1.Excursus della disciplina legale delle mansioni del lavoratore
Originariamente la disciplina delle mansioni che il lavoratore subordinato doveva disimpegnare alle dipendenze dell’azienda era collocata nell’art. 2103 del codice civile del 1942, ed era così formulata: «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto. Tuttavia, se non è convenuto diversamente, l'imprenditore può in relazione alle esigenze dell'impresa, adibire il prestatore di lavoro ad una mansione diversa, purché essa non importi una diminuzione nella retribuzione o un mutamento sostanziale nella posizione di lui. Nel caso previsto dal comma precedente, il prestatore di lavoro ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, se a lui più vantaggioso».
Tale testo venne sostituito nel 1970 dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, che così dispose: «Art. 2013 c.c. – Mansioni del lavoratore - Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo».
Da quanto sopra risulta, pertanto, che il conferimento della prestazione lavorativa nell'impresa attraverso l'esplicazione, strumentalmente necessaria, di specifici compiti, attività ed incarichi professionali - riassumibili nel termine, giuridicamente d'uso comune, «mansioni» - era configurato e notoriamente caratterizzato dal principio della contrattualità. Era, infatti (ed è ancora, sebbene in misura ridotta rispetto agli inizi), necessario l'accordo bilaterale in ordine all'oggetto della prestazione, per la cui fruizione da parte del datore di lavoro viene ad instaurarsi lo specifico contratto di scambio, caratterizzato corrispettivamente da retribuzione e diritti normativi per il lavoratore.
II principio contrattualistico afferente all'oggetto della prestazione trova tuttora la sua codificazione legale nell'art. 96 delle disp. att. cod. civ., ove il legislatore - ad evitare genericità - ha disposto che «l'imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento dell'assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle mansioni per cui è stato assunto».
Le mansioni sono sempre state, quindi, nella mente del legislatore, una cosa certa (e non una scatola vuota o a contenuto evanescente), dalle quali non è dato prescindere; costituiscono infatti l'oggetto specifico dell'interesse che ha spinto il datore di lavoro ad avvalersi dei servizi di un certo lavoratore in possesso di pre-valutati, utili, requisiti e capacità.
Pertanto, esemplificativamente, una volta che il prestatore di lavoro venga assunto per svolgere le mansioni di conduttore di mezzi di trasporto o di meccanico-motorista o di elettricista o di fresatore o di saldatore, gli verranno attribuite la categoria e la qualifica corrispondenti (che, nell'esempio, possono essere quelle di operaio-comune o di operaio-qualificato o di operaio-specializzato, in dipendenza della valorizzazione attribuita ai compiti dai raggruppamenti disposti a livello di contratto collettivo). Passando alla fattispecie della prestazione di lavoro a livello impiegatizio, le dizioni «dattilografo», «archivista», «contabile-primanotista», «cassiere», ecc., individuano tipi di mestiere (ed in realtà la qualifica specifica), cui corrisponde - per le prime due professionalità - la qualifica generica di impiegato d'ordine o esecutivo (ove «impiegato» è specificazione della categoria ex art. 2095 cod. civ.) e, per le seconde due, quella di impiegato di concetto.
In via di fatto - a fronte dell'interesse legislativamente riconosciuto per il lavoratore alla «specificazione» delle mansioni - può realisticamente affermarsi che corrisponde un diverso interesse alla «genericità» da parte del datore di lavoro, per ragioni di gestione agevole e flessibile della forza-lavoro; talché è piuttosto frequente il caso di assunzioni con sola precisazione formale della categoria e della qualifica generica senza individuazione della qualifica in senso tecnico (e tantomeno dei compiti tramite i quali si specifica), al fine di poter utilizzare il lavoratore, a seconda delle necessità, in mansioni promiscue o in mansioni di volta in volta diverse (seppur ricomprese nell'ambito della stessa qualifica generica), ruotandolo tra le posizioni, a livello operaio, di elettricista, di manutentore, di fresatore, di calibrista, ecc., e, a livello impiegatizio, tra quelle di minore o maggior concetto o d’ordine Ma va subito detto che un simile comportamento fattuale attualizza una situazione nient’affatto lineare e rispettosa del modello legislativamente ipotizzato nell'art. 2103 e 96 disp. att. cod. civ., potendo esclusivamente essere consentito che le eventuali mansioni di carattere inferiore rivestano, nell’ambito della posizione professionale, carattere accessorio e/o meramente marginale onde non infrangere il requisito legale dell’equivalenza reciproca.
