Vittime del dovere e soggetti equiparati: il dovere di protezione dell’Amministrazione verso il cittadino-soldato

Vittime del dovere e soggetti equiparati: il dovere di protezione dell’Amministrazione verso il cittadino-soldato

Al dovere del militare di esporsi al pericolo si contrappone il dovere dell’Amministrazione di proteggere il proprio personale.

Lunedi 1 Novembre 2021

Nel precedente articolo pubblicato il 4 agosto 2021 (https://news.avvocatoandreani.it/articoli/vittime-del-dovere-soggetti-equiparati-quadro normativo-106379.html) sono stati analizzati il quadro normativo di riferimento ed i presupposti per il riconoscimento dello status e dei benefici spettanti alle vittime del dovere e soggetti equiparati alle vittime del dovere.

La questione assume particolare rilevanza per tutti quei soggetti che hanno sviluppato gravi patologie direttamente correlabili al servizio svolto in determinati teatri operativi esteri ed in poligoni militari nazionali.

In tali luoghi, infatti, è stata acclarata un’ incidenza determinante del forte inquinamento ambientale bellico ed atmosferico a causa del largo uso di munizionamento pesante arricchito con uranio impoverito. Particolari zone di impiego (quali Bosnia, Albania, Kosovo, Iraq, poligoni nazionali sardi) sono state notoriamente interessate da bombardamenti con conseguente dispersione nell’ambiente di nano particelle di metalli pesanti senza possibilità per il personale impiegato in tali luoghi di sottrarsi alla conseguente respirazione delle polveri e dei fumi provocati dalle deflagrazioni.

A fronte di consolidati studi scientifici e di decine di pronunce giurisprudenziali che imporrebbero una attenta e ponderata valutazione delle richieste tese ad ottenere il riconoscimento dei benefici in parola, non sono rari i casi in cui l’istanza di riconoscimento dello status di vittima del dovere, e dei benefici correlati, viene rigettata dall’Amministrazione a seguito di un parere negativo formulato dal Comitato di verifica richiamando fattori di rischio generici e comuni. In altri termini vengono totalmente ignorati, in tali dinieghi, fattori di rischio specifici quali: la permanenza in ambienti fortemente inquinati; l’utilizzo di viveri ed acqua contaminati approvvigionati in loco; la particolare precarietà delle condizioni alloggiative; le condizioni di stress in ipervigilanza; lo stato fisico debilitato da massicce somministrazioni vaccinali.

Tali fattori, in primis l’esposizione ad uranio e nanoparticelle, sono stati ritenuti dalla giurisprudenza consolidatasi in materia, nonché dagli studi scientifici di settore, tutti elementi idonei ad individuare il nesso di causalità fra l’impiego e le patologie sviluppate con conseguente diritto al riconoscimento dello status di vittima del dovere e relativi benefici.

E’ appena il caso di ricordare il prevalente orientamento consolidatosi nella giustizia amministrativa  che, analizzando approfonditamente la problematica dell’uranio impoverito e dei suoi effetti sul personale militare, è giunto ad affermare non solo che “E’ fatto notorio che in quel lasso di tempo sono stati correntemente utilizzati dalle truppe N.A.T.O. ivi presenti munizionamenti ad uranio impoverito, altamente suscettibili – in quanto tali – di provocare patologie tumorali (cfr. al riguardo, ex multis, il documento www.iss.it/binary/publ/publi/0307-8.1107336752.pdf‎ presente sul sito istituzionale dell’Istituto Superiore di Sanità)” (Consiglio di Stato, 4 settembre 2013, n. 4440), ma anche che “il nesso di causalità tra esposizione a particelle di uranio impoverito inalate dal personale militare utilizzato nelle varie missioni all’estero trova conforto, sul piano probabilistico, in una sterminata letteratura storico-militare e scientifica. Sul punto della conoscibilità del pericolo derivante alla salute umana dall’uso di uranio impoverito e da altre circostanze “ambientali” (luogo di lavoro) come metalli pesanti o vaccinazioni ripetute, la giurisprudenza è da tempo in gran parte attestata su acquisizioni che l’amministrazione della difesa ben dovrebbe conoscere, essendo stata parte in tutte le centinaia di processi civili ed amministrativi che si sono occupati del fenomeno, tanto tragico per dipendenti e loro famiglie, delle malattie tumorali manifestatesi dopo l’impiego in teatri bellici, seppure in operazioni spesso definite “di pace”… è una circostanza notoria anche presso i Giudici amministrativi che i rischi di effetti nocivi sulla salute dei militari da parte delle conseguenze dell’esplosione di munizioni ad uranio impoverito erano conosciuti presso l’US Army sin dalla guerra del -OMISSIS- del 1991 e tempestivamente diffusi presso le altre Forze militari Nato ed Onu … La probabile connessione tra l’esposizione a uranio impoverito e l’insorgenza di gravi patologie, anche di natura oncologica, ha indotto l’ONU a vietare l’utilizzo di armi contenenti tale elemento (risoluzione n. 1996/16) e diversi Paesi hanno assunto misure di protezione e precauzione a favore dei militari impiegati nelle operazioni NATO (vedasi la Direttiva del Ministero della Difesa del 26.11.99)” (TAR Sardegna 6.09.2021 n. 634, conforme TAR Lazio 12.2.2019 n. 1810; Tar Toscana del 7.2.2019 n. 195; TAR Puglia, sez. Lecce, del 11.3.2019 n. 427; TAR Puglia, Bari, sez. I, n. 1226 del 20.9.2018; T.A.R. Emilia-Romagna, Parma, 11 ottobre 2016, n. 284; T.A.R. Liguria, Sez. II, 14/03/2016 n. 247 e 15.1.2015 n. 15; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 06/03/2015 n. 429; T.A.R. Catanzaro 2.10. 2014 n. 1568; TAR Friuli Venezia Giulia 19.6.2014 n. 308; TAR Salerno, Sez. I, 10 ottobre 2013 n. 2034; TAR Lazio, Sez. I bis, 16.8.2012 n. 7363).

