1.Prescrizione per i crediti retributivi: decorrenza in corso di rapporto (solo per quelli dotati di effettiva stabilità reale)
La carenza di una peculiare regolamentazione della prescrizione, nell'ambito del sistema normativo disciplinante la materia del lavoro, impone all'interprete di individuare preliminarmente il regime (o i regimi) di prescrizione applicabile ai vari diritti nascenti dal rapporto di lavoro subordinato nonché di verificare se tale regime abbia subito, nel corso del tempo, mutamenti sostanziali in conseguenza di modifiche normative introdotte dal legislatore incidenti sulla stabilità del rapporto di lavoro, quale il progressivo depotenziamento dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, iniziato con la cd. “riforma Fornero” del 2012 e portato, pressoché a compimento, con il primo decreto attuativo del cd. Jobs act, n. 23 del 2015.
Secondo l'opinione, ormai nettamente dominante, tutto ciò che viene corrisposto dal datore al prestatore di lavoro con periodicità annuale o infra annuale - ed, in particolare, i crediti di retribuzione - si prescrive nel termine di cinque anni, secondo il disposto dell'art. 2948, n. 4, c.c. Allo stesso termine quinquennale di prescrizione sono sottoposte, in virtù dell'art. 2948, n. 5, c.c., le competenze spettanti alla cessazione del rapporto di lavoro (il trattamento di fine rapporto, l'indennità di mancato preavviso e l'indennità per causa di morte).
La prescrizione ordinaria decennale, di cui all'art. 2946 c.c., assume invece nella materia del lavoro una rilevanza applicativa secondaria, svolgendo un ruolo residuale invero assai limitato, in quanto attiene ad indennità risarcitorie di danni alla salute, professionalità e simili.
Il connotato caratterizzante i diritti del prestatore, riconducibili nella previsione dell'art. 2948, n. 4, c.c., non è tanto la natura retributiva, quanto piuttosto la particolare modalità di soddisfazione del credito del lavoratore, nel senso che, soltanto ove l'adempimento della prestazione da parte del datore si realizzi con continuità a scadenze periodiche - per imposizione legale o contrattuale o più semplicemente per consuetudine - potrà trovare applicazione la prescrizione breve quinquennale. Viceversa opererà la prescrizione ordinaria decennale.
Ciò premesso, nel recente passato risultava, purtroppo, diffusa tra i lavoratori - mentre la questione era chiara pressoché solo per gli addetti ai lavori (magistrati, giuslavoristi, ecc.) - una radicata (quanto inesatta) convinzione, secondo cui i propri diritti, afferenti ai crediti retributivi, non si sarebbero prescritti per tutto il periodo di spiegamento del rapporto di lavoro ma sarebbero stati, all'opposto, rivendicabili anche dopo la risoluzione del rapporto stesso, entro un quinquennio.
Non era affatto così, in passato, (e, in seguito, lo spiegheremo), ma – per effetto delle modifiche introdotte nell’ordinamento dalla legislazione limitativa della stabilità d’impiego (l. n. 92/2012, cd. “riforma Fornero”, seguita dal d.l. n. 23/2015 attuativo del Jobs act) – la pregressa (inesatta) convinzione del lavoratore circa la non decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto (stante l’immanente timore di vulnerare, con una richiesta giudiziaria, il rapporto di fiducia con il proprio datore di lavoro, imprenditore o azienda macro dimensionata che fosse), sta acquisendo carattere veritiero, a partire dal 18 luglio 2012 (data di entrata in vigore della “riforma Fornero” che ha modificato l’art. 18 Stat. lav. del 1970), ad opera di opinioni dottrinali e decisioni della magistratura.