Tramite la precitata configurazione, il legislatore codicistico intese privilegiare le esigenze del lavoratore ponendo come condizione-limite alla variazione delle mansioni una nozione di “equivalenza” (o affinità) tra di loro, per la cui individuazione lo stabile orientamento ultradecennale della Cassazione dispose che venisse riscontrata nei seguenti termini: «per ravvisarsi un'equivalenza di mansioni non basta la sola equivalenza oggettiva, data dall'assimilabilità dei servizi resi nello svolgimento di esse nell'ambito dell'organizzazione produttiva, occorrendo altresì l'equivalenza sotto il profilo soggettivo, ossia la possibilità che il lavoratore svolga le nuove e diverse mansioni con le stesse capacità e attitudini possedute o maturate nello svolgimento delle precedenti» (ex plurimis, Cass. 13/11/1982 n. 4882).
L'equivalenza avrebbe dovuto (e dovrebbe), pertanto, implicare l'assenza di detrimento alla formazione e preparazione professionale acquisita in precedenza dal prestatore di lavoro, non potendosi dar luogo legittimamente ad un'assegnazione di mansioni (quantunque comprese nello stesso livello contrattuale e quindi solo apparentemente equivalenti) qualora ciò implichi uno svuotamento od una inutilizzazione del patrimonio professionale preesistente.
Pertanto venne correttamente affermato, per lungo tempo, da autorevole giurisprudenza che, ai fini della realizzazione dell'equivalenza, non fornisce alcuna garanzia il ricorso alla gamma di mansioni comprese nello stesso livello o fascia contrattuale né tantomeno il parametro della corrispondenza retributiva, del tutto inconferente o, al limite, insufficientemente tutorio.
2.Il terzo intervento sull’art. 2103 cod.civ.
Nel 2015, per effetto dell’emanazione - da parte del Governo Renzi - del cd. Jobs act (tramite cui venne modificato l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970) venne altresì riscritto (dall’art. 3, comma 1, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81) il precedente testo dell’art. 2103 c.c. (cioè l’art. 13 dello Statuto dei lavoratori del 1970), in senso deteriore per i lavoratori, assumendo questa nuova formulazione: «Art. 2103 - Prestazione del lavoro - Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale.
Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall'assolvimento dell'obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni.
Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi.
Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.
Nelle sedi di cui all'articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.
Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.
Il lavoratore non può essere trasferito da un'unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo».
3. La terza riscrittura della disciplina delle mansioni favorita dal mutato orientamento della Cassazione, legittimante le clausole di fungibilità nelle mansioni
In tale sopra riportata riscrittura emerge, innanzitutto, l'eliminazione di quella garanzia per i lavoratori - in caso di mutamento unilaterale delle mansioni - costituita dal rispetto della cd. "equivalenza" tra le precedenti disimpegnate (cd. a quo) e quelle alle quali si è stati unilateralmente spostati (cd. ad quem).
L'equivalenza - presente nel (vecchio) testo dell'art. 2103 cod. civ. a salvaguardia da demansionamenti e dequalificanti degradazioni - è stata sostituita dalla legittimazione per il datore ad assegnare insindacabilmente il lavoratore a mansioni diverse, alla sola condizione che siano «mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte».