La giurisprudenza maggioritaria ha, quindi, ritenuto pacifica la sussistenza di prove che dimostrano che specifiche patologie tumorali sono effetto e conseguenza delle attività di servizio nelle quali le prestazioni dei militari si sono svolte ripetutamente in scenari caratterizzati dall’utilizzo di armi con uranio impoverito, e con rilascio di metalli pesanti, con conseguente contaminazione dei luoghi e delle persone.

Laddove sia stato posto in dubbio che allo stato delle conoscenze non potesse ritenersi raggiunta una prova scientifica della connessione eziologica fra le patologie tumorali e il contatto con zone di guerra contaminate da uranio impoverito è stato in ogni caso valorizzato l’ orientamento giurisprudenziale che fonda l’accertamento del rapporto causale su una logica probabilistica basata su rilievi statistici, giungendo, in definitiva, ai medesimi risultati.

Ciò posto, nella valutazione del nesso di causalità fra l’esposizione all’uranio impoverito e l’insorgenza di patologie tumorali, il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che l’Amministrazione della difesa versa in una responsabilità di posizione allorquando invia il proprio personale militare in missione all’estero ed è tenuta, quindi, “ad effettuare un’analisi preventiva della situazione militare, politica, sociale, sanitaria ed ambientale del contesto operativo; ad accertarsi della piena idoneità psico-fisica dei militari, adottando tutte le opportune profilassi; a fornire al personale tutti gli strumenti di protezione individuale ragionevolmente utili al fine di prevenire i possibili rischi, ivi inclusi quelli connotati da una bassa probabilità statistica.”

Se è pur vero che lo status proprio del militare impone al personale in armi il dovere di esporsi al pericolo, tale dovere non può essere inteso, tuttavia, in senso indiscriminato ma deve essere circoscritto a quello “recato dalle forze nemiche o, comunque, da formazioni armate irregolari che intendano contrastare, anche con forme di guerra asimmetrica, le Forze Armate della Repubblica; riveniente dagli svariati rischi inevitabilmente connessi con l’uso, il maneggio e la conservazione del materiale bellico; intrinseco alle attività addestrative; conseguente all’ontologica insidia recata dalla permanenza fisica in contesti operativi instabili, in quanto, benché formalmente pacificati, siano ancora percorsi da forti elementi di frattura dell’ordinaria esistenza civile (ragion per cui vengono, appunto, inviati militari e non semplice personale civile).”

Partendo, quindi, dall’assunto che l’Amministrazione della difesa è Ente datoriale che si avvale, in quanto tale, delle prestazioni dei propri dipendenti assumendo l’obbligo di tutelarne “l’integrità fisica e la personalità morale” nel rispetto del principio generale di tutela del prestatore di lavoro ben applicabile al rapporto di impiego fra il militare e l’Amministrazione difesa, il Consiglio di Stato, ha anche richiamato l’ ulteriore principio di carattere generale in base al quale le conseguenze dannose delle attività pericolose gravano in capo a colui che le pone in essere, salva la prova dell’adozione di “tutte le misure idonee ad evitare il danno”, ha anche affermato che “giacché le “misure” che deve adottare il datore di lavoro militare, strutturalmente impegnato in “attività pericolose”, sono normativamente funzione anche della “particolarità del lavoro”, ne consegue che, nel caso di invio di militari all’estero, l’Amministrazione è tenuta, prima di procedere all’esecuzione materiale della missione, ad una rigorosa analisi delle condizioni del contesto ambientale, ad una puntuale enucleazione dei possibili fattori di rischio e, quindi, ad una conseguente individuazione delle “misure” tecnico-operative concretamente disponibili, ragionevolmente implementabili e potenzialmente idonee ad eliminare o, comunque, ad attenuare il più possibile i rischi non stricto sensu bellici connessi all’impiego di militari nel teatro de quo. 15. Ciò è tanto più vero allorché la missione debba svolgersi in contesti operativi interessati da previ eventi bellici, come tali connotati da una poliedrica, imponderabile e multifattoriale pericolosità.” (Cons. di Stato 30 novembre 2020, n. 7564).

Concludendo, il militare ha il dovere di esporsi al pericolo ma l’Amministrazione ha il contrapposto dovere di proteggere il proprio personale adottando ogni misura atta ad individuare i rischi plausibili e tutte le precauzioni idonee a prevedere e prevenire pericoli non strettamente dipendenti dalle azioni belliche  ed è, pertanto, tenuta a rispondere dei danni riportati dal personale impiegato in particolari ambienti operativi.

In sede di valutazione delle istanze tese ad ottenere il riconoscimento dello status e dei benefici spettanti alle vittime del dovere e soggetti equiparati alle vittime del dovere l’Amministrazione non può, quindi, limitarsi ad una generica invocazione del fattore causale ignoto, ma deve provare convincentemente il fattore causale fortuito, ossia “quello specifico agente, non prevedibile e, comunque, non prevenibile, che ha provocato l’evento di danno.”  

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