2. Le sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione
L’iniziale (ma infondato) convincimento della (doverosa) inoperatività della prescrizione dei crediti maturati dal lavoratore, dallo stesso non rivendicati in servizio – in ragione della remora a pregiudicare il rapporto con il proprio datore e, al tempo stesso, sottrarsi a reazioni ritorsive del medesimo, se non tramite licenziamenti o trasferimenti, quantomeno sulla carriera – va ritenuto essersi radicato, fondatamente, nel dipendente d’azienda sulla base della ragionevole aspettativa che, in un rapporto quale quello intercorrente tra datore e lavoratore, intrinsecamente connotato da uno squilibrio di potere tra le parti, quanto dovuto e non corrisposto dalla parte forte in corrispettivo della prestazione resa dalla parte debole, potesse essere rivendicabile alla cessazione del rapporto, quando lo stato di soggezione (cd. metus) era oramai venuto meno, e con esso il rischio di esposizione a iniziative pregiudizievoli del datore/debitore.
Queste motivazioni trovarono indiscusso riconoscimento nella sentenza n. 63/1966 della Corte costituzionale, la quale asserì che la regola, sancita dall'art. 2935 c.c., della decorrenza della prescrizione «dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere» (e cioè dal giorno in cui è sorto), non era operativa per i diritti retributivi sorgenti dall'art. 36 Cost. - soggetti di norma a prescrizione estintiva quinquennale - in ragione della condizione di soggezione psicologica in cui versa il lavoratore, nel rapporto di lavoro subordinato privatistico. Soggezione che si concretizza – disse - «nel timore del recesso, cioè del licenziamento che spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia ad una parte dei propri diritti...».
Espressamente la Corte Costituzionale asserì: «in un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d'impiego pubblico, il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti; di modo che la rinuncia, quando è fatta durante quel rapporto, non può essere considerata una libera espressione di volontà negoziale e la sua invalidità è sancita dall'art. 36 della Costituzione: lo stesso art. 2113 del Codice civile, che la giurisprudenza ha già inquadrato nei principi costituzionali, ammette l'annullamento della rinuncia proprio se questa è intervenuta prima della cessazione del rapporto di lavoro o subito dopo. In sostanza si è voluto proteggere il contraente più debole contro la sua propria debolezza di soggetto interessato alla conservazione del rapporto […]».
Da queste considerazioni conseguì, pertanto, la dichiarazione di «illegittimità costituzionale degli artt. 2948 n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, del Codice civile limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro» (in senso conforme Corte Cost. sent. n. 143/1969).
Dalla dichiarazione di incostituzionalità discese, per via giurisprudenziale, la regola del differimento, alla fine del rapporto di lavoro, del decorso della prescrizione per l'azione volta a rivendicare gli stretti titoli retributivi rientranti nell'ambito del “salario minimo familiare”(di cui si occupa appunto l'art. 36 Cost., in relazione al quale la Consulta dichiarò la parziale illegittimità delle disposizioni sulla prescrizione).
All'epoca la Consulta, in successive decisioni [1] si peritò, altresì, di precisare, direttamente o indirettamente - onde evitare interpretazioni estensive della materia o componente retributiva, oggetto del differimento dell'azione della prescrizione per l'epoca dell'estinzione del rapporto - che mentre erano riconducibili all'ambito del salario assistito dalla garanzia di irrinunciabilità ex art. 36 Cost., i compensi dello straordinario continuativo, la gratifica natalizia e 13 mensilità nonché i differenziali di retribuzione fra qualifica inferiore rivestita e quella superiore spettante, non lo erano invece la rivendicazione in se e per se del diritto alla qualifica (considerato un diritto di status, soggetto a prescrizione decennale ex art. 2946 c.c., pertanto decorrente in corso di rapporto), l'indennità sostitutiva delle ferie (avente natura risarcitoria, anch'essa soggetta a prescrizione decennale ex art. 2946 c.c., parimenti decorrente in corso di rapporto) e analoghe spettanze monetarie che, pur nascenti da vicende del rapporto di lavoro, hanno carattere risarcitorio, e non retributivo in senso stretto.
Tuttavia la regola del differimento a fine rapporto dell'inizio della prescrizione per il lavoratore - enunciata in assenza della legislazione garantistica (di cui alle leggi n. 604/1996 e n. 300/1970, cd. Statuto dei lavoratori) - subì successive correzioni ad opera della stessa Corte costituzionale, una volta che la sopravvenuta legislazione, protettiva del lavoratore ed al tempo stesso espulsiva e sanzionatoria del licenziamento arbitrario, stemperò il timore del recesso datoriale immotivato e ridusse il grado di minor resistenza del rapporto di lavoro privato rispetto a quello di pubblico impiego.
