Appare oggi come un principio consolidato che una madre, autrice di comportamenti erronei o contrari alla legge, debba essere valutata in relazione all’idoneità genitoriale, potendo anche incorrere in limitazioni o decadenze della responsabilità, ove lo richieda l'interesse superiore del minore.
Martedi 9 Settembre 2025 |
Costituisce, altresì, un principio fondamentale, ormai riconosciuto, che ogni minore ha diritto a crescere in un ambiente familiare sano, equilibrato e privo di condizionamenti affettivi nocivi o traumi derivanti da esperienze dolorose non imputabili a lui. Tuttavia, tale consapevolezza giuridica e sociale non ha sempre rappresentato patrimonio condiviso dell’ordinamento.
Dal Codice Penale Rocco del 1930 fino alla Legge n. 354 del 26 luglio 1975, dell’Ordinamento penitenziario, i figli delle donne detenute venivano generalmente affidati a terzi o inseriti in case famiglia.
Fino al secondo dopoguerra, la maternità non era giuridicamente rilevante nel contesto dell’esecuzione penale. La donna detenuta era considerata una “doppia deviante”: rispetto alla legge e ai ruoli imposti dalla società patriarcale.
L’articolo 146 del Codice Penale, nella versione originaria, prevedeva il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per donne incinte o che avessero partorito da meno di sei mesi, nonché in caso di domanda di grazia per una condanna a morte (fonte: www.normattiva.it).
Tuttavia, mancavano tutele specifiche per i figli minori delle detenute, affidati quindi a terzi o a strutture di accoglienza.
Con la Legge n. 354/1975 si registra la prima apertura verso la tutela della madre detenuta e del figlio minore, introducendo la possibilità di istituire sezioni nido all’interno degli istituti penitenziari, affinché le madri potessero tenere con sé i figli fino ai 3 anni di età.
L’obiettivo era salvaguardare la salute psicofisica sia dei bambini sia delle madri. Tuttavia, la crescita dei minori in carcere presenta numerose e rilevanti criticità.
La vita quotidiana di questi bambini all’interno del carcere è regolata da ritmi rigidi: orari fissi per i pasti, il sonno, le uscite all’aria aperta e altre attività. Tuttavia, il nodo centrale resta il momento in cui il bambino compie il terzo anno di età: l’allontanamento dalla madre segna una frattura profonda, poiché viene a mancare la figura affettiva di riferimento, fonte di sicurezza fino a quel momento. In tale circostanza, sia il minore che la madre subiscono un trauma.
Al tempo stesso, la permanenza dei figli piccoli all’interno del carcere pone un’altra questione critica: pur non avendo alcuna colpa, questi bambini vivono comunque una condizione di restrizione, guadagnandosi la definizione di “galeotti innocenti”, espressione utilizzata dall’ex senatore Luigi Manconi, sociologo e promotore dei diritti umani (fonte: Rassegna Giuridica, marzo 2021).
Inoltre, nel 1975 le sezioni nido istituite all’interno degli istituti penitenziari erano ancora poche e spesso inadeguate a garantire il reale benessere dei minori. Solo con il tempo si è sviluppata una maggiore sensibilità verso questa delicata questione, portando a una progressiva evoluzione giuridica.
Un passo significativo si è avuto nel 1998 con la legge n. 165 (art. 4), che ha esteso la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare alle madri di figli minori di dieci anni, fatta eccezione per le detenute responsabili di reati particolarmente gravi, come quelli previsti dagli artt. 8,90 e 94 del Testo Unico 309/90 in materia di stupefacenti.
Nel 2001, la legge n.40 ha introdotto ulteriori modifiche sostanziali all’art. 47-quinquies dell’Ordinamento Penitenziario, ampliando i casi di rinvio obbligatorio e facoltativo della pena per le madri di figli minori di uno o tre anni.
In particolare, è stata introdotta la figura della “detenzione domiciliare speciale” per le donne con prole di età non superiore ai dieci anni, da scontare presso un’abitazione privata, una struttura di cura, assistenza o accoglienza. Questa misura ha consolidato l’idea della custodia attenuata come alternativa concreta alla detenzione, la quale deve restare l’extrema ratio, soprattutto in presenza di minori.
