Come noto l’art. 2956 comma 2 c.c. dispone che si prescrive in tre anni il diritto dei professionisti per il compenso dell’opera prestata e per il rimborso delle spese correlative.
Venerdi 11 Febbraio 2022 |
Non pare però che la norma sia in atto vigente, ponendosi essa in netto contrasto con la legislazione di natura fiscale che, a partire dal 1972, si è succeduta. Ma prima di entrare nel dettaglio una premessa è d’obbligo: l’art. 2956 c.c. affonda le sue radici nell’art. 2140 del codice civile del 1865, chiamato codice napoleonico perchè ricalcava la struttura e la matrice ideologica espressa dal codice francese.
L’art. 2140 disponeva testualmente: “Si prescrivono col decorso di tre anni le azioni dei professori, maestri e ripetitori di scienze, lettere ed artistipendiali a tempo più lungo di un mese; dei medici, chirurghi e speziali per le loro visite, operazioni e medicinali; degli avvocati, procuratori alle liti ed altri patrocinatori per il pagamento delle loro spese e dei loro onorari. I tre anni si computano dalla decisione della lite o dalla conciliazione delle parti, o dalla revocazione del mandato; dei notai pel pagamento delle spese e degli onorari. I tre anni si computano dalla data dei loro atti; degli ingegneri, degli architetti e ragionieri pel pagamento dei lori onorari. I tre anni si computano dal compimento dei lavori.”
In conformità a quanto stabilito dal codice del 1865 la norma è stata interamente recepita dal vigente codice civile, che come si legge nel paragrafo 1210 della relazione Grandi, guardasigilli dell’epoca, l’ha condivisa. Nel commento all’art. 2140 del codice del 1865 si legge che tali precrizioni erano state introdotte perchè le persone ivi nominate solevano essere pagate subito e senza quietanza. Ed effettivamente quei rapporti si svolgevano senza formalità alcuna.
Questa prassi, però, è stata non solo superata, ma persino soppiantata e resa illegittima dalla normativa fiscale sopravvenuta, a partire almeno dal 1° gennaio 1973, data di entrata in vigore del DPR 26 ottobre 1972 n. 633, istitutivo dell’imposta sul valore aggiunto (IVA). L’art. 6 del DPR 633/72, invero, fa obbligo al professionista di emettere la fattura al termine della prestazione ovvero al momento dell’effettivo pagamento da parte del cliente. Parrebbe facile obiettare che la mancata emissione della fattura farebbe incorrere il professionista nelle sanzioni all’uopo previste se ed in quanto fiscalmente accertate; il che non sempre succede.
Non va sottaciuto tuttavia che il termine per l’accertamento fiscale, in caso di omessa dichiarazione, può avere luogo entro il 31 dicembre del 7° anno successivo a quello dell’omessa fatturazione; senza dire che il professionista è tenuto a conservare le pratiche per un tempo non inferiore a dieci anni dalla conclusione o dalla definizione delle stesse( art. 2120 c.c.).
Ma c’è di più: un’argomentazione irrefutabile in aperto contrasto con il disposto dell’art. 2956 n. 2 c.c. la si rinviene quando la prescrizione presuntiva del compenso dovuto al professionista viene eccepita dal soggetto che esercita un’attività imprenditoriale. Preme evidenziare in proposito che costui ha obblighi ben precisi ed ineludibili, essendo tenuto, quale sostituto d’imposta, ad operare la ritenta del 20% sul compenso pagato al professionista. Occorre far riferimento a tal fine all’art. 64 del DPR 600/1973 a norma del quale “chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri, per fatti o situazioni a questi riferibili e anche a titolo di acconto deve esercitare la rivalsa se non è diversamente stabilito in modo espresso”
Sono tenuti ad effettuare la ritenuta d’acconto, in quanto sostituti d’imposta, tra gli altri, le persone fisiche che esercitano imprese commerciali o agricole. Il versamento della ritenuta d’acconto viene eseguito dal sostituto d’imposta entro il 16 del mese successivo a quello in cui è avvenuto il pagamento. L’omesso versamento delle ritenute è un reato disciplinato dall’art. 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000 il quale così dispone: “E’ punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta”. Si dirà che la mole del suddetto ammontare ben difficilmente riguarda soggetti diversi dal grosso imprenditore commerciale e comunque da chi intrattiene rapporti di natura professionale al di fuori di un regolare contratto scritto. Ciò non toglie tuttavia che la norma esiste e vale, in linea generale, per tutti gli imprenditori commerciali. A parte ed in aggiunta la normativa tributaria espone il sostituto d’imposta a conseguenze anche di natura fiscale disciplinate dagli articoli 13 e 14 del decreto legislativo numero 471/1997. Chi non esegue, in tutto o in parte, le ritenute alla fonte è soggetto infatti alla sanzione amministrativa pari al 20% dell’ammontare non trattenuto, mentre chi, pur avendo eseguito la ritenuta, non procede ai versamenti è soggetto alla sanzione amministrativa del 30% di ogni importo non versato. Egli per giunta arreca a sè un danno certo e quantitativamente determinabile.
Operando la ritenuta, invero, l’imprenditore commerciale non solo detrae l’importo versato da quelli che addebita a sua volta, ma ha il vantaggio della deducibilità fiscale dal proprio reddito dell’intero corrispettivo pagato al professionista. Non c’è dubbio perciò che, sotto questo aspetto almeno, la posizione del cliente imprenditore si pone in netto contrasto con quella del professionista, atteso che l’evasione da parte di quest’ultimo si traduce in un danno di natura economica a carico del primo. Oltre tutto, costui per il solo fatto di eccepire la prescrizione presuntiva si espone, quanto meno, alle sanzioni di natura fiscale, essendo tenuto, come abbiamo visto, al rispetto di precisi obblighi quale il versamento della ritenuta d’acconto. Anzichè deferirgli il giuramento decisorio, unico mezzo probatorio ammesso dall’art. 2960 c.c. per estorcegli la confessione, egli perciò sarebbe tenuto a provare se e quando ha pagato e perchè non ha richiesto la fattura, nè eseguito la ritenuta di acconto.
Ma anche a prescindere non va sottovalutato un ulteriore obbligo di natura generale: la limitazione dell’uso del contante. E’ a tutti noto che dal 30 aprile 2008 l’utilizzo del pagamento per contanti non era consentito per importi superiori a 5.000 euro. La normativa vigente prevede il divieto di pagare in contanti importi superiori a 2.000 euro, che dall’inizio del prossimo anno sarà ulteriormente ridotto a 1.000 euro. Scattano sanzioni salate fino a 50.000 euro per coloro che non dovessero rispettare la nuova disposizione di legge ed effettuare pagamenti superiori alla suddetta soglia.
Non c’è dubbio perciò che la prescrizione presuntiva di cui all’art. 2956 c.c. si pone in netto contrasto con la suddetta normativa, la quale si ridurrebbe altrimenti ad un mero flatus vocis. In conclusione, dunque, il disposto dell’art. 2956 n. 2 c.c. non è applicabile in particolare a chi esercita un’attività imprenditoriale soggetta a IVA e, in linea generale, a chiunque abbia pagato per contanti importi superiori alla soglia/limite imposta dalla legge. Per stabilire quali conseguenze ne discendono basta porre attenzione all’art. 15 delle preleggi al codice civile, a norma del quale “Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore”.
Nel caso specifico siamo in presenza di un’abrogazione tacita per incompatibilità della pregressa normativa con quella posteriore. Non v’è motivo, pertanto, di continuare a subire un dettato normativo che penalizza il professionista a vantaggio di un debitore privo di scrupoli.