La Corte costituzionale - attraverso posteriori decisioni (n. 143/1969; n. 86/1971 ed infine n. 174/1972) - si pose allora, apertis verbis, il quesito (positivamente risolto) se, per effetto delle introdotte innovazioni legislative (ripetesi: legge sulla “giusta causa e giustificato motivo” nei licenziamenti individuali e Statuto dei lavoratori) non fosse venuto meno anche il fondamento giuridico su cui poggiava la parziale invalidazione delle disposizioni civilistiche sulla prescrizione, stabilita nella precitata sentenza n. 63 del 1966.
E pervenne così alla conclusione che il principio del differimento, all'epoca dell'estinzione del rapporto, della decorrenza della prescrizione non era affatto applicabile «tutte le volte che il rapporto di lavoro subordinato fosse caratterizzato da una particolare forza di resistenza la quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca la garanzia di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione».
Sulla tematica la Corte costituzionale ebbe occasione di ritornare con una serie di sentenze del giugno 1979 [2], tramite le quali riconfermò sostanzialmente - anche se non perspicuamente - la rettifica apportata nel 1972 all'orientamento dilatorio, per i rapporti di lavoro subordinato nei quali il lavoratore risulterebbe adeguatamente tutelato, sostanzialmente e processualmente, contro il timore della ritorsione del licenziamento arbitrario.
L'orientamento ricevette conferma dalle S.U. della Cassazione nella sentenza n. 1268 del 12.4.1976, la quale asserì, con tutta chiarezza, che la decorrenza della prescrizione ordinaria (quinquennale, per i crediti retributivi del lavoratore) «non è unica per qualsiasi rapporto di lavoro ma dipende...dal grado di stabilità del rapporto stesso», dovendosi «ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale sul piano sostanziale subordini la legittimità e l'efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo».
Affermò, al riguardo, la Cassazione che, agli effetti della dilazione del decorso della prescrizione a fine rapporto, tale situazione di stabilità, «per la generalità dei casi, coincide oggi con l'ambito di operatività della legge 20.5.1970 n. 300 (dati gli effetti attribuiti dall'art. 18 all'ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dall'art. 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604 sui licenziamenti individuali)», potendo tuttavia «anche realizzarsi ogniqualvolta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che danno al prestatore d'opera una tutela di pari intensità».
Infine, in senso confermativo, si espresse, a distanza di 20 anni, nuovamente Cass. n. 5494 del 20.6.1997 precisando che: «ai fini della decorrenza della prescrizione (in corso di rapporto, ndr) la configurabilità di un rapporto di lavoro assistito dalla garanzia della stabilità [ ...] va riconosciuta allorquando [...] il posto di lavoro - quale che sia la natura pubblica o privata del datore di lavoro - possa essere oggetto di una tutela reale, la quale consenta, cioè, non soltanto il risarcimento del danno di fronte all'illegittimo licenziamento, ma anche la reintegrazione del lavoratore, ai sensi dell'art. 18, l. 20 maggio 1970 n. 300, ovvero di altre disposizioni che comunque garantiscano la stabilità ... ».
Alla conclusione di questo excursus va detto che, sia la Corte costituzionale sia la giurisprudenza di Cassazione ipotizzarono all’epoca – a nostro avviso - di aver trovato la soluzione per sciogliere quello che era sembrato un nodo gordiano, mediante una “finzione” giuridica, psicologicamente irrealistica: quella di ricondurre l’indisponibilità o inerzia del lavoratore a rivendicare, in corso di rapporto, i propri crediti (reali o presunti) esclusivamente (o prevalentemente) «nel timore del recesso, cioè del licenziamento che spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia ad una parte dei propri diritti...» (così Corte cost. n. 63 del 1966).