Ma lo studio e l’attenzione a questo problema prosegue e nel 2006, in via sperimentale, viene istituito l’ICAM (Istituto di custodia attenuata per le detenute madri) inserendo nel codice di procedura penale l’art. 285bis che disciplina la custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri.
Si tratta di strutture con ambienti meno rigidi rispetto a quelli carcerari tradizionali, pensate per salvaguardare il rapporto madre-figlio (fonte:Brocardi).
L’articolo citato recita:
Il giudice può disporre la custodia in ICAM per madri con figli tra 1 e 6 anni, se necessario per ragioni cautelari eccezionali.
Se la madre è incinta o ha un figlio di età inferiore a un anno, la custodia in ICAM è obbligatoria, a meno che non ci siano esigenze cautelari particolarmente rilevanti (fonte: Brocardi).
Anche il Ministero della Giustizia conferma che, compatibilmente con le esigenze cautelari, il Giudice può disporre la custodia cautelare o l’espiazione della pena presso gli ICAM per madri con figli sotto i 6 anni (o per padri in caso di impossibilità della madre).
L’esperimento degli ICAM si è rivelato soddisfacente, al punto da essere istituzionalizzato con la legge n. 62 del 21 aprile 2011,che ha introdotto disposizioni volte a rafforzare la tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, promuovendo soluzioni alternative alla detenzione ordinaria e privilegiando l’interesse del bambino.
La stessa Corte Costituzionale ha più volte ribadito l’importanza del diritto del minore a non crescere in carcere, richiamando il principio dell’interesse superiore del fanciullo. In particolare, con la sentenza n.239 del 2014 (v allegato), la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis della legge n. 354/1975, nella parte in cui escludeva la concessione di determinati benefici penitenziari per i condannati a reati gravi, anche in presenza di figli minori.
Tale previsione è stata ritenuta lesiva dei diritti fondamentali dei bambini, in quanto impediva al giudice di valutare caso per caso se l’interesse del minore potesse giustificare l’accesso della madre a misure alternative alla detenzione (fonte: www.gazzettaufficiale.it).
Gli ICAM attualmente presenti sul nostro territorio sono 5: Milano, Torino, Cagliari, Lauro (Avellino, villa confiscata alla camorra).
Alcuni dati: al 30 aprile 2025 le madri con figli in carcere erano 11 con 11 figli, mentre gli ICAM continuano ad essere numericamente esigui (fonte: XXI rapporto Antigone).
Come sono strutturate queste strutture non penitenziarie alternative?
Innanzitutto, non si presentano come celle, ma come ambienti aperti e accoglienti, privi di sbarre e di altri elementi tipici degli istituti di pena. Gli spazi sono pensati per riprodurre un contesto familiare, con cucine, salotti, stanze condivise e aree gioco dedicate ai bambini.
Le madri non sono sorvegliate da agenti penitenziari in divisa, ma da educatori, assistenti sanitari e personale dei servizi sociali territoriali.
È inoltre fondamentale sottolineare che la responsabilità e la cura quotidiana del minore resta in capo alla madre, che è affiancata da personale specializzato per garantire supporto e tutela sia al bambino sia alla genitrice.
Tuttavia, come già evidenziato, il numero estremamente ridotto degli ICAM presenti sul territorio nazionale comporta inevitabili criticità.
Molte madri detenute si trovano infatti a scontare la pena in strutture non idonee alla maternità, dove mancano le condizioni minime per la tutela del legame genitoriale e per la salvaguardia della salute psicofisica del minore.
In tali contesti, il bambino vive una condizione di fatto assimilabile alla detenzione, sebbene privo di qualsiasi responsabilità, e viene privato della possibilità di uno sviluppo armonioso.
Al tempo stesso, anche la madre si trova privata di un percorso educativo e di reinserimento realmente efficace, con evidenti ripercussioni sul futuro di entrambi.
A maggior tutela dei figli di genitori detenuti, nel 2014 è stata firmata a Roma la Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, prima esperienza di questo tipo in Europa e in linea con i principi della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del novembre 1989.
