L'articolo evidenzia in particolare le strategia difensive del contribuente contro gli avvisi di accertamento fiscali basati sul "redditometro", soprattutto alla luce di recenti sentenze tributarie garantiste sia di merito che di legittimità.
Mercoledi 19 Giugno 2019 |
Tra le tipologie più comuni di accertamento tributario vi sono gli avvisi di accertamento emessi sulla base del cd. “redditometro”.
L’iter amministrativo di controllo e accertamento nella fattispecie redditometrica consiste nella verifica ed analisi di una serie di fattori indicativi della maggiore capacità contributiva del contribuente. Si considerano fattori sintomatici, ad esempio, l’acquisito di beni e servizi nel corso del periodo d’imposta verificato, le spese sostenute e gli incrementi patrimoniali realizzati ed infine altri fattori specificatamente individuati dalla normativa quali indici di maggiore capacità contributiva.
In buona sostanza, ogniqualvolta il reddito dichiarato non risulti in linea con il tenore di vita della persona fisica nel periodo d’imposta considerato, a partire dai suddetti parametri indicativi, è consentito all’Amministrazione finanziaria ricostruire induttivamente il reddito che avrebbe dovuto essere percepito e dichiarato dal contribuente.
Ebbene, è evidente che il meccanismo presuntivo sopra indicato si fonda sull’assunto che tutte le risorse della persona per sostenere il proprio tenore di vita nell’anno considerato debbano essere ricercate e riscontrate nella dichiarazione annuale dei redditi. Tale postulato, necessario ai fini dell’operatività della presunzione - ma non necessariamente corrispondente alla realtà dei fatti - richiede inevitabilmente dei “temperamenti” per adattare la rigidità della regola presuntiva alla varietà delle specifiche situazioni prospettabili in concreto.
Ed, infatti, è sempre ammessa la prova contraria alle risultanze redditometriche affinché sia consentito al contribuente dimostrare che quella che all’apparenza potrebbe sembrare una maggiore capacità contributiva (non dichiarata) nel periodo d’imposta, in realtà discende
(a) da fonti reddituali diverse da quelle relative allo stesso periodo, ovvero
(b) da redditi legalmente esclusi dalla formazione dell’imponibile da indicare in dichiarazione, in quanto esenti o già tassati con ritenuta alla fonte,
(c) o ancora, da fonti di natura non reddituale bensì patrimoniale.
Ciò premesso, dall’analisi della giurisprudenza è possibile riscontrare lo sviluppo di due orientamenti contrastanti in tema di redditometro con riguardo all’inversione dell’onere probatorio a carico del contribuente, in particolare, per quel che concerne l’oggetto specifico dell’onere della prova.
Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, indubbiamente più rigido e rigoroso, non è sufficiente che il contribuente fornisca la prova di possedere altre disponibilità economiche e reddituali legittimamente non indicate in dichiarazione, ma è altresì necessario che egli dimostri che gli acquisti di beni e servizi effettuati nell’annualità non conforme ai criteri di calcolo del redditometro, siano stati compiuti proprio con quelle somme “fuori dichiarazione” e non già con qualsiasi altra disponibilità di danaro, ancorché legittimamente, non dichiarata.
In senso opposto, altra parte della giurisprudenza sostiene invece – secondo un approccio più favorevole al contribuente – che non sia obbligatoria ai fini del superamento della presunzione la prova della reale “destinazione” delle somme per perfezionare gli acquisti di beni e servizi, purché ne sia dimostrata l’esistenza, l’entità, nonché il possesso per un periodo congruo di tempo, tale da determinare il ragionevole convincimento che – al di là dei redditi dichiarati nel periodo d’imposta – il contribuente possedeva di fatto di altre disponibilità, legittimamente non inserite in dichiarazione, sufficienti a sostenere il mantenimento del proprio tenore di vita.