Per completezza ed obiettività si deve far presente, altresì, che la riscrittura meno favorevole delle garanzie per la professionalità individuale dei lavoratori effettuata nel 2015, venne preceduta da una elaborazione più elastica della nozione della professionalità ad opera delle Sezioni Unite della Cassazione tramite sentenza del 24 novembre 2006, n. 25033 (rel. Amoroso), tanto da far affermare (dalla successiva Cass., sez. lav., 5/12/2007 n. 25313) che le SU avevano:«proceduto ad una revisione in senso dinamico e collettivo della nozione di professionalità, tradizionalmente intesa in senso statico, ammettendo la legittimità delle previsioni contrattuali di flessibilità ed intercambiabilità nell'ambito di un'ampia area di professionalità diverse, proprio per consentire la riorganizzazione produttiva e l'accrescimento delle professionalità di ciascuno (cfr. S.U. sentenza 24 novembre 2006 n. 25033; Cass. sez. lav. 8 marzo 2007 n. 5285)».Al riguardo argomentando che: «La dimensione individuale della garanzia dell’articolo 2103 cod. civ. crea degli steccati che certamente valgono a protezione del lavoratore nei confronti di un indiscriminato jus variandi del datore di lavoro; ma possono rappresentare anche un attrito di resistenza alla progressione professionale della collettività dei lavoratori inquadrati in quella stessa qualifica. Ed allora, se come deve ritenersi in materia, rileva non solo quello che il lavoratore fa, ma anche quello che sa fare (ossia la professionalità potenziale), la contrattazione collettiva può legittimamente farsi carico di ciò, prevedendo e disciplinando meccanismi di scambio o di avvicendamento o di rotazione che non violano la garanzia dell’articolo 2103 cod .civ., ma che con quest’ultima sono compatibili» (Cass., sez. lav., 5 aprile 2007, n. 8596, rel. Vidiri).
Tanto fu deciso in sede di esame di una vertenza afferente la previsione, nel ccnl di Poste italiane, di una clausola di fungibilità obbligante - in caso di contingenti necessità di servizio - i lavoratori a ruotare su diverse mansioni non omogenee tra loro ma inquadrate dagli agenti stipulanti il ccnl nella stessa categoria e declaratoria contrattuale (dotandole per tal via di equivalenza “convenzionale” tra loro).
Le Sezioni unite affermarono il principio di diritto secondo cui: «la contrattazione collettiva se da una parte deve muoversi all’interno, e quindi nel rispetto, della prescrizione posta dal comma 1 dell’articolo 2103 cod. civ. che fa divieto di un’indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in concreto una diversa professionalità, pur confluendo nella medesima declaratoria contrattuale e quindi pur essendo riconducibili alla matrice comune che connota la qualifica secondo la declaratoria contrattuale è però autorizzata a porre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra esse per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica senza per questo incorrere nella sanzione di nullità del comma 2 della medesima disposizione»; aggiungendo: «ed allora, se come deve ritenersi rileva non solo quello che il lavoratore fa, ma anche quello che sa fare (ossia la professionalità potenziale), la contrattazione collettiva può legittimamente farsi carico di ciò prevedendo e disciplinando meccanismi di scambio o di avvicendamento o di rotazione (come il menzionato accordo integrativo del 20 marzo 1998) che non violano la garanzia dell’articolo 2103 cod. civ., ma che con quest’ultima sono compatibili».