Questo importante Protocollo d’Intesa nasce con l’intento di tradurre in azioni concrete gli impegni assunti a livello internazionale, promuovendo il rispetto e la tutela dei diritti dei bambini e degli adolescenti che si trovano a vivere, direttamente o indirettamente, l’esperienza della detenzione di un genitore.
La Carta rappresenta un passo fondamentale nel riconoscere la centralità del minore, non più considerato solo in funzione del genitore detenuto, ma come soggetto titolare di diritti autonomi e inviolabili.
Tra gli obiettivi principali del documento vi è quello di sostenere il mantenimento della relazione affettiva tra il bambino e il genitore ristretto, favorendo modalità di incontro più umane e adeguate allo sviluppo psico-emotivo del minore.
Inoltre, la Carta lancia un forte segnale alla società civile, chiamata a farsi carico di un cambiamento culturale e istituzionale: spostare l’attenzione dal genitore detenuto al figlio, con l'obiettivo di garantire a quest’ultimo una crescita serena, equilibrata e rispettosa dei suoi diritti, a prescindere dalle colpe o dal percorso penale del genitore.
Tuttavia, nell’aprile 2025 è intervenuta un’ulteriore modifica del quadro normativo con l’adozione del cosiddetto Decreto Sicurezza (D.L. n. 48/2025, convertito nella legge n. 80 del 9 giugno 2025), che ha introdotto variazioni significative nel trattamento penale delle detenute madri. La nuova disciplina ha eliminato l’istituto del rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne in stato di gravidanza e per le madri di figli di età inferiore a tre anni, sostituendolo con l’obbligo di detenzione all’interno degli ICAM.
Questa scelta normativa segna un cambiamento di rotta rispetto al principio di favor verso le misure alternative e solleva inevitabilmente seri interrogativi in merito all’effettiva sostenibilità del nuovo modello.
In particolare, si teme che, a fronte dell’esiguo numero di ICAM presenti sul territorio nazionale, si possa assistere a un aumento dell’incarcerazione effettiva di donne incinte o madri di bambini piccoli, con il rischio concreto di aggravare la condizione dei minori coinvolti.
Ad aggravare la situazione, non vi è alcuna previsione normativa che valorizzi l’utilizzo delle case-famiglia protette, che finora hanno rappresentato una valida alternativa per tutelare il minore e favorire la genitorialità responsabile fuori dal contesto carcerario. L’assenza di una strategia di potenziamento di queste strutture rischia così di vanificare gli sforzi compiuti negli ultimi anni per ridurre il numero dei cosiddetti“galeotti innocenti”, come definiti dall’ex senatore Luigi Manconi (fonte: ristretti.org).
La stessa UNICEF, nella persona del Presidente di UNICEF Italia, dott. Nicola Graziano, ha espresso pubblicamente preoccupazione circa l’effettiva tutela dei bambini coinvolti in situazioni di detenzione materna.
In particolare, il dott. Graziano ha evidenziato le criticità legate alla nuova normativa, che prevede la facoltà, e non più l’obbligatorietà, del rinvio dell’esecuzione della pena per le donne incinte o madri di figli minori di un anno (fonte: lespresso.it).
Una simile scelta legislativa, osserva l’UNICEF, espone al rischio concreto che bambini del tutto innocenti siano costretti a crescere in carcere, privati di un ambiente esterno stimolante e adeguato al loro sviluppo.
Proprio per evitare questa situazione drammatica, il dott. Graziano propone, a nome dell’associazione, il ricorso sistematico alle case-famiglia protette: soluzioni capaci di valorizzare la genitorialità, offrendo un contesto sicuro dove i figli siano “protetti” e non “costretti”.
Tuttavia, la mancata valorizzazione di questa alternativa – evidenzia ancora Graziano – è dovuta all’esclusione esplicita di oneri a carico della finanza pubblica, una clausola che rappresenta un ostacolo strutturale alla realizzazione di percorsi alternativi alla detenzione ordinaria. Ancora una volta, dunque, la logica economica finisce per prevalere sulla tutela dei diritti fondamentali, in questo caso dei bambini e degli adolescenti, sacrificando esigenze di protezione e cura sull’altare del contenimento della spesa pubblica.