Con la sentenza n. 11959, depositata il 10 aprile 2020, la seconda sezione della Corte di Cassazione ha confermato la condanna per appropriazione indebita nei confronti dell’ ex dipendente che, sapendo di dover lasciare il suo posto di lavoro perché assunto da una nuova compagine societaria operante nello stesso settore, aveva provveduto a copiare i files del portatile aziendale a sua disposizione, restituendolo del tutto formattato.
Venerdi 8 Maggio 2020 |
In primo grado, il Tribunale di Torino lo aveva riconosciuto colpevole per i reati di cui agli artt. 635 quater (danneggiamento di sistemi informatici o telematici) e 646 Codice penale (appropriazione indebita). La Corte di Appello di Torino, parzialmente riformando la sentenza di primo grado, lo assolveva per il reato di danneggiamento dei sistemi informatici ma confermava la condanna per l’appropriazione indebita dei files contenuti nel portatile. L’imputato proponeva ricorso in Cassazione adducendo con il primo motivo la violazione di legge in riferimento all’art. 646 Codice penale per avere la Corte di Appello erroneamente ritenuto che i dati informatici siano suscettibili di appropriazione indebita, in quanto non rientranti nella definizione di cose mobili.
Con il secondo motivo di ricorso l’imputato deduceva il vizio di motivazione della sentenza impugnata, per mancanza e manifesta illogicità, quanto alla prova dell’esistenza dei dati informatici, oggetto di appropriazione, sul computer aziendale in dotazione all’imputato; la motivazione della sentenza di secondo grado, infatti, non si era basata su elementi di prova acquisiti in fase dibattimentale ma su mere illazioni non supportate da alcun elemento oggettivo.
Gli Ermellini modificando un orientamento giurisprudenziale consolidato hanno confermato la condanna per appropriazione indebita; preliminarmente hanno compiuto una disamina volta alla qualificazione della nozione di dato informatico, in particolare del concetto di files, inteso come cosa mobile.
Per cose mobili si devono intendere le cose suscettibili di “fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perché ha l’attitudine a muoversi da sé oppure perché può essere trasportata da un luogo ad un altro o ancorchè non mobile ab origine, resa tale da attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto, mediante sua avulsione od enucleazione”.
In particolare, per ciò che riguarda la natura di “cosa mobile” di un dato informatico, la Corte osserva che «il file, pur non potendo essere materialmente percepito dal punto di vista sensoriale, possiede una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che lo compongono, come dimostrano l’esistenza di unità di misurazione della capacità di un file di contenere dati e la differente grandezza dei supporti fisici in cui i files possono essere conservati e elaborati. L’assunto da cui muove l’orientamento maggioritario, giurisprudenziale e della dottrina, nel ritenere che il dato informatico non possieda i caratteri della fisicità, propri della “cosa mobile” (nella nozione penalistica di quel termine) non è, dunque, condivisibile; al contrario, una più accorta analisi della nozione scientifica del dato informatico conduce a conclusioni del tutto diverse» . Con specifico riguardo alla configurabilità della condotta appropriativa di dati informatici, la Corte così motiva «va considerata la capacità del file di essere trasferito da un supporto informatico ad un altro, mantenendo le proprie caratteristiche strutturali, così come la possibilità che lo stesso dato viaggi attraverso la rete Internet per essere inviato da un sistema o dispositivo ad un altro sistema, a distanze rilevanti, oppure per essere “custodito” in ambienti “virtuali” (corrispondenti a luoghi fisici in cui gli elaboratori conservano e trattano i dati informatici); caratteristiche che confermano il presupposto logico della possibilità del dato informatico di formare oggetto di condotte di sottrazione e appropriazione.
In conclusione, pur se difetta il requisito della apprensione materialmente percepibile del file in sé considerato (se non quando esso sia fissato su un supporto digitale che lo contenga), di certo il file rappresenta una cosa mobile, definibile quanto alla sua struttura, alla possibilità di misurarne l’estensione e la capacità di contenere dati, suscettibile di esser trasferito da un luogo ad un altro, anche senza l’intervento di strutture fisiche direttamente apprensibili dall’uomo».
Nella loro motivazione, i Giudici della Suprema Corte, hanno quindi precisato che un file pur non potendo essere materialmente recepito possiede una dimensione fisica costruita dalla grandezza dei dati che lo compongono, inseriti in supporti fisici in cui i file stessi possono essere conservati, elaborati e trasferiti; il file è “l’insieme di dati, archiviati o elaborati, cui sia stata attribuita una denominazione secondo le regole tecniche uniformi”.
L’analisi compiuta dai Giudici della Suprema Corte si è basata su uno studio critico dei precedenti orientamenti giurisprudenziali contrari esponendo le motivazioni per le quali il file doveva rientrare nella nozione di cosa mobile e di “materiale apprensione”. L’approfondimento ha riguardato anche il principio fissato dalla sentenza n. 414/1995 della Corte Costituzionale, che ha stabilito che le motivazioni logico-giuridiche devono adeguarsi al significato che un concetto giuridico ha nel un periodo storico in cui viene utilizzato.