Sulla scia di tale ultimo orientamento interpretativo – come si è visto, più favorevole al contribuente – si pone la recente sentenza n. 394/2/2019 della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna, la quale ha affermato quanto segue: “Questa Commissione osserva preliminarmente che trattasi dell'ennesima controversia relativa all'uso del cd. redditometro da parte dell'Amministrazione finanziaria al fine di rideterminare sinteticamente il reddito del contribuente ex art. 38 DPR n. 600/1973. Nella fattispecie (...) risulta proprietario di due autovetture a gasolio e di un motociclo, nonché di abitazione principale a Forlì e di due abitazioni secondarie a Cervia ed in Sardegna. Inoltre negli anni in questione (2007 e 2008) risulta aver versato somme per finanziamento infruttifero e riscosso compensi. A parere dell'ufficio il contribuente non ha dimostrato puntualmente la propria capacità finanziaria e, quindi, la provenienza non reddituale delle somme necessarie al mantenimento dei beni in suo possesso, in quanto le movimentazioni 2007/2008 sui conti correnti, esibiti dallo stesso contribuente quale prova, interessano specificatamente movimentazioni di investimento/disinvestimento titoli e non già prelievi di denaro. Quanto sopra in disaccordo con le statuizioni dei primi giudici, che avevano ritenuto soddisfatto l'onere probatorio da parte del contribuente, il quale, per inciso, risultava aver venduto un terreno con fabbricato Industriale per un prezzo rilevante (Euro. 1.067.914,00) negli anni Immediatamente precedenti a quelli della verifica fiscale in parola e risultava, altresì, aver un saldo attivo sui conti correnti in questione per il periodo 2005/2010 di notevole entità. Tutto ciò evidenziato, questo Collegio osserva che sulla fattispecie è ormai intervenuta consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha superato il precedente indirizzo giurisprudenziale in materia di prova documentale ammessa per il contribuente in relazione alla determinazione sintetica del reddito effettuata dall'ufficio ex art. 38 DPR n. 600/73. A tali nuovi principi (cfr. tra l'altro Cassaz. n. 6396/2014; Cassaz. n. 1455/2016; Cassaz. n. 11388/2017) questa Commissione intende uniformarsi e farli propri. Pertanto "nessuna altra prova deve dare la parte contribuente circa l'effettiva destinazione del reddito esente o sottoposto a tassazione separata agli incrementi patrimoniali se non la dimostrazione dell'esistenza di tali redditi", né può evincersi "un onere di dimostrazione aggiuntivo, circa la provenienza oltre che l'effettiva disponibilità finanziaria delle somme occorrenti per gli acquisti operati dal contribuente". Per tutti i suesposti motivi il ricorso in appello dell'ufficio è respinto”.
In conclusione, i Giudici di merito hanno ritenuto di aderire a quella che è stata definita la più recente e consolidata giurisprudenza della Cassazione, per cui ciò che il contribuente deve dimostrare in caso di accertamento da “redditometro” è soltanto l’esistenza di maggiori redditi esenti, o sottoposti a tassazione separata, o comunque di somme non aventi rilevanza reddituale a disposizione del contribuente (ad esempio, donazioni ricevute da terzi, somme derivanti da dismissioni di immobili o polizze, ecc.). Non spetta invece al contribuente dimostrare l’impiego proprio di tali somme per la realizzazione dei contestati acquisti o incrementi patrimoniali.
Detto in parole semplici, se il contribuente dimostra di avere delle disponibilità più che adeguate a soddisfare le spese e gli oneri relativi al proprio tenore di vita – non costituite, ovviamente, da redditi sottratti a tassazione - , nulla potrà essergli addebitato. E solo questo il contribuente deve dimostrare. Il che vale a dire che lo strumento del redditometro, essendo basato su parametri altamente presuntivi, non può essere indiscriminatamente utilizzato dall’Ufficio per colpire (illegittimamente) posizioni soggettive di persone fisiche la cui ricchezza ben può essere spiegata e chiaramente giustificata da fonti reddituali e/o patrimoniali diverse da quelle risultanti dalla dichiarazione presentata in un singolo periodo d’imposta.
Al contrario, vista la sommarietà dello strumento, è fondamentale opporre all’Amministrazione finanziaria la portata applicativa limitata del “redditometro”, di fatto suscettibile di trovare applicazione solamente nei confronti di quei soggetti che, a fronte della dichiarazione di redditi estremamente esigui, non sono in grado di documentare in alcun modo il possesso delle disponibilità economiche occorrenti a soddisfare le esigenze del proprio tenore di vita, se non attraverso la presunzione – legittima in tal senso – della disponibilità effettiva di maggiori redditi sottratti a tassazione. In breve, a dispetto dell’utilizzo improprio che ne fa l’Agenzia delle Entrate, il cd. “redditometro”, stando ai principi affermati dalla Cassazione e dai Giudici di merito, è lo strumento diretto a colpire solo quei fenomeni più eclatanti di evasione fiscale, che possono ritenersi pacificamente sussistenti solo laddove il contribuente non sia in grado di motivare in alcun modo la coerenza delle spese relative alla propria sfera personale rispetto al possesso di disponibilità economiche idonee a farvi fronte.
Ed infatti, la più recente giurisprudenza tributaria appare consapevole dell’esigenza di tutelare la posizione del contribuente dalle distorsioni a cui molto spesso si presta l’applicazione del “redditometro” da parte dell’Amministrazione finanziaria. In tale prospettiva, può essere impugnato con valide possibilità di successo, nel termine perentorio di 60 giorni dalla data di notifica, qualsiasi avviso di accertamento che non si conformi ai suddetti principi applicativi in tema di “redditometro”, in quanto illegittimo e gravatorio per il contribuente.
Avv. Giuseppe Marino - Avvocato tributarista cassazionista in Roma
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