Il caso sottoposto all'attenzione della Corte di Cassazione attiene ai criteri di liquidazione del compenso dell'avvocato, per l'attività professionale svolta in favore di una cliente, e di ripartizione dell'onere della prova, allorquando vi sia contestazione in merito al quantum del dovuto.
Nel giudizio di primo grado, il Giudice di Pace condannava la cliente a corrispondere all'avvocato una determinata somma (€ 1277,25) a saldo della parcella del legale per l'opera svolta, in particolare nella fase delle trattative intercorse con la controparte e relative ad un giudizio di separazione personale.
Tale importo era stato poi successivamente aumentato in € 2.017,47 dal giudice di appello, in accoglimento del gravame incidentale proposto dal legale: il Tribunale osservava in particolare che per l'esame e lo studio della controversia il Giudice di Pace aveva erroneamente liquidato un importo inferiore ai minimi tariffari (ossia € 500,00, mentre per le cause di valore indeterminabile, è previsto un onorario da un minimo di Euro 530,00 ad un massimo di Euro 1.405,00), mentre per il tribunale la somma da liquidare per tali voci in favore del professionista doveva essere di € 967,50, ritenuta più congrua in considerazione della complessità e durata delle trattative.
La cliente proponeva ricorso per Cassazione, lamentando la violazione degli artt. 2697, 2230, 1176 e 1460 c.c. e del d.m. 8-4-2004 n. 127: alla stregua di tali disposizioni di legge, la ricorrente, nel contestare le voci della notula presentata dal professionista, sosteneva che dovesse essere onere di quest'ultimo provare di avere eseguito gli 11 colloqui di cui chiedeva il compenso e le 20 telefonate, nonché giustificare le ragioni della quantificazione dell'onorario in misura maggiore del minimo.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9237/2015, respinge il ricorso della cliente, giudicando corretto il ragionamento seguito dal giudice di secondo grado, che nel liquidare l'onorario in misura superiore al minimo tariffario, ma compreso, comunque, entro il massimo, non era affatto incorso nelle dedotte violazioni di legge.
Secondo la Suprema Corte, infatti, “è il cliente che deve fornire la prova che l'avvocato abbia svolto l'attività difensionale affidatagli con imperizia o comunque con impegno inferiore alla comune diligenza, altrimenti le singole voci ben possono essere liquidate al di sopra del minimo tariffario. Solo se chieda compensi al di sopra del massimo previsti, il professionista deve fornire, a norma dell'articolo 2697 c.c., la prova degli elementi costitutivi del diritto fatto valere, cioè delle circostanze che nel caso concreto giustifichino detto maggiore compenso, restando in difetto applicabile la tariffa nell'ambito dei parametri previsti”.
Leggi la sentenza n. 9237/2015