La Sezione Lavoro della Cassazione (finalmente) si adegua al principio secondo cui il danno permanente da incapacità di guadagno non può essere liquidato in base ai coefficienti di capitalizzazione approvati con R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403, i quali - a causa dell’innalzamento della durata media della vita e dell’abbassamento dei saggi di interesse - non garantiscono l’integrale ristoro del danno, e non sono perciò consentiti dalla regola di cui all’art. 1223 c.c.
Giovedi 24 Marzo 2022 |
La motivazione richiama i precedenti arresti della terza sezione, cui rimanda anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., i quali hanno ripetutamente evidenziato l’inadeguatezza del criterio di liquidazione rappresentato dalle tavole di mortalità di cui al R.D. n. 1403 del 1922, e la necessità di garantire l’integrale ristoro del danno attraverso il ricorso a parametri non necessariamente tratti da fonti legislative (Cass. n. 18093/2020, Cass. n. 16913/2019, Cass. n. 20615/2016).
A tali precedenti va aggiunto Corte di Cassazione - Sez. Terza civile - n. 20615 del 14.10.2015 (Pres. Salmè, rel. Rossetti) che, con articolata motivazione, dà conto dei criteri sottesi al principio di diritto.
La sentenza in commento evidenzia che il giudice territoriale è incorso in errore di diritto ponendosi in contrasto con il citato principio secondo il quale «Il danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa specifica, in applicazione del principio dell’integralità del risarcimento sancito dall’artt. 1223 c.c., deve essere liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall’altro, coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano" (Cass. n. 16913/2019 cit.)» (§ 6.2 della motivazione).
In principio è pertanto da considerarsi jus receptum e trova articolata spiegazione, in particolare, nel precedente della terza sezione sopra citato: n. 20615 del 14.10.2015 (Pres. Salmè, rel. Rossetti) cui è necessario riferirsi per comprendere l’iter logico motivazionale il (pur chiaro) principio di diritto.
Vi si legge che «il risarcimento del danno deve essere integrale: cioè comprendere tanto la perdita subita, quanto il mancato guadagno (art. 1223 c.c.). Il danno da perdita della capacità di lavoro e di guadagno è un danno permanente: esso infatti è destinato a riprodursi anno per anno, per tutta la vita lavorativa della vittima» (§ 2.3.3).
L’integrale risarcimento del danno permanente può avvenire in due modi:
-) in forma di rendita (art. 2057 c.c.);
-) in forma di capitale.
Per trasformare in capitale il reddito perduto de die in diem dalla vittima sono possibili in teoria due criteri.
Il primo consiste nel sommare tutti i redditi che la vittima perderà tra il momento della liquidazione e il momento futuro in cui avrebbe comunque cessato il lavoro, e quindi nell’applicare al risultato un saggio di sconto, per tenere conto del fatto che la vittima percepisce immediatamente redditi che, se fosse rimasta sana, avrebbe incassato solo tra “n” anni (e quindi il danneggiato trarrebbe vantaggio dal risarcimento se non si eliminasse, attraverso lo sconto, il cd. "montante di anticipazione").
Il secondo criterio consiste nel moltiplicare il reddito annuo perduto dalla vittima (al netto delle imposte e debitamente rivalutato all’epoca della liquidazione) per un numero che tenga già conto del montante di anticipazione.
Questo numero è detto coefficiente di capitalizzazione.
I coefficienti di capitalizzazione approvati con R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403 sono stati calcolati sulla base delle tavole di mortalità ricavate dal censimento della popolazione italiana del 1911, e presuppongono una produttività del denaro al saggio del 4,5%.
I suddetti coefficienti non consentono l’integrale ristoro del danno prescritto dall’art. 1223 c.c., e la loro adozione non è dunque consentita nemmeno in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c.
Ciò per quattro ragioni - riportate al § 2.3.4. della sentenza – e segnatamente.
(i) La prima ragione è che la vita media della popolazione italiana si è notevolmente accresciuta nel secolo trascorso tra il 1922 ed il 2015.
Nel 2014 l’Istituto Nazionale di Statistica ha determinato la speranza di vita alla nascita per la popolazione italiana in 80,2 anni per gli uomini ed 84,9 anni per le donne.
