Con la sentenza n. 37974 del 22 ottobre 2021, la Cassazione ha stabilito che l'invasività del mezzo adoperato per raggiungere il destinatario rileva di per sé anche senza la possibilità, per quest'ultimo, di interrompere l'azione perturbatrice già subita ovvero di prevenire la reiterazione escludendo il contatto o l'utenza molestatrice dal proprio cellulare.
Mercoledi 22 Dicembre 2021 |
Aderendo all'interpretazione ermeneutica secondo la quale il criterio di riferimento per sussumere una determinata modalità di comunicazione nel concetto di “mezzo del telefono”, di cui all'art. 660 cod. pen., la Corte ha sottolineato che l'invasività del mezzo adoperato dal destinatario rileva in sé laddove provochi, nella vittima, un non trascurabile turbamento della serenità e della vita quotidiana, in generale.
Nel caso di specie, il Gup del Tribunale di Palermo, all'esito del giudizio celebrato con rito abbreviato, condannava l'imputato al pagamento di € 200,00 di ammenda – perchè ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 660 cod. pen., aggravato, ex art. 61 n. 2 cod. pen., per avere recato disturbo ad una agente di polizia municipale, attraverso l'invio di numerosi messaggi sul telefono cellulare.
Avverso la sentenza, l'imputato proponeva ricorso chiedendo l'annullamento per:
- violazione di legge in relazione alla ritenuta riconducibilità della condotta alla fattispecie di cui all'art. 660 cod. pen., e ciò in quanto la condotta tipizzata comprende solo la comunicazione telefonica e non anche l'utilizzo delle attuali applicazioni di messaggistica istantanea, aventi peculiarità differenti da quelle caratterizzanti la fattispecie delle molestie;
- violazione di legge in riferimento all'art. 61 n. 2 cod. pen., per aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, per carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione e ciò in quanto è mancato, nei fatti, un accertamento giudiziale sui reati di abuso d'ufficio e falso, dichiarati improcedibili per estinzione e visto che il contenuto dei messaggi oggetto della pronuncia, non è collegato ai predetti reati, per ciò che concerne le e-mail, in un primo momento ed alla luce di determinate peculiari fattispecie concrete nelle quali si discuteva.
La Cassazione ha dichiarato infondato il primo motivo richiamando il principio di diritto, già consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo il quale nella dizione di cui all'art. 660 cod. pen., “con il mezzo del telefono”, sono compresi anche la molestia ed il disturbo recati con altri, analoghi, mezzi di comunicazione a distanza.
Si legge in motivazione: “al termine di una analitica disamina del reato di molestie, degli elementi, delle condotte che lo integrano e dei nuovi mezzi di comunicazione con cui si può realizzare, la Corte ritiene che a rilevare è l'invasività del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario, non la possibilità per quest'ultimo di interrompere l'azione perturbatrice, già subita e avvertita come tale, ovvero di prevenirne la reiterazione, escludendo il contatto o l'utenza sgradita senza nocumento della propria libertà di comunicazione”.
Può, pertanto, affermarsi che vi rientrano tutte le comunicazioni che avvengono con modalità sincrona, originando una immediata interazione tra soggetto agente e destinatario della comunicazione. La Corte ricorda che con la disposizione in oggetto, attraverso la previsione di un fatto recante molestia alla quiete di un privato, il legislatore ha voluto tutelare la tranquillità pubblica proprio per l'incidenza che il suo turbamento ha sull'ordine pubblico. L'interesse individuale privato riceve, cioè, una protezione solo riflessa nel senso che la tutela penale è garantita a prescindere dalla volontà delle persone molestate o disturbate e ciò perchè, ciò che rileva, è la tutela della tranquillità pubblica.
L'elemento materiale della molestia è costituito da quella interferenza che altera “dolosamente, fastidiosamente o importunamente, in modo immediato o mediato, lo stato psichico di una persona”1 e l'atto, per essere considerato molesto, deve non solo risultare sgradito a chi lo riceve, ma “dev'essere anche ispirato da biasimevole, ossia riprovevole motivo o rivestire il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante e indiscreto, tale da interferire nella sfera privata di altri attraverso una condotta fastidiosamente insistente e invadente”2. La sentenza impugnata, non è incorsa in alcuna violazione di legge, in quanto ha semplicemente ritenuto che i messaggi whatsApp e gli sms reiterati, anche in orari serali e notturni, avevano determinato nella donna “ un trascurabile turbamento della serenità”, già fortemente compromesso dalla vicenda giudiziaria che la vedeva protagonista unitamente al collega e che aveva costituito il fattore determinante della condotta invadente e oltre modo insistente.
Per la giurisprudenza della Corte, inoltre, il reato de quo non ha natura necessariamente abituale in quanto può realizzarsi anche con una sola azione di disturbo o di molestia, purché ispirata da biasimevole motivo o avente il carattere della petulanza3 che, come visto, consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire sgradevolmente nella vita privata di altri4.
“Il reato di molestie o disturbo alle persone, pur non essendo necessariamente abituale, in quanto suscettibile di perfezionarsi anche con il compimento di una sola azione, da cui derivino gli effetti indicati dall'art. 660 cod. pen., può in concreto assumere la forma dell'abitualità, incompatibile con la continuazione, allorchè sia proprio la reiterazione delle condotte (nella specie, numerose telefonate notturne, anche mute), a creare molestia o disturbo, con la conseguenza che, in tal caso, ai fini della prescrizione, il termine comincia a decorrere dal compimento dell'ultimo atto antigiuridico”5.
In conclusione, per tutte le ragioni enunciate, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla pena, che ridetermina in € 150,00 di ammenda, rigettando il ricorso nel resto.
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Note:
1. Cass. Pen., Sez. I, 24 marzo 2005, n. 19718.
2. “Ai fini della configurabilità del reato di molestie, previsto dall'art. 660 cod. pen., per petulanza si intende un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell'altrui sfera di libertà (…), per la cui integrazione è richiesta la coscienza e volontà della condotta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che possano rilevare gli eventuali motivi o l'eventuale convinzione dell'agente di operare per un fine non riprovevole o per il ritenuto conseguimento della soddisfazione di una propria legittima pretesa”.(Cass. Pen., Sez. I, sentenza del 12/12/2003, n. 4053; Sez. I, sentenza del 06/10/1995, n. 11855; Sez. I, sentenza del 30/04/1998, n. 7051; Sez. I, sentenza del 26/11/1998, n. 13555).
3. Ex multis: Cass. Pen., Sez. I, sentenza del 07/11/2013, n. 32758; Sez. VI, sentenza del 23/11/2010, n. 43439; Sez. I, sentenza del 08/07/2010, n. 29933.
4. In tal senso, Cass. Pen. Sez I, sentenza n. 32758/2013; Sez. VI, n. 43439/2010; Sez. I n. 29933/2010.
5. Cass. Pen. n. 19631/2019.