Talché una volta introdotta nell’ordinamento – tramite la l n. 604/1966 – una disciplina dei licenziamenti, idonea a sanzionare i licenziamenti arbitrari, tramite la reintegrazione nel posto di lavoro (per le aziende con più di 15 dipendenti), si accreditò la convinzione di aver neutralizzato l’immanente stato di soggezione del lavoratore nei confronti di chi gli consentiva - in corrispettivo della prestazione – il sostentamento economico personale e familiare. Ne sortiva, implicitamente, trascurato tutto il concreto e complesso svolgimento del rapporto in azienda, ove è notorio che chi “alza la testa” e rivendica i propri diritti in corso di rapporto, non va esente da piccole o grandi vessazioni ritorsive (demansionamenti, trasferimenti, spostamenti in reparti sgraditi o confino, blocco carriera et similia) e che, comunque, il rimedio della reintegrazione in azienda, a fronte dell’annullamento giudiziale di un licenziamento ritorsivo per rivendicazione di crediti o pretese in corso di rapporto, oltre a rivelarsi traumatico per i rapporti tra le parti, mantiene comunque (se non sempre) una sua carica pregiudizievole, quella per cui il legislatore dell’originario art. 18 Stat.lav. consentì, a suo tempo, al lavoratore di declinare il rientro in azienda ordinato dal Giudice, mediante l’opzione alternativa della indennità sostitutiva della reintegrazione (cd. 15 mensilità di retribuzione).
Si vuole cioè, sin d’ora, mettere in chiara evidenza come il rimedio della reintegra, quale sanzione ripristinatoria di un assetto pregiudicato, sia stato, all’epoca, sopravvalutato nella sua efficacia e idoneità a neutralizzare l’integrale stato di soggezione del lavoratore - il cd. “metus” ostativo ad una libera e consapevole iniziativa rivendicativa, in corso di rapporto, nei confronti del proprio datore di lavoro -, stante il fatto pacifico che una larga porzione di questo timore si manteneva impregiudicata nell’animo del lavoratore, a causa delle sempre possibili ritorsioni datoriali più mimetiche e meno evidenti del licenziamento espulsivo (quali l’assegnazione a mansioni inferiori, i trasferimenti, i comportamenti mobbizzanti, le mancate promozioni o i blocchi di carriera).
Comunque, il surriferito assetto giuridico in ordine alla decorrenza o al differimento, a rapporto concluso, della prescrizione si è mantenuto in maniera consolidata da allora per oltre 45 anni, fino all’epoca in cui la garanzia della cd. stabilità di impiego riposante sulla reintegra ex art. 18, nel testo originario, non venne infranta e limitata per effetto delle modifiche legislative posteriori (“riforma Fornero” del 2012 e d.l. attuativo del Jobs act, n.23 del 2015).
In termini pratici, fino alla data del 18 luglio 2012 (di entrata in vigore delle modifiche all’art. 18 da parte della cd. “riforma Fornero”), la prescrizione dei crediti di lavoro risultò operativa in corso di rapporto per tutti i dipendenti delle aziende (con oltre 15 occupati) che, in conseguenza dell’art. 18 Stat. lav., erano soggette alla reintegrazione quale sanzione-rimedio di un comportamento illegittimo o ritorsivo. Risultarono beneficiari del differimento della prescrizione a rapporto di lavoro risolto solo i dipendenti delle aziende dimensionate sotto i 15 dipendenti, nelle quali vige la sola stabilità “obbligatoria”, da intendersi quale libertà di licenziamento con monetizzazione, nonché i “dirigenti”. Per i lavoratori rivestenti tale qualifica, infatti, la risoluzione ad iniziativa discrezionale aziendale - quantunque condizionata pattiziamente (cioè contrattualmente) a “giusta causa o a giustificato motivo” - non è accompagnata, in caso di ingiustificatezza, dalla tutela della reintegrazione nel rapporto ex art. 18 Stat. lav., ma eventualmente solo da penali a contenuto risarcitorio di natura retributiva a favore del licenziato (cd. indennità supplementare per i dirigenti d’industria).
