Processo civile: quando la CTU diventa mezzo di prova

Processo civile: quando la CTU diventa mezzo di prova
Lunedi 18 Maggio 2015

In diverse occasioni la giurisprudenza di legittimità e di merito ha precisato, in relazione alla consulenza tecnica di ufficio, che essa ”costituisce un mezzo di ausilio per il giudice, volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati dalle parti, la cui interpretazione richiede nozioni tecnico- scientifiche, e non un mezzo di soccorso volto a sopperire all'inerzia delle parti”; ma questo principio di diritto processuale civile può essere “corretto”, ricorrendo determinate circostanze.

Il caso in esame riguarda una paziente che promuove un causa per ottenere il risarcimento dei danni nei confronti del medico che non le aveva diagnosticato in tempo un tumore, e il ritardo nella diagnosi aveva causato l'aggravamento della malattia; successivamente, in pendenza del giudizio, la donna decedeva e si costituivano i figli.

Il giudice di primo grado respingeva la domanda, ritenendo non provati né la colpa del medico né il nesso di causalità tra la sua condotta e la morte della paziente; in sede di appello, la corte territoriale, pur non condividendo la sentenza di primo grado laddove aveva escluso il nesso di causalità, respingeva comunque l'appello con la motivazione che “gli attori non avevano allegato e provato l'entità del danno patito dalla madre, in termini di entità e durata”.

I ricorrenti impugnano la sentenza di appello, lamentando la erroneità delle argomentazioni del giudice di secondo grado, in quanto non solo era stata fornita la prova del peggioramento delle condizioni di salute della paziente, ma era stata anche richiesta una CTU, che i giudici non avevano voluto mai disporre.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9249/2015 del 7 maggio, nell'accogliere le doglianze dei ricorrenti, precisa quanto segue in punto di allegazione e prova:

a) Onere di allegazione: appurato che fin dal giudizio di primo grado la attrice ha allegato che l'aggravamento della malattia era la conseguenza della ritardata diagnosi, la Corte chiarisce che chi domanda il risarcimento del danno ha l'onere di descrivere il danno ma non di quantificarlo: la quantificazione del danno da parte dell'attore è deduzione utile ma non necessaria ai fini della validità dell'atto di citazione.

b) Onere della prova: nel caso di specie si discute di un danno non patrimoniale alla salute e, afferma la Corte, il danno alla salute patito da chi per errore del medico, perde la certezza o la speranza di guarire non può essere provato per testimoni, per documenti o per presunzioni.

La sua valutazione esige nozioni mediche e quindi l'intervento di un consulente tecnico, a meno che il giudice non ritenga di acquisire da sé le cognizioni tecniche necessarie per valutare tale tipo di pregiudizio; peraltro, osserva la Corte, lo stesso giudice di appello da un lato ammette che il danno de quo “debba essere provato tramite l'opera di un consulente”, ma dall'altro conclude per il rigetto della domanda perché non provata.

Il giudice di appello, secondo gli Ermellini, ha violato in principio secondo cui “il giudice non può, senza contraddirsi, imputare alla parte di non assolvere all'onere di provare i fatti costitutivi della domanda e poi negarle la prova richiesta”, sopratutto se questa è l'unica prova idonea al predetto scopo.

La Corte pertanto conclude per il seguente principio di diritto: la consulenza tecnica di ufficio, che di norma non è un mezzo di prova, lo diventa allorché la prova del danno (come quello alla salute) sia impossibile o estremamente difficile a fornirsi con i mezzi ordinari”.

 

Scarica la sentenza.

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