La questione di diritto in esame riguarda la normativa vigente in tema di concorrenza per l’ex dipendente che intende avviare una propria attività autonoma, avente un oggetto similare all’impresa con cui ha interrotto il rapporto di lavoro subordinato.
Ciò detto, occorre innanzitutto premettere che la disciplina applicabile è alquanto eterogenea e va selezionata in funzione del caso specifico effettivamente sottoposto alla nostra attenzione.
Nel caso di specie, come anzidetto, ci occuperemo di analizzare quella particolare situazione, non affatto rara, in cui un soggetto, alle dipendenze di un’azienda, per ragioni o meno da lui dipendenti, interrompe il suo rapporto di lavoro subordinato per intraprendere autonoma attività nel medesimo ambito ed in una zona territoriale prossima all’azienda abbandonata.
1. Verifica della normativa corrente in tema di concorrenza ai sensi degli artt. 2125-2596 cod. civ.
Per quanto concerne l’applicazione della normativa tesa a tutelare l’imprenditore nei confronti dell’ex dipendente infedele, il codice civile viene in soccorso con due norme cardine che tutelano l’impresa sia quando il rapporto è in essere con il proprio dipendente, sia nel momento in cui la collaborazione di quest’ultimo cessa, per volontà propria o per licenziamento da parte dell’azienda.
Ai sensi dell’art. 2105 cod. civ., “il prestatore di lavoro non deve trattare affari per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.
La norma in commento è riferita al comportamento che il prestatore di lavoro deve tenere, in ambito di concorrenza, nei confronti del proprio datore in costanza di rapporto di lavoro con il medesimo. Nel caso che ci occupa, trattandosi, semmai, di attività che verrà intrapresa soltanto in una fase successiva, detta norma non è in via di principio applicabile, benché, alcuni indirizzi sulla tematica in discorso e sull’atteggiamento del prestatore di lavoro verso il proprio ex datore, cominciano ad intravedersi.
Per quanto riguarda invece la fase successiva alla cessazione del rapporto di lavoro, il codice civile prevede altra norma ad hoc, in tutela dell’impresa, e precisamente l’art. 2125 cod. civ. volto a disciplinare il c.d. patto di non concorrenza.
La norma in commento, prevede infatti che “il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di tempo e di luogo. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata”.
Da una prima lettura della succitata disciplina, appare subito evidente come, l’eventuale patto di non concorrenza stipulato tra le parti, debba avere dei requisiti precisi per essere valido: (i) rivestire la forma scritta, (ii) essere previsto un corrispettivo, che per altro, per dominante giurisprudenza, detto corrispettivo stabilito tra le parti non può essere soltanto simbolico ma deve essere commisurato alla situazione di fatto, rendendo altrimenti il patto nullo1, (iii) deve essere limitato ad un tempo previsto per legge.
1 Cass. Civ. 4891/1988 “con riguardo alla congruità del corrispettivo dovuto in caso di patto di non concorrenza salva sempre la possibilità per il prestatore di lavoro di invocare, ove concretamente applicabili, le norme di cui agli am. 1448 e 1467 c.c. l'espressa previsione di nullità, contenuta nell'art. 2125 c.c., va riferita alla pattuizione non solo di compensi simbolici, ma anche di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiestogli rappresenta per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato. (Nella specie, il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla S.C., aveva accertato l'esistenza di un compenso di un certo rilievo duecentomila lire ogni quattro settimane più una maggiorazione non modesta delle provvigioni e quindi aveva ritenuto valido il patto).”
Nel caso esaminato, parrebbe non esserci nessun patto sottoscritto tra le parti, il che, renderebbe anche questa ulteriore previsione a tutela dell’impresa formalmente inapplicabile.
Detta normativa, viene peraltro ripresa dall’art. 2557 cod. civ., che prevede limitazioni simili in caso di alienazione dell’azienda in capo all’alienante.
Da quanto suesposto, sembrerebbe non esserci una disciplina specifica prevista dal codice civile, per il dipendente che, una volta interrotto il rapporto di lavoro, voglia intraprendere una nuova attività avente lo stesso oggetto di quella in cui prestava la propria opera, se non vi sia un patto di non concorrenza sottoscritto tra le parti, riguardando, la restante normativa, dedicata al dipendente ancora in attività presso il proprio datore di lavoro, al socio, all’amministratore o all’alienante.