Conseguentemente ne uscirono legittimate dalla magistratura di legittimità clausole contrattuali di fungibilità del seguente tenore, convenute dai contrapposti agenti stipulanti i ccnl: «La declaratoria di ciascuna delle prime quattro Aree è unica ed è finalizzata a realizzare la massima flessibilità nell’utilizzazione delle risorse (…) in ciascuna delle prime quattro Aree funzionali e nel proprio settore di appartenenza il dipendente può essere adibito allo svolgimento di qualunque mansione in essi ricompresa, a prescindere dal parametro stipendiale di cui gode o del profilo rivestito (…). Per comprovate esigenze di servizio il dipendente, anche a domanda, può essere adibito temporaneamente, per un massimo di 24 mesi, a svolgere mansioni di altro profilo, anche di diverso settore, nell’ambito della stessa area di appartenenza, purché ciò non comporti alcun mutamento sostanziale della propria posizione professionale» [(così il ccnl Ferrovie dello Stato, ma non diversamente i ccnl di altri settori economici, come quello del settore credito ove la clausola di fungibilità risultò formulata nel modo seguente: «in considerazione delle esigenze aziendali in direzione della fungibilità ed anche al fine di consentire ai lavoratori (lavoratrici) conoscenze quanto più complete del lavoro ed un maggior interscambio nei compiti, l’impresa può attribuire al lavoratore (lavoratrice), anche in via promiscua, tutte le attività di pertinenza dell’area professionale di appartenenza, senza che ciò comporti riduzione del trattamento economico. Ove al lavoratore (lavoratrice) vengano temporaneamente affidate attività proprie di un livello retributivo superiore, l’interessato ha diritto per il periodo di utilizzo in tali compiti alla corresponsione della relativa differenza di retribuzione»)].
Una volta cautamente estesa dalla magistratura – sia pure per esigenze temporanee e contingenti aziendali o per supposta elevazione professionale della collettività dei lavoratori - la nozione di equivalenza all’intero coacervo delle mansioni accorpate nello stesso livello o categoria dalle contrapposte Organizzazioni datoriali e sindacali in sede di stesura dei ccnl, al futuro legislatore (del 2015) risultò automaticamente spianata la strada per prescindere da una pretesa datoriale di fungibilità circoscritta esclusivamente tra mansioni “convenzionalmente omogenee” (ma più verosimilmente eterogenee all’interno dell’unitaria categoria o area professionale), al solo riscontro di temporanee esigenze di servizio.
Pertanto la riscrittura dell’art. 2103 cod. civ. fu, nel 2015, realizzata mediante l’implicita affermazione legislativa - generalizzata quanto incontrollata - secondo cui tutte le mansioni collocate dalla contrattazione collettiva all’interno della stessa declaratoria, categoria o area, sono, di per se stesse, professionalmente equivalenti, quindi pretendibili dall’azienda e non ricusabili dai lavoratori.
Come appare intuitivo, la riscrittura non fu assolutamente di poco conto, specie se si tiene presente il fatto che l’orientamento giurisprudenziale della Cassazione aveva da tempo riconosciuto - alla precedente normativa che imponeva allo ius variandi datoriale il rispetto del requisito dell'equivalenza a prevenzione dalle dequalificazioni - addirittura un valore superindividuale; cioè dell'essere l’art. 2103 cod. civ. teso non solo alla salvaguardia della dignità e personalità del singolo ma alla tutela del più elevato ed ampio «interesse della collettività che il patrimonio di nozioni, di esperienza e perizia acquisita dal lavoratore nell'esercizio dell'attività non venga sacrificato alle esigenze dell'organizzazione aziendale del lavoro ed al profitto dell'impresa (1) … mediante l'assegnazione del dipendente a mansioni inferiori che non consentano, nel loro espletamento, l'utilizzazione ed il conseguente perfezionamento del patrimonio professionale già acquisito, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti prospettive di miglioramento professionale» (2).