Nel 1900 la speranza di vita media della popolazione italiana (calcolata, all’epoca, indistintamente per maschi e femmine) era di soli 54,9 anni. Pertanto liquidare il danno permanente in base ad un coefficiente calcolato su una speranza di vita inferiore di oltre un terzo a quella reale non può dirsi in alcun modo un risarcimento "integrale" ai sensi dell’art. 1223 c.c.
(ii) La seconda ragione è che i coefficienti di capitalizzazione di cui al R.D. n. 1403 del 1922 sono unici per maschi e femmine, mentre la durata della vita media è diversa per i due sessi. Ciò conduce ad una sovrastima del danno patito dalla vittima maschile, e ad una sottostima per le vittime dell’altro sesso. Anche tale circostanza non soddisfa, pertanto, la regola di integralità di cui all’art. 1223 c.c.
(iii) La terza ragione è che i coefficienti di capitalizzazione di cui al R.D. n. 1403 del 1922 sono calcolati ad un saggio del 4,5%. Tale saggio indica la quota di risarcimento che viene detratta per tenere conto della anticipata capitalizzazione, rispetto all’epoca futura in cui il danno si sarebbe effettivamente verificato. Il saggio al quale viene calcolato il coefficiente di capitalizzazione indica dunque il "vantaggio" che il creditore teoricamente acquisisce per effetto del pagamento immediato, ed è pari alla ipotetica remunerazione che il denaro ottenuto gli dovrebbe garantire attraverso le forme più comuni di investimento senza rischio di capitale.
Il saggio del 4,5%, al quale sono calcolati i coefficienti di cui ai R.D. n. 1403 del 1922, non è più corrispondente alla realtà, in un’epoca in cui il tasso legale degli interessi è pari allo 0,5% e gli investimenti in titoli a reddito fisso raramente garantiscono rendimenti superiori al 2%.
Pertanto l’adozione dei coefficienti di cui al R.D. n. 1403 del 1922 ha l’effetto di decurtare dal risarcimento un importo superiore a quello che, per effetto dell’anticipato pagamento, il danneggiato potrebbe ottenere attraverso l’impiego proficuo di quella somma: anche sotto tale profilo, pertanto, i coefficienti in esame non soddisfano la regola di integralità di cui all’art. 1223 c.c.
(iv) La quarta ragione è che il R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403 è stato implicitamente abrogato per effetto della soppressione della Cassa Nazionale per Assicurazioni Sociali (CNAS, ovvero l’ente erogatore delle prestazioni disciplinate dal suddetto decreto), e della sua sostituzione dapprima dall’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale (1933), e quindi dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), e comunque per effetto della riforma dei criteri di calcolo della pensione sociale.
La sentenza conclude evidenziando che «Per ovviare agli inconvenienti sopra descritti, ovviamente il giudice di merito resta libero di adottare i coefficienti di capitalizzazione che ritiene preferibili, purché aggiornati e scientificamente corretti. Potranno a tal fine essere adottati i coefficienti di capitalizzazione approvati con provvedimenti normativi vigenti per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali, come pure i coefficienti elaborati dalla dottrina per la specifica materia del risarcimento del danno aquiliano: a mero titolo indicativo, quelli diffusi dal Consiglio Superiore della Magistratura ed allegati agli Atti dell’Incontro di studio per i magistrati, svoltosi a Trevi il 30 giugno - 1 luglio 1989 (in Nuovi orientamenti e nuovi criteri per la determinazione del danno, Quaderni del CSM, 1990, n. 41, pp. 127 e ss.)».
Non è un caso che tutti i recenti programmi di calcolo del danno oltre al vetusto immancabile (ma oramai inutilizzabile) riferimento al R.D. 1403/22 riportino anche i parametri dei citati Quaderni del CSM, 1990, richiamati nel 2019 anche dall’Osservatorio sulla giustizia civile di Milano (gruppo danno alla persona) scaricabile in http://www.milanosservatorio.it/wp-content/uploads/2020/02/OSSMI-danno-res-riunione-1-gruppo-11.pdf ; in tale documento si cita espressamente la sopra riportata sentenza Rossetti (n. 20615 del 14.10.2015) e, sia pur evidenziandone alcune criticità di applicazione, i criteri attuariali delle tabelle INPS e INAIL.