 2008, n. 4231, che «i rilievi del ricorrente, secondo cui l’ordinanza impugnata avrebbe carattere abnorme e sostanzialmente decisorio, avendo il Giudice erroneamente ritenuto positiva la dichiarazione del terzo ed avendo provveduto in mancanza del contraddittorio fra le parti, non valgono a dimostrare l'ammissibilità del ricorso, potendo anche i vizi e le anomalie definite abnormi essere fatte valere in sede di opposizione agli atti esecutivi»; v. altresì Cass. Civ., 15 dicembre 1994, n. 10735, per la quale «l’opposizione agli atti esecutivi può essere proposta, sia per le irregolarità formali, sia per fare valere vizi sostanziali dei singoli atti esecutivi e per fare rilevare la giuridica inesistenza di provvedimenti abnormi». Conformi Cass. Civ., 29 gennaio 2016, n. 1674; Cass. Civ., 15 gennaio 2014, n. 681; Cass. Civ., 19 ottobre 2007, n. 21860; Cass. Civ., 11 maggio 1988, n. 3438; nonché in motivazione Cass. Civ., 19 maggio 2009, n. 11563.
(2) Cass. Civ., 1 luglio 1992, n. 8085, per cui «avverso il provvedimento abnorme del giudice della esecuzione, emesso in radicale carenza di potere, per totale estraneità alla tipologia dei provvedimenti previsti dall’ordinamento positivo, non sia ammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., in quanto non ricorre un'ipotesi di nullità convertibile in motivo di appello, ma d’inesistenza giuridica denunciabile in ogni tempo con l’actio nullitatis, quale ordinaria azione di accertamento» (conformi Cass. Civ., 23 novembre 1993, n. 11565; Cass. Civ., 3 settembre 1990, n. 9102).