Nella vigenza dell’ originario art. 2103 cod. civ., mansioni equivalenti tra le quali era legittimo lo spostamento in orizzontale dovevano, pertanto, intendersi - anche secondo l'autorevole opinione della prima giurisprudenza di Cassazione - quelle che nella loro successione consentivano che «risultasse tutelato il patrimonio professionale del lavoratore, anche nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare, ed anche di arricchire, il patrimonio professionale precedentemente acquisito, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze» (3). Con la chiarificante specificazione, sempre della magistratura di merito e di Cassazione, secondo cui: «Deve ritenersi che il concetto di equivalenza delle mansioni prescinda dalla riconducibilità in astratto delle mansioni al medesimo livello contrattuale, postulando di contro che le nuove mansioni siano in concreto aderenti alla specifica competenza tecnica e professionale del dipendente al fine di salvaguardare il livello professionale raggiunto... (4), di guisa che sussiste la violazione del disposto di cui all’art. 2013 cod. civ. qualora le nuove mansioni, pur comprese nel livello - o nella categoria - contrattuale già attribuito al dipendente, comportino una lesione del suo diritto a conservare e migliorare la competenza o la professionalità maturata o pregiudichino quello al suo avanzamento graduale nella gerarchia del settore» (5); cosicché «(...) l'equivalenza delle mansioni contrattuali a quelle successivamente attribuite può dirsi sussistente solo quando le mansioni ad quem tengono conto della professionalità già acquisita dal dipendente; il criterio dell'inquadramento nel medesimo livello categoriale è pertanto insufficiente giacché il mutamento di mansioni può tradursi - nonostante il mantenimento del medesimo livello - nel disconoscimento di ogni pregressa esperienza professionale».
4. Significato, rilevanza e conseguenze della modifica
La garanzia della "equivalenza", nella riscrittura dell'art. 2103 cod. civ., viene, pertanto, soppressa per il suo presunto carattere ingombrante ed ostativo all'esasperata fungibilità tra le mansioni, pretesa eminentemente da datori di lavoro che, piuttosto che valorizzare la competenza specifica professionale, mostrano di preferire il lavoratore "tuttofare", cd. "polivalente", più facilmente gestibile.
Detta garanzia viene sostituita dal conferimento al datore di lavoro del potere di spostare unilateralmente in orizzontale il lavoratore tra le varie mansioni che gli agenti della contrattazione – non sempre e/o insufficientemente garanti dei diritti soggettivi dei singoli, (anche per effetto dello sbilanciato potere che intercorre tra organizzazioni datoriali e sindacati dei lavoratori, sia in assoluto che nelle negoziazioni) - hanno accorpato sullo stesso livello di inquadramento categoriale, all'interno delle classificazioni contrattuali, nella presunzione di una loro astratta equipollenza qualitativa.
Poiché la garanzia della professionalità attiene ad un diritto della personalità, a connotazione del tutto individuale, nella precedente formulazione dell'art. 2103 cod. civ., la verifica dell'equivalenza tra i compiti a quo e quelli ad quem era stata, condivisibilmente, sottratta a "parallelismi" o “affiancamenti” o “accorpamenti” di plurime mansioni, realizzati in accordi sindacali notoriamente caratterizzati da soluzioni mediatorie non sempre affidabili e demandata di fatto, invece, esclusivamente al riscontro imparziale del Giudice esterno.
L’innovativo conferimento alle pattuizioni intersindacali, in esclusiva, della facoltà di individuare (per approssimazione, ad essere benevoli) la "somiglianza" o non "difformità" sostanziale dei profili professionali tra di loro, finisce per precludere sostanzialmente ai lavoratori le possibilità di ricorso all’intervento accertativo e correttivo del magistrato per il riscontro e la sanatoria di una presunta dequalificazione conseguente a rotazione in mansioni convenzionalmente qualificate ex contractu omogenee, ma sostanzialmente eterogenee e non equivalenti.
Tramite questa modifica fu conseguita da parte datoriale una conquista tutt'altro che occasionale, anzi del tutto ricercata dalla compagine governativa del 2015, stante la manifestamente dichiarata intenzione di estraniare la magistratura, relativamente alle tematiche del lavoro, dallo svolgere il proprio ruolo istituzionale di garante avverso atteggiamenti prevaricatori o arbitrari della parte forte nel rapporto di lavoro.