2. In realtà, seppure il codice civile non detti normative specifiche per l’ex dipendente che, senza avere sottoscritto alcun patto di non concorrenza, decide di avviare un’attività similare a quella presso cui prestava la propria opera, risulta senza dubbio applicabile la più ampia disciplina in tema di concorrenza sleale, prevista dal legislatore per le imprese e gli imprenditori in generale, a tutela di una concorrenza sana, che non vada a ledere i diritti degli attori in gioco.
Non essendo infrequente, nell’attuale mercato del lavoro, casi di ex dipendenti che decidono di intraprendere un’attività imprenditoriale autonoma nel medesimo settore dell'azienda in cui avevano prestato la propria opera in qualità di lavoratori subordinati, la legge, ha previsto, anche per queste specifiche situazioni, delle tutele a difesa dell’ex datore di lavoro.
La “scorrettezza” più diffusa posta in essere dall’ex dipendente, seppur a volte in maniera involontaria, non conoscendone i confini, che in tale contesto si sviluppa, è l'abuso di informazioni aziendali riservate acquisite durante il rapporto di lavoro.
Questo insieme di informazioni di cui l'ex dipendente è, gioco forza, a conoscenza, formano senza dubbio un vantaggio competitivo, sotto forma di notizie riservate inerenti la clientela, le condizioni di vendita, gli elenchi fornitori, le strategie, i documenti tecnici e quant'altro inerente il core-business dell’azienda presso cui il nuovo imprenditore ha prestato in precedenza la propria opera in qualità di lavoratore subordinato.
Vanno ad aggiungersi i c.d. fenomeni denigratori attivati dall’ex dipendente che, a conoscenza della situazione interna dell’azienda da cui proviene, tende a divulgare informazioni screditanti per cercare di accaparrarsi la clientela ed i fornitori conosciuti durante lo svolgimento della sua attività di prestatore d’opera subordinato.
Sulle tematiche suesposte, le disposizioni in argomento sono numerose e dislocate, oltre che nel codice civile, in fonti normative assolutamente eterogene (dalla Costituzione al Codice Penale, dallo Statuto dei Lavoratori, fino al Codice della Proprietà Industriale).
Tali eterogenee normative, oltre a creare difficoltà interpretative e di riferimento alla situazione specifica, aprono la strada a numerosi contenziosi che spesso si risolvono in un nulla di fatto ma che obbligano, in ogni caso, colui che viene citato in giudizio a difendersi sostenendo dei costi.
3. Le normative che trovano applicazione in questo ambito, sono destinate a disciplinare e tutelare sia l’ex dipendente, che decide di intraprendere una nuova attività autonoma similare alla precedente svolta alle dipendenze di un’impresa, sia l’impresa abbandonata, che con l’uscita del proprio lavoratore corre un rischio, spesso più pratico che teorico, di vedersi divulgare notizie riservate a proprio svantaggio.
Sul punto, in primo luogo, a tutela dell’ex dipendente che decide di intraprendere una nuova ed autonoma attività, similare alla precedente, svolta alle dipendenze di un diverso imprenditore, vi sono i precetti di rango Costituzionale di libertà del lavoro (art. 4 Cost. “La repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la proprio scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società.”) e di iniziativa economica (art. 41 Cost. “Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”), a cui vanno, ad aggiungersi, le garanzie inerenti la legge sulla privacy, per quanto attinente la raccolta di prove su fatti asseritamente denigratori o su paventati abusi di segreto aziendale, tipicamente comprovabili solo mediante registrazioni audio-video, oppure accedendo, ad esempio, all'account e-mail aziendale dell'ex dipendente.
Parimenti, a tutela dell'ex datore di lavoro, si collocano numerose normative, tra cui, ricorrendone i presupposti, a tutela del divieto di rivelazione di segreto professionale, l'art. 622 cod. pen., ai sensi del quale “chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 30 a euro 516. La pena è aggravata se il fatto è commesso da amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci o liquidatori o se è commesso da chi svolge la revisione contabile della società (3). Il delitto è punibile a querela della persona offesa”.
4. Si aggiunga che tra gli atti di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 3. cod. civ., in quanto agire contrario al dovere di correttezza professionale, trova collocazione il concorso del (nuovo) datore di lavoro nell'inadempimento dell'obbligo di fedeltà dell'ex dipendente, laddove preordinato a carpire informazioni aziendali riservate del precedente datore di lavoro. Come si vede, si tratta di disposizioni ubicate in contesti normativi assai differenti, che, dunque, determinano problemi di coordinamento processuale in sede di giudizio.
In linea di principio, trattandosi, eventualmente, di conflitto nascente ormai a rapporto di lavoro cessato, la responsabilità che potrebbe eventualmente configurarsi è di natura extracontrattuale e riguarda, nel caso, gli eventuali illeciti commessi, appunto, dopo la cessazione del rapporto di lavoro medesimo, laddove sia certa anche l’assenza di un patto di non concorrenza sottoscritto fra le parti in conflitto.
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Ma può la concorrenza sleale prevista da normative specifiche e da fonti più ampie e generali, come quelle appena esaminate, configurarsi in assenza di patto di non concorrenza nei confronti dell’ex dipendente?
Entrando più nel dettaglio del caso di cui al presente parere, il quesito sottoposto, riguarda tre lavoratori a tempo indeterminato, ed ancora in forze presso la società Alfa, che decidono di avviare un’attività pressoché identica a quella del loro attuale datore di lavoro, costituendo nuova società operante nel medesimo settore. Ogni lavoratore comunica di non avere sottoscritto alcun patto di non concorrenza.
In una siffatta situazione, gli interessi che l’ordinamento giuridico, come sopra visto, tende a tutelare sono essenzialmente due:
a) il diritto dei lavoratori di esercitare la propria libertà di iniziativa economica, principio costituzionalmente garantito;
b) il diritto del datore di lavoro di non essere pregiudicato dalla nuova attività intrapresa dall’ex dipendente, che, con il nuovo esercizio, in forza delle conoscenze tecniche, dei know how e della trama di incontri professionali con la clientela precedentemente contratti, potrebbe pregiudicare gli affari dell’impresa abbandonata.
Come suesposto, l’art. 2105 cod. civ. prevede l’obbligo di fedeltà da parte del prestatore di lavoro, rivolgendosi, come anzidetto, al solo lavoratore in costanza di rapporto di lavoro, impedendogli di diffondere informazioni inerenti l’attività lavorativa dell’imprenditore che, nella sostanza, potrebbero seriamente pregiudicarne l’attività.
L’art. 2125 cod. civ., invece, prevede che il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.
Con riferimento al caso di specie, non sussiste quest’ultima opportunità, non essendo stato sottoscritto dai lavoratori alcun patto di non concorrenza.
Tuttavia, occorre ben precisare alcune sfaccettature dell’obbligo di fedeltà richiamato in precedenza: questo, come detto, opera in pendenza del rapporto di lavoro ma mantiene degli strascichi anche dopo la chiusura dello stesso: la giurisprudenza, infatti, in una serie copiosa di pronunce, ha ritenuto incarnante la violazione di tale obbligo anche il comportamento dell’ex lavoratore che, nonostante abbia rispettato l’obbligo quando era alle dipendenze del datore, lo abbia, invece, tradito subito dopo, tramite una serie di comportamenti atti a pregiudicare l’attività del datore.
5. Esempi tipici configuranti l’illecito di concorrenza sleale per sviamento della clientela si sono concretizzati nel comportamento degli ex dipendenti che, forti dei contatti che si erano creati nell’impresa del datore, avevano indotto i vecchi clienti del datore a cambiare, recandosi presso l’impresa da poco costituita; è stato ritenuto illecito, altresì, anche in assenza del patto di non concorrenza, il comportamento di colui che aveva utilizzato le tecniche di costruzione apprese presso la precedente azienda in cui aveva prestato la propria opera, per produrre i macchinari della ditta da poco costituita dallo stesso; è stato, altresì ritenuto contra legem, il comportamento di colei che, dopo anni di servizio presso un colosso dell’informatica, aveva fondato una piccola impresa che sistematicamente utilizzava i know how del precedente datore.
Per converso, a tutela dei suesposti principi inerenti l’iniziativa privata e quindi dell’ex lavoratore che decide di avviare una propria attività in concorrenza con quella precedentemente svolta alle dipendenze di altro imprenditore, comportamenti che, prima facie, potevano assumere i connotati lesivi vietati dalle normative sin qui esaminate, la conseguente domanda di risarcimento avanzata da parte dell’ex datore di lavoro, veniva puntualmente disattesa dal Tribunale adito, stante la non ravvisata lesione dei principi suesposti, come nel caso di colei che, terminato il rapporto di lavoro subordinato con un’impresa di pulizie, ne avviava una propria, venendo citata in giudizio dall’ex datore di lavoro per asserito sviamento di un cliente dell’impresa medesima, nella fattispecie un condominio, a favore della nuova ditta individuale costituita.2
2 Trib. Milano Sez. specializzata in materia d’impresa “A” Civile n. 7295/2015 provvedimento ai sensi del quale, parte convenuta “considerato che la doglianza ha riguardo ad un solo cliente, che la condotta censurata è stata posta in essere decorso un anno dalle dimissioni- senza cagionare alcuna interruzione del rapporto negoziale in corso tra l’attrice e il Condominio in questione- che non risultano state utilizzate informazioni riservate, che la scelta del cliente di cambiare impresa di pulizie era dettata da ragioni altre e diverse rispetto al prezzo offerto, si deve dunque concludere per il rigetto delle domande risarcitorie svolte in via principale dall’attore, che postulano l’accertamento incidentale dell’illecito concorrenziale.”
Dagli stralci di queste pronunce, appare evidente come, le violazioni poste in essere vadano valutate di caso in caso.
Pertanto, l’illecito, non si configura nel comportamento, di per sé perfettamente lecito, di costituire una nuova impresa operante nello stesso mercato della precedente presso cui si prestava la propria opera, ma laddove la nuova impresa, attui comportamenti e politiche, che danneggino materialmente l’attività del precedente datore di lavoro, sottraendogli clienti, informazioni, know how e tecniche specifiche di lavoro o quant’altro ad esse connesse.
Tanto posto, in linea generale, in tema di concorrenza sleale fra imprese, anche laddove non vi siano rapporti precedenti tra gli attori in gioco e, quindi, a maggior ragione da considerare nel caso di specie, ai sensi dell’art. 2598 cod. civ., compie atti di concorrenza sleale chiunque:
“1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;
2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente;
3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda.”
La norma sopra richiamata, pone ulteriori “paletti” a tutela di una concorrenza da svolgersi in maniera leale, imponendo alle imprese operanti nel mercato, indipendentemente da qualsiasi rapporto precedentemente sussistente tra le parti, regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuno si possa avvantaggiare nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi, con l'adozione di metodi contrari all'etica delle relazioni commerciali.
In conclusione, si verifica un'ipotesi di concorrenza sleale c.d. parassitaria, quando l'attività commerciale dell'imitatore, si traduce in un “continuo e sistematico operare sulle orme dell’imprenditore concorrente attraverso l’imitazione non tanto dei prodotti ma piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest’ultimo e riguardante comportamenti idonei a danneggiare l’altrui azienda con ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale” ( Cass. Civ. 22118/2015)
Entrando più nello specifico, nella c.d. concorrenza parassitaria, l'imitazione può considerarsi illecita soltanto se effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (nella concorrenza sleale diacronica) o dall'ultima e più significativa di esse (in quella sincronica), là dove per “breve” deve intendersi quell'arco di tempo per tutta la durata del quale l'ideatore della nuova iniziativa ha ragione di attendersi utilità particolari (di incassi, di pubblicità, di avviamento ecc.) dal lancio della novità, ovvero fino a quando essa è considerata tale dal pubblico dei clienti e si impone, quindi, alla loro attenzione nella scelta del prodotto.
Ciò, in quanto, la creatività è tutelata nel nostro ordinamento solo per un tempo determinato, fino a quando, cioè, può considerarsi originale, nel senso che, quando l'originalità si sia esaurita, ovvero quando quel determinato modo di produrre e/o di commercializzare sia divenuto patrimonio ormai comune di conoscenze e di esperienze di tutti quanti operano nel settore, essendosi così ammortizzato da parte del primitivo imprenditore, il capitale impiegato nello sforzo creativo, imitare quell'attività che, originale nel suo nascere e nel suo formarsi, si è poi generalizzata e spersonalizzata, non costituisce più un atto contrario alla correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l'altrui azienda.
Nelle ipotesi di concorrenza sleale per imitazione servile di cui all'art. 2598 n. 1 cod. civ., laddove l'imitazione riguardi forme banali o standardizzate, è priva di rilievo perché inidonea a creare confusione.
L'illiceità dell'imitazione servile non confusoria non può farsi derivare dalla pura e semplice inclusione della stessa nello schema atipico di cui al n. 3 dell’articolo in commento, atteso che, tale norma, non racchiude ipotesi complementari rispetto a quelle contemplate dai nn. 1 e 2, ma casi alternativi e diversi, dotati di una connotazione loro propria.
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A) Orbene, con riguardo al quesito sottoposto, riassumendo quanto precede, nulla vieta all’ex dipendente che non ha sottoscritto alcun patto di non concorrenza, avviare un’attività similare a quella precedentemente svolta presso l’ex impresa, purché vengano rispettati i più generali precetti normativi, tesi a disciplinare in linea generale la concorrenza, con particolare riferimento sia a norme di rango Costituzionale, volte a tutelare, per un verso, la nuova iniziativa imprenditoriale, per altro verso, l’attività imprenditoriale già esistente, con norme di carattere sia civilistico che penalistico, come meglio sopra esposto, cercando di evitare, in primis, comportamenti sistematici di imitazione del precedente datore di lavoro o tesi a screditarlo, piuttosto che sviandone la clientela con comportamenti scorretti e non conformi al regolare svolgimento della concorrenza.
B) Eventuali azioni giudiziarie.
Fermo quanto precede, sul piano giuridico-sostanziale, passando ora ad esaminare il profilo processuale afferente le azioni giudiziarie eventualmente promuovibili da parte dell’ex impresa, occorre precisare quanto segue.
Trattandosi, come anzi esaminato, di normativa particolarmente eterogenea, che va a ricoprire sia aspetti civilistici che penalistici, risulta assai arduo determinare aprioristicamente quali siano le eventuali azioni giudiziarie esperibili dall’ex datore di lavoro.
In linea di massima, all’ex datore di lavoro non è impedita alcuna iniziativa a tutela di eventuali ed asseriti abusi da parte dell’ex dipendente in tema di concorrenza sleale, tenendo però conto che, dal canto suo, l’ex dipendente che si è comportato in maniera coerente e conforme alla suesposta normativa, ha dalla sua parte numerosi strumenti a propria tutela, considerando altresì che l’onere della prova, ricade sull’ex datore di lavoro4 che dovrà produrre in giudizio, a sostegno della propria domanda, documentazione tale da provare l’asserito danno, il nesso di causalità con l’operato dell’ex dipendente, il tutto senza violare la privacy di quest’ultimo nella raccolta e produzione del materiale probatorio.
4 Cass. Civ. n. 16294/2012 “il danno cagionato dal compimento di atti di concorrenza sleale non è in re ipsa ma, essendo conseguenza diversa e ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza, richiede di essere autonomamente provato secondo i principi generali che regolano il risarcimento da fatto illecito. Ne consegue che solo la dimostrazione dell’esistenza del danno consente il ricorso al criterio equitativo ai fini della liquidazione” Cass. Civ. n. 25921/2015 (rv. 638178) “il danno cagionato, invece, non è "in re ipsa" ma, quale conseguenza diversa ed ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza, necessita di prova secondo i principi generali che regolano il risarcimento da fatto illecito, sicché solo la dimostrazione della sua esistenza consente l'utilizzo del criterio equitativo per la relativa liquidazione.” App. L'Aquila, 12/10/2012 “E' infondata, ove non adeguatamente provata, la domanda giudiziale con la quale la s.r.l. convenga in giudizio la casa automobilistica Fiat Auto S.p.A., della quale sia stata in passato concessionaria per la vendita di autovetture, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni cagionati all'istante a causa della concorrenza sleale posta in essere dalla nei suoi confronti, per aver posto in vendita le autovetture ad un prezzo inferiore a quello alla medesima praticato, nonostante ciò fosse vietato nel rapporto tra esse intercorrente. Nel caso di specie, la Fiat Auto S.p.A. si era riservata esplicitamente, la facoltà di vendere direttamente le autovetture ai propri dipendenti a prezzi scontati, secondo una prassi invalsa presso tutte le case automobilistiche; tuttavia la domanda attorea non merita accoglimento per non avere, l'istante fornito adeguata dimostrazione del fatto che la Fiat vendesse ai propri dipendenti le autovetture ad un prezzo addirittura inferiore a quello praticato alla stessa.”