3. Depotenziamento dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori e riflessi sulla prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore
Peraltro una volta preso atto che, per effetto del consolidato, autorevole, orientamento giurisprudenziale, il decorso della prescrizione estintiva quinquennale dei crediti retributivi di lavoro può legittimamente dispiegarsi in corso di rapporto al riscontro di un assetto normativo che accordi ai lavoratori dell’azienda datrice di lavoro la cd. stabilità reale (cui si accompagna il rimedio della reintegra avverso i licenziamenti arbitrari, insufficiente risultando a sopire il metus il solo risarcimento monetario tipico della cd. stabilità obbligatoria), nel momento in cui – fra il 2010 e anni successivi – i governi dell’epoca si determinarono a sostituire sostanzialmente la sanzione/rimedio della reintegra con la monetizzazione in caso di riscontro giudiziale della arbitrarietà dei licenziamenti, tramite una riscrittura dell’originario art. 18 Stat. Lav., s’impose ai giuristi il seguente interrogativo: la marginalizzazione legislativa della reintegra (presupposto della stabilità reale) – per tutti indistintamente i lavoratori che di essa ne beneficiavano (nella unità produttive con oltre 15 dipendenti), a vantaggio dell'ampliamento della cd. stabilità obbligatoria, ha (o meno) implicato la reviviscenza dell'originario orientamento in tema di prescrizione, affermato dalla sentenza n. 63/1966 della Corte costituzione (che in ragione della persistente situazione di metus vissuta dal lavoratore ne aveva stabilita la non decorrenza in corso di rapporto e, pertanto, il differimento a rapporto di lavoro concluso?
Si registrarono inizialmente, fra i giuristi, opinioni difformi ma, a nostro avviso, a questo interrogativo non può che essere data risposta positiva (pur restando prudenzialmente in attesa di una risposta confermativa dalle future decisioni della magistratura della Cassazione, stante il fatto che per ora sono state emesse solo sentenze di 1° e 2° grado, adesive in prevalenza alla soluzione da noi condivisa).
Per doverosa completezza, nonostante la notorietà, va evidenziato come i provvedimenti modificativi in peius delle tutele accordate dall’originario art. 18 Stat. lav. ai lavoratori, sono costituiti dalla cd. “riforma Fornero” (l. n. 92/2012, in vigore dal 18 luglio 2012) e dal d.l. n. 23/2015 attuativo del cd. Jobs act; provvedimento, quest’ultimo che, oltre a proseguire, - con una certa maggior perfidia verso i soggetti deboli nel rapporto di lavoro - il percorso tracciato dalla “riforma Fornero” ebbe a disporre che previsto che futuri neo assunti a partire dalla data del 7 marzo 2015 fossero destinatari, non già della tradizionale tipologia di contratto a tempo indeterminato ma di un contratto deteriore (in maniera non veritiera qualificato a cd. “tutele crescenti”), sprovvisto – salvo che per l’ipotesi del licenziamento discriminatorio in senso lato – del rimedio della reintegra, sostituito, quindi, in netta prevalenza delle fattispecie, dalla “monetizzazione” della perdita del posto di lavoro (peraltro in misura inadeguata, ancorata ad un plafond o tetto massimo, sottratta alla valutazione del Giudice e, quindi, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla recente Corte cost. n. 194/2018, nonché in contrasto con l’art, 24 della Carta sociale europea dal Comitato europeo per i diritti sociali (Ceds) con deliberazione dell’11 febbraio 2020, e sulla cui messa in discussione pendono ricorsi giudiziari del Tribunale di Milano e della Corte d’appello di Napoli rivolti nuovamente alla Corte costituzionale nostrana e alla Corte di giustizia europea, non ancora decisi).
