La Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 3661 del 13 febbraio 2020 è nuovamente intervenuta in tema di assegno di divorzio, prevedendo che l'importo dell'assegno possa essere ridotto qualora l'ex coniuge richiedente non si attivi nella ricerca di una propria attività lavorativa.
Venerdi 21 Febbraio 2020 |
Il caso: Il Tribunale di Roma, dichiarata la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario contratto fra L.R. e P.R., stabiliva che il L. fosse tenuto a corrispondere alla ex moglie un assegno mensile pari a Euro 4.000.
La Corte d’appello di Roma, a seguito dell’impugnazione del L. , constatava che:
a) la situazione reddituale della P. , la quale aveva lasciato il lavoro e gli studi universitari al momento della nascita del figlio in ragione di un’organizzazione della vita familiare concordata con il marito, non era tale da garantirle un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio;
b) la sperequazione reddituale e patrimoniale fra gli ex coniugi integrava pienamente l’an del diritto all’assegno in capo all’appellata, che tuttavia doveva essere quantificato tenendo come indice di riferimento le condizioni di separazione, ma considerando anche da un lato che il L. era andato in pensione e non percepiva più il cospicuo bonus di produzione in precedenza riconosciutogli, dall’altro che la P. a seguito della separazione non si era mai attivata per reperire un’occupazione ed era divenuta erede prima della madre e poi, del padre;
c) pertanto vi erano le condizioni per ridurre l’assegno di divorzio a cui la P. aveva diritto nella misura di Euro 2.000 mensili.
P. ricorre in Cassazione, lamentando, tra i vari motivi di impugnazione:
a) l’erronea interpretazione della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 6, come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, nella parte in cui afferma che la signora P. dopo la separazione 'non risulta in atti che si sia mai attivata per reperire un’occupazione';
b) la Corte distrettuale, per la ricorrente, avrebbe erroneamente operato una riduzione della misura dell’assegno dovuto in ragione della mancata iniziativa assunta dall’appellata per reperire un’occupazione, in quanto l’attitudine al lavoro assumerebbe rilievo solo se si riscontri l’esistenza di un’effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, adeguata alla qualificazione professionale e alla dignità della persona, e l’intervenuto rifiuto di una simile concreta opportunità di occupazione.
Per la Suprema Corte la doglianza è infondata, e coglie l'occasione per chiarire che:
1) il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive;
un simile accertamento investe l’eventuale rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi, in sé e sotto il profilo della dipendenza di una simile situazione dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, alla luce della durata del vincolo e delle “effettive potenzialità professionali e reddituali valutabili alla conclusione della relazione matrimoniale”;
pertanto, se la solidarietà post coniugale si fonda sui principi di autodeterminazione e autoresponsabilità, non si potrà che attribuire rilevanza alle potenzialità professionali e reddituali personali, che l’ex coniuge è chiamato a valorizzare con una condotta attiva facendosi carico delle scelte compiute e della propria responsabilità individuale, piuttosto che al contