La Corte di Cassazione, con l' ordinanza n. 23567 del 16/10/2013, affronta ancora una volta la problematica connessa alla concessione in godimento di un immobile, a titolo di comodato, da parte di un terzo soggetto, ad una coppia di coniugi, che successivamente decide di separarsi: in sede di separazione la casa coniugale viene assegnata alla moglie, che vi continua ad abitare insieme alla prole, mentre il terzo, proprietario dell'immobile, nonostante il provvedimento di assegnazione, decide di chiedere la restituzione immediata dell'appartamento.
La Corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado, dichiara risolto il contratto di comodato e ordina alla comodataria, assegnataria della casa coniugale, la restituzione immediata dell'immobile.
La sentenza di appello viene così impugnata avanti alla Corte di Cassazione.
La ricorrente, principalmente, contesta la sentenza di secondo grado laddove, in violazione degli artt. 1803, 1809 e 1810 cod. civ., ha escluso che il comodato fosse soggetto ad un termine, tenuto conto che quando un immobile, come nel caso di specie, viene concesso in comodato per essere destinato a casa coniugale, esso è da ritenere implicitamente assoggettato ad un termine finale, che coincide con il venir meno delle esigenze abitative del nucleo familiare.
La Corte di Cassazione, nel richiamare il dettato normativo di cui agli artt. 1809 e segg. - in virtù dei quali il termine apposto al comodato può risultare sia espressamente, dall'indicazione della data di scadenza stabilita dalle parti, sia implicitamente, dall'uso a cui il bene debba essere destinato – ne precisa gli ambiti applicativi: in particolare, già con la sentenza a Sezioni unite n. 13603 del 21/07/2004, la Corte ha chiarito che “l'individuazione del vincolo di destinazione in favore delle esigenze abitative familiari non può essere desunta dalla mera natura immobiliare del bene concesso in godimento dal comodante, ma implica un accertamento in fatto, di competenza del giudice del merito, che postula una specifica verifica della comune intenzione delle parti, compiuta attraverso una valutazione globale dell'intero contesto nel quale il contratto si è perfezionato, della natura dei rapporti tra le medesime, degli interessi perseguiti e di ogni altro elemento che possa far luce sulla effettiva intenzione di dare e ricevere il bene allo specifico fine della sua destinazione a casa familiare, perché il comodato possa considerarsi non risolubile ad nutum “, principio, questo, confermato nella sentenza in commento.
Alla luce di esso, quindi, la Corte, nel respingere il ricorso, conferma la correttezza del ragionamento seguito dalla Corte d'Appello, che nel caso di specie ha escluso che si trattasse di comodato soggetto ad un termine per essere stato stipulato in vista delle esigenze di abitazione della famiglia. Infatti, precisa la Corte, “.... si può ravvisare un comodato a termine (implicito) solo quando risulti che le parti si sono accordate per la destinazione del bene ad un determinato uso e tale intento abbiano manifestato alla data della conclusione del contratto.”
Sotto questo profilo è del tutto irrilevante quindi la mera destinazione di fatto del bene ad abitazione della famiglia, creata dal comodatario, essendo necessario che la destinazione del bene in comodato ad uno specifico uso risulti dall'accordo delle parti, accertamento, questo, che attiene all'interpretazione del contratto.
Di conseguenza, conclude la Suprema Corte, il provvedimento di assegnazione della casa coniugale alla moglie,in sede di separazione, non rileva, poichè il diritto di abitazione spettante al coniuge assegnatario è soggetto alla disciplina del titolo da cui deriva (cfr. Cass. civ. S.U. n. 13603 cit).