Non si può assolutamente negare che i suddetti provvedimenti legislativi (adottati per sollevare la parte datoriale dai cd. “lacci e laccioli” che, del tutto infondatamente, avrebbero limitato la propensione datoriale alle nuove assunzioni) – relegando in ruolo marginalissimo e residuale il pregresso rimedio della reintegra avverso i licenziamenti arbitrari - abbiano comportato la reviviscenza in tutti i lavoratori subordinati di quello stato di soggezione (o metus) che la Corte costituzionale del 1966 aveva riscontrato risultare ostativo alla libera determinazione a rivendicare in corso di rapporto i propri diritti.
Il sudddetto confinamento in fattispecie residuali dell’originario rimedio della reintegra - che venne ipotizzato neutralizzatore del “metus” del prestatore nonché garante della cd. stabilità reale (invero insussistente in nuce, in quanto la cd. garanzia di stabilità d’impiego era subordinata ad un provvedimento a posteriori di imposta ricostituzione giudiziale di un rapporto infranto, ricostituzione non sempre gradita, ed accolta dal lavoratore solo in situazioni di necessità, per carenza di alternative) - emerge ictu oculi dal suo rinvenimento solo nelle circoscritte fattispecie del: a) licenziamento discriminatorio (ai sensi dell'art. 15, l. n. 300 e successive modificazioni ovvero perché riconducibile al licenziamento nullo per ritorsione o rappresaglia e per gli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge), b) del licenziamento nullo perché intimato in forma orale, c) del licenziamento disciplinare, per il quale “esclusivamente” (così attenziona il Giudice, l’art. 3, 2 co., del d.l. n. 23/2015 attuativo del Jobs act) “venga in giudizio provata” (con onere talora difficoltoso per il lavoratore incolpato) “l'assoluta inesistenza del fatto materiale” posto a base della sanzione espulsiva.
In contrapposizione, nel modificato art. 18 Stat. lav., l'ambito di applicazione della tutela obbligatoria (con monetizzazione) è amplissimo, estendendosi alle fattispecie:
a) dei licenziamenti cd. economici ingiustificati (per giustificato motivo oggettivo), asseritamente ascritti a ristrutturazioni, riorganizzazioni aziendali e simili, reali o simulate, che, se anche riscontrate fittizie (in toto o in parte), implicavano originariamente per il lavoratore licenziato la sola corresponsione di un indennizzo pari all'importo prestabilito di 2 mensilità per ogni anno di servizio [con un minimo di 4 ed un massimo di 24 (art.3, 1 co., d.lgs. n. 23/2015) ora elevate a 6 e 36 per effetto correttivo della loro inadeguatezza dal cd. “decreto dignità” n. 87/2018]. Naturalmente dietro statuizione di infondatezza del licenziamento da parte di un Giudice, originariamente vincolato ai tetti minimi e massimi prefissati nella legge, stabiliti dal collaborativo legislatore dell’epoca per consentire ai datori di lavoro la previa conoscenza e sostenibilità del costo di un licenziamento per così dire “standard”, nel caso si rivelasse ingiustificato al riscontro giudiziale. Il tutto prima della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità, da parte di Corte cost. n. 194/2018, del meccanismo fissativo degli importi risarcitori, la cui sottratta determinazione al magistrato occupatosi della vertenza, è stata riassegnata dalla Corte costituzionale precitata (come in precedenza) alla valutazione discrezionale del Giudice, in considerazione del riscontrato vizio di esclusiva correlazione delle misure indennitarie al parametro dell’anzianità di servizio, pertanto giudicate anelastiche e disancorate dal danno concreto inflitto al licenziato nonché dal requisito dimensionale dell’impresa, cioè dai parametri codificati nella l. n. 604/1966;
b) dei licenziamenti disciplinari (per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa) viziati da carente proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla modestia della trasgressione o inadempienza, in palese violazione dell'art. 2106 cod. civ.. che ne postula il rispetto; licenziamento che la legislazione del Jobs act volle intenzionalmente legittimare sulla base del solo riscontro di sussistenza del “fatto materiale” contestato al licenziato (o sulla mancata dimostrazione in giudizio di una prova contraria da parte di quest'ultimo), a prescindere dalla gravità o tenuità o assoluta irrilevanza di pregiudizio, in termini di rilevanza disciplinare o di danno per l’impresa arrecato dell'inadempienza del lavoratore, che, nel precedente assetto normativo avrebbe comportato da parte del giudice, se non l'annullamento, perlomeno la conversione della sanzione espulsiva in sanzione conservativa (multa o sospensione). In tema, va aggiunto che il “marchingegno” a fini espulsivi del lavoratore – individuato dalla cd. “riforma Fornero” del 2012 mediante la locuzione “fatto contestato” e su di esso poggiante, due anni dopo affinato (dal decreto attuativo n. 23/2015 del Jobs act) nella locuizione “fatto materiale” trasgressivo - ha impegnato una equilibrata giurisprudenza della Cassazione [4] (ex plurimis, da ultimo, Cass. 12174 dell’8 maggio 2019) nella conversione interpretativa di entrambe le locuzioni precitate, in “fatto giuridico” come tale disciplinarmente rilevante, il solo idoneo, per la gravità dell’inadempienza del lavoratore, ad assumere, per volontarietà e/o colpevolezza, caratteristiche del “giustificato motivo” o della “giusta causa” ai sensi della normativa legale e contrattuale vigente;
c) dei licenziamenti affetti da quelli che la rubrica dell'art. 4 del d.l. n. 23/2015 qualifica “vizi formali o procedurali”, consistenti nella mancata osservanza della motivazione di cui all'art. 2, 2 co., della l. n. 604/'66 e della procedura di cui all'art. 7 della l. n. 300/'70, al riscontro dei quali il Giudice dichiara comunque la risoluzione del rapporto del licenziato, liquidando al lavoratore un indennizzo pari a una mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di 2 ed un massimo di 12.
4. Conclusioni
Dalle considerazioni sopra esposte emerge come al depotenziamento subito dall’art. 18 Stat. lav. si sia accompagnata, per tutti i lavoratori subordinati, la riemersione o riappropriazione dell'originaria (mai dissolta, ma solo virtualmente limitata) preoccupazione che la libera rivendicazione dei propri crediti retributivi in corso di rapporto risulti inibita dal timore di pregiudizi ritorsivi datoriali non reversibili ed oramai non più sanabili mediante il pregresso rimedio sanzionatorio della reintegrazione, sostituito pressoché totalmente da un indennizzo monetario, peraltro di misura oltremodo modesta.
In tal senso si è espressa la prevalente, quanto, intuitivamente scarsa (per la ritrosia a portare in giudizio il datore o la “grande azienda”) giurisprudenza di 1° e 2° grado, la quale ha così motivato: «anche laddove al rapporto di lavoro si applichi l’art. 18 novellato dalla c.d. legge Fornero, la prescrizione non decorre in costanza di rapporto, in quanto, a seguito della riforma dell'art. 18 l. n. 300/1970, la sanzione della reintegrazione è stata "fortemente ridimensionata, riservata ad ipotesi residuali, che fungono da eccezione rispetto alla tutela indennitaria, talché ne consegue che, nel corso del rapporto, il lavoratore si trova in una condizione soggettiva di incertezza circa la tutela (reintegratoria o indennitaria) applicabile nell'ipotesi di licenziamento illegittimo, accertabile solo ex post nell'ipotesi di contestazione giudiziale del recesso datoriale» (così Corte d’appello di Milano n. 376 del 30 aprile 2019; conf. Trib. Alessandria, 9 gennaio 2019, n. 4; Trib. Firenze, 16 gennaio 2018, n. 25; Trib. Milano 16 dicembre 2015 n. 3460, Trib. Milano n. 2625/2016, Trib. Bergamo n. 585/2016; in senso contrario C. App. Milano, n. 35 del 19 febbraio 2019, Trib. Milano 24 aprile 2014, Trib. Milano, 7 ottobre 2016, n. 2576).
L’orientamento sopra delineato che ha statuito la sospensione del decorso della prescrizione estintiva quinquennale dei crediti retributivi non rivendicati in costanza di rapporto, con rinvio della decorrenza a rapporto esaurito, per tutti indistintamente i lavoratori - a partire dal 18 luglio 2012 (data dell’entrata in vigore della “riforma Fornero”, atto normativo iniziale del depotenziamento dell’art. 18 Stat. lav.), naturalmente per i crediti retributivi non ancora estinti per prescrizione, decorsa in corso di rapporto cd. stabile a quella data –- è meritevole, a nostro avviso, di piena condivisione.
Anche per la realistica constatazione che il cd. metus del prestatore non è stato mai dissolto integralmente anche quando ai lavoratori ingiustificatamente licenziati è stato legislativamente accordato il rimedio della reintegra – come abbiamo in precedenza già evidenziato – giustappunto per il fatto che, pur mantenuti in azienda e non licenziati, non erano affatto esenti da una intrinseca situazione di soggezione a (nonchè dal rischio di) ritorsioni datoriali più sottili e mimetiche, ma non meno moralmente avvilenti del licenziamento.
Talché il metus per così dire “anestetizzato” in presenza di un assetto normativo garante – tramite la reintegra giudiziale nel posto di lavoro atta a vanificare gli effetti di un licenziamento ingiustificato – si riappropria della sua integrale efficacia nell’odierno modificato assetto normativo in cui è stata marginalizzata e resa residuale la garanzia della c.d. stabilità reale.
A poco o nulla vale l’obiezione sostenuta dai dissenzienti, secondo i quali l’emblema della stabilità reale (rappresentato dalla reintegra) non è stato del tutto vanificato ma solo limitato e che la sola marginalizzazione non sarebbe idonea - in quanto parziale e non generalizzata - a far nuovamente precipitare il lavoratore in quella situazione di metus o soggezione, ostativa alla rivendicazione dei propri crediti in corso di rapporto, che aveva indotto gli estensori della sentenza della Corte costituzionale n. 63/1966, - in epoca antecedente alla introdotta disciplina dei licenziamenti ex lege n. 606/1966 e art. 18 l. n. 300/1970 - a differirne la decorrenza, a rapporto di lavoro risolto.
Giacché, volendo (per mera ipotesi di scuola) scendere sul piano della cd. quantificazione del metus – sul quale mostrano preferenza di argomentare i dissenzienti - per una sua corretta e virtuale pesatura, va tenuto conto che alla “misura” rinveniente dalla marginalizzazione della garanzia della stabilità reale sub specie di sostanziosa riduzione delle fattispecie beneficiarie della reintegra (rimedio in forma specifica sostituito largamente da un rimedio per equivalente, quale la monetizzazione), non può che essere, ancora del tutto virtualmente, addizionata (dal giurista che si occupa della tematica e dal magistrato che decide la controversia) quella meno visibile ma non indifferente porzione di metus già preesistente e non dissolta (rectius, anestetizzata) dal rimedio della reintegra.
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[1] Cfr. Corte cost. n. 39/1969, in Foro it. 1969,I, 1058;Corte cost. n. 10/1970, ivi 1970, I, 711; Corte cost. n. 115/1975, in Mass. giur. lav. 1975, 286.
[2] Nn. da 40 a 45 in Giur. cost. 1979, 338 con annotazione di G. Pera.
[3] Cass. 12174 dell’8 maggio 2019 ha asserito che la diversità lessicale del nuovo testo dell’art. 18 non appare idonea a consentire di discostarsi da quella prevalente opinione (di cui a Cass. 13.10.2015 n. 20540, Cass. 20.9.2016 n. 18418 e Cass. 12.5.2016 n. 10019), secondo cui: «l'insussistenza del fatto contestato comprende anche l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità o rilevanza giuridica e quindi il fatto sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare, oltre che il fatto non imputabile al lavoratore, talché – come ha chiarito Cass. 13.10.2015 nr. 20545 - ogniqualvolta il fatto contestato presupponga anche un elemento non materiale (come la gravità del danno) allora tale elemento diventa anch'esso parte integrante del "fatto materiale", come tale soggetto ad accertamento, sicché anche in tale ipotesi l'eventuale carenza determina la tutela reintegratoria» (…).
Prof.Mario Meucci - Giuslavortista