Conquista datoriale, ad effetto pragmatico estremamente efficace - anche se non anche dal versante strettamente giuridico (come di seguito evidenzieremo) - determinante prostrazione psicologica nei lavoratori fatti oggetto di mobilità tra le varie mansioni connotate omogenee solo “convenzionalmente”, ingenerante in loro la convinzione psicologica dell’inutilità di avanzare una qualsiasi contestazione di presunto demansionamento, per la previsione di una soccombenza in giudizio, una volta che la rotazione tra mansioni (quantunque non equivalenti) sia stata loro documentata dall’azienda come contemplata nella clausola di fungibilità convenuta nei ccnl.
Sul versante giuridico - diversamente da quello fattuale (che più conta) – va chiaramente detto, peraltro, che risulterebbe (e risulta) del tutto infondata l’eventuale convinzione datoriale di poter sottoporre il lavoratore ad una mobilità indiscriminata tra le mansioni considerate contrattualmente fungibili, solo per la loro inclusione nella stessa area professionale. Infatti la mera rotazione dei lavoratori tra di esse, autorizzata dalle clausole di fungibilità, non gli garantisce affatto di considerarsi al riparo di eventuali (quanto oramai sempre più rare) contestazioni di dequalificazione, giacché, come ha avuto modo di puntualizzare nuovamente, e di recente, la giurisprudenza di Cassazione, a scanso di equivoci, nella sentenza n. 16594 del 3 agosto 2020 (6): «Il principio di tutela della professionalità acquisita, che resta impregiudicato pur in presenza di un accorpamento convenzionale delle mansioni, precludendo la disciplina legale di carattere inderogabile dell’art. 2103, comma 1, cod. civ. la previsione di una indiscriminata fungibilità delle mansioni per il solo fatto di tale accorpamento, impone al giudice di merito di accertare, alla stregua di tutte le circostanze ritualmente allegate e acquisite al processo, le esigenze di salvaguardia della professionalità raggiunta prospettate dal lavoratore, sulla base dei percorsi di accrescimento professionale dallo stesso evidenziati e, segnatamente, di individuare, alla luce della sua “storia professionale”, quali fossero le mansioni di riferimento per verificare l’osservanza dell’art. 2103 cod. civ., indipendentemente dall’obbligo assunto dal dipendente, al momento dell’avviamento al lavoro, di svolgere tutte le mansioni inerenti alla qualifica di inquadramento» (conf. Cass. 10 dicembre 2009, n. 25897, Cass. 3 marzo 2016, n. 4211, ecc).
Le conseguenze di questa modifica si riveleranno, in pratica, nefaste per i lavoratori, giacché è notorio che nei contratti collettivi vengono poste nello stesso livello di inquadramento mansioni riconducibili a professionalità spesso del tutto eterogenee tra loro (es. il contabile, l'informatico, l'analista finanziario, l'ispettore commerciale, il legale di contenzioso, l'esperto in relazioni sindacali, quello di gestione risorse umane, il fiscalista e simili). Ne consegue che, in questo nuovo assetto normativo, il datore di lavoro potrebbe, accampando una presunzione pseudo legittima, richiedere al lavoratore, ad es., con professionalità giuridico-legale, di spostarsi su compiti amministrativo contabili (implicanti l'acquisizione ex novo di altra formazione professionale, auspicabilmente previa frequentazione di corsi di addestramento ad hoc), senza che lo stesso possa dissentirne, e così via per altre esemplificazioni professionali.
Merita tuttavia segnalare che, in settori in cui le Organizzazioni sindacali sono più forti, si è assistito – in taluni rinnovi contrattuali - alla non riproduzione o al ridimensionamento delle precedenti clausole di fungibilità in termini meno esasperati di quelle inizialmente apposte.
Espresse queste considerazioni critiche conviene precisare che chi scrive non è disancorato dalla conoscenza della mutevole realtà degli assetti produttivi e organizzativi aziendali, indotta da un mercato sempre più dinamico e competitivo, talché non è affatto nostro intendimento supportare un'assoluta invarianza delle mansioni dei lavoratori, a partire dall'assunzione e fino alla cessazione del rapporto.
Una simile impostazione si attirerebbe le giuste critiche di poggiare su una visione statica degli assetti produttivi e lavorativi, pertanto viziata da una irragionevole tendenza alla conservazione di professionalità suscettibili di atteggiarsi col passare del tempo a "sclerotizzate", quando le dinamiche aziendali postulano, invece, disponibilità dei lavoratori a riconversioni professionali, le quali dovranno, peraltro, avvenire senza implicare dispersione e tanto meno azzeramenti del patrimonio di competenze pregresse.
Pur non disconoscendo la sussistenza di esigenze obbiettive - documentabili e verificabili in forma circostanziata quantomeno da colui che è fatto oggetto di spostamento ad altre mansioni - che possono rendere fondata la richiesta di una disponibilità dei prestatori ad una moderata fungibilità tra mansioni omogenee e a mutamenti di compiti realizzabili tramite aggiornamento professionale che non si risolva nella costrizione all'apprendimento ex novo di una eterogenea professionalità, il vizio principale dell’operata riscrittura dell'art. 2103 cod. civ., da parte del legislatore del 2015, è ravvisabile, a nostro avviso:
a) nello studiato tentativo di disfarsi, a danno del lavoratore, del requisito dell'equivalenza “sostanziale” tra le mansioni – sostituendola con una equivalenza “convenzionale” di origine contrattuale - onde tentare di sottrarre la disposizione datoriale del loro mutamento ad una contestazione individuale del lavoratore, ora resa difficoltosa (anche se non proprio preclusa) dall’eccezione formalistica datoriale di essersi attenuto ad un rispetto “formale” delle classificazioni contrattuali (contenenti gli accorpamenti dei plurimi profili professionali) che, seppure realizzate empiricamente in intese sindacali aziendali o nazionali, appaiono essere state spacciate dal nuovo legislatore come aprioristicamente ed incontestabilmente garanti del rispetto dell'omogeneità o affinità tra tutte le plurime mansioni accorpate all’interno della stessa categoria o area, tra le quali, pertanto, attivare indifferenziatamente la mobilità (rotazione) del lavoratore nella inesatta presunzione di non incorrere in alcun rischio di demansionamento risarcibile.
5. Ulteriori modifiche
Addizionalmente la prospettata riscrittura dell'art. 2103 c.c. ha accordato al datore di lavoro - in presenza di processi di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale e negli altri casi individuati dai contratti collettivi - la possibilità di poter modificare le mansioni di un lavoratore mediante una degradazione a mansioni inferiori di non più di un livello sottostante, senza modifiche del suo trattamento economico (salvo il venir meno di trattamenti accessori legati alla specifica modalità di svolgimento del precedente lavoro).
Altra modifica peggiorativa è costituita dall'allungamento da 3 a 6 mesi dell'arco temporale superato il quale - con prestazione continuativa - il lavoratore matura il diritto all'assegnazione definitiva alle mansioni disimpegnate. Ben potendo la contrattazione collettiva, anche aziendale, fissare il suddetto arco temporale in misura superiore ai 6 mesi.
Dalla riscrittura è stato altresì previsto che addizionali ipotesi di demansionamento - eccedenti quelle rispondenti ad esigenze indotte da riconversioni e ristrutturazioni - possano essere contemplate nei contratti collettivi, anche aziendali. Ed infine (a quadratura del cerchio e con formulazione piuttosto farisaica) è stato previsto altresì che - nelle sedi legislativamente abilitate alle transazioni e conciliazioni - «possano essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita».
A quest’ultimo proposito va, peraltro, detto che anche il precedente regime consentiva talune, quantunque del tutto circoscritte, deroghe al dettato dell'art. 2103 cod. civ.., (quale risultante dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori del 1970).
Trattavasi di situazioni in cui era stata ritenuta prioritaria l'esigenza di salvaguardare beni valutati dal legislatore di rango superiore al "cambio mansioni" deteriore, quale il mantenimento, comunque, dell'occupazione (7).
In tali limitatissime ipotesi, la legittimazione al demansionamento, era ed è stata condivisa dalla stessa Cassazione, secondo cui: «costituisce principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui l’art. 2103 cod. civ. (...) non opera allorché il patto peggiorativo corrisponde all’interesse del lavoratore medesimo. Ed in effetti il diritto alla tutela della posizione economica e professionale del lavoratore deve trovare contemperamento con la tutela di altri interessi prioritari del lavoratore quale quello alla conservazione del posto di lavoro; per cui deve ritenersi legittima una interpretazione non restrittiva della disposizione anche alla luce delle maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro (8)». Ove, peraltro, alla sussistenza dei requisiti legittimanti il demansionamento si accompagnava, pur sempre, il consenso del lavoratore.
Pertanto, poiché le deteriori innovazioni apportate nel 2015 al vecchio art. 2103 cod. civ. gravitano a tutt’oggi - come già detto - su un'area dei diritti della personalità estremamente delicata, ad evitare possibili arbitri da chi esercita lo ius variandi datoriale, è necessario che venga esercitata la massima vigilanza sia da parte dei potenziali destinatari delle modifiche in peius sia da parte dei loro rappresentanti sindacali, da indirizzare sul riscontro di genuinità ed effettività delle causali legittimanti l'iniziativa aziendale (ristrutturazioni, riconversioni, necessità aziendali temporanee e simili).
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Note
1.Così letteralmente Cass. 27 maggio 1983, n. 3671.
2.Così Cass. 2 ottobre 2002, n. 14150, in Lav. prev. oggi 2003, 343. Nello stesso senso, Cass. 17 marzo 1999, n. 2428; Cass. 10 agosto 1999, n. 8577; Cass. 3 novembre 1997, n. 10775; Cass. 11 gennaio 1995, n. 276.
3. Cass. 28 marzo 1995, n. 3623; Cass. 26 gennaio 1993, n. 9319.
4. Trib. Camerino 2/4/2007, est. Basilli, in Lav. nella giur. 2007, 1044.
5 Cass. Sez. Lav. 17 luglio 1998, n. 7040, in Mass. Giur. it.,1998.
6. Conformi anche Cass. n. 13714/2015; Cass. n. 13499/2014; Cass. n. 4989/2014; Cass. n. 15010/2013; Cass. n. 20718/2013, secondo cui. «anche in tema di riclassificazione del personale, il datore di lavoro non può limitarsi ad affermare semplicemente la sussistenza di una equivalenza “convenzionale” tra le mansioni svolte in precedenza e quelle assegnate a seguito dell’entrata in vigore della nuova classificazione, ma deve procedere - s’intende per un uso corretto dello ius variandi - ad una ponderata valutazione della professionalità del lavoratore al fine della salvaguardia, in concreto, del livello professionale acquisito, e di una effettiva garanzia dell’accrescimento delle capacità professionali del dipendente».
7. Fattispecie individuate dall’art. 4, comma 11° legge 23 luglio 1991, n. 223, afferente il riassorbimento in azienda di lavoratori esuberanti, post mobilità; dall’art. 1, comma 7° e dall’art. 4, comma 4° legge 12 marzo 1999, n. 68, afferente la sopravvenuta inabilità parziale dei lavoratori allo svolgimento delle loro mansioni; dall’art. 7, 5° co., L. 151/2001, già art. 30/33 della legge n. 1204/1971, riguardante le lavoratrici madri, che durante il periodo di gestazione e sino a sette mesi dopo il parto - se il tipo di attività o le condizioni ambientali sono pregiudizievoli alla loro salute - devono essere spostate ad altre mansioni anche inferiori a quelle abituali, conservando la retribuzione precedente.
8. Cfr. per tutte, Cass. n. 18269/2006.
Prof. Mario Meucci – Giuslavorista