Con la sentenza n. 13535 del 30/05/2018 la Corte di Cassazione interviene nuovamente in tema di requisiti dell'atto di appello che sono richiesti a pena di immmissibilità.
Il caso: A.E. proponeva due distinte opposizioni, dinanzi al Giudice di pace, avverso altrettante cartelle di pagamento, notificatele dalla società di riscossione Equitalia Sud s.p.a., ed aventi ad oggetto la riscossione forzosa del canone ordinario, del canone per eccedenza, delle sanzioni e degli interessi dovuti per la somministrazione di acqua.
Il Giudice di Pace annullava una delle due cartelle, e rigettava l'opposizione avverso l'altra; la ricorrente proponeva appello.
Il Tribunale dichiarava inammissibile l'appello per genericità, ai sensi dell'art. 342 c.p.c.. 3: il Tribunale riteneva che. per effetto della riforma dell'art. 342 c.p.c. “colui il quale intenda proporre appello non possa limitarsi a riproporre le ragioni in fatto ed in diritto già prospettate in primo grado, ma deve indicare i passi della motivazione della sentenza impugnata da censurare, le modifiche da apportare alla stessa ed esporre un progetto alternativo di sentenza”.
La sentenza viene impugnata in Cassazione: la ricorrente deduce che avrebbe errato il giudice di seconde cure nel ritenere "generico" il suo atto di gravame, dal momento che le censure in esso contenute erano chiare e chiaramente esposte.
La Suprema Corte, nell'accogliere il ricorso, ha modo di precisare i requisiti necessari di un atto di appello: preliminarmente osserva che:
il processo civile è caratterizzato da un "assetto teleologico delle norme", di cui è traccia evidente nell'art. 156, comma terzo, c.p.c., secondo il quale la nullità d'un atto processuale non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato;
da questo principio discende che, anche quando si debba giudicare dell'ammissibilità d'una impugnazione, il giudicante deve badare non al rispetto di clausolari astratti o formule di stile, ma alla sostanza ed al contenuto effettivo dell'atto;
le norme processuali, se ambigue, vanno interpretate in modo da favorire una decisione sul merito, piuttosto che esiti abortivi del processo; le regole processuali infatti costituiscono solo lo strumento per garantire la giustizia della decisione, non il fine stesso del processo;
di conseguenza, tra più ragioni di rigetto della domanda, il giudice dovrebbe optare per quella che assicura il risultato più stabile: sicché tra un rigetto per motivi di rito e uno per ragioni afferenti al merito, il giudice dovrebbe scegliere il secondo;
il diritto processuale, come quello sostanziale, non può non essere interpretato alla luce delle regole sovranazionali imposte dal diritto comunitario: tra queste vi è l'art. 6, comma 3, del Trattato sull'Unione Europea (c.d. "Trattato di Lisbona"), il quale stabilisce che "i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (...) fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali”;
tra i principi sanciti dalla CEDU vi è quello alla effettività della tutela giurisdizionale, (art. 6 CEDU); nell'interpretare tale norma, la Corte di Strasburgo (CEDU) ha ripetutamente affermato che il principio di effettività della tutela giurisdizionale va inteso quale esigenza che alla domanda di giustizia dei consociati debba, per quanto possibile, essere esaminata sempre e preferibilmente nel merito;
Pertanto, alla luce dei suddetti principi, già enunciati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 27199/2017, il giudice di appello:
a) non deve esigere dall'appellante alcun "progetto alternativo di sentenza";
b) non deve esigere dall'appellante alcun vacuo formalismo fine a se stesso;
c) non deve esigere dall'appellante alcuna trascrizione integrale o parziale della sentenza appellata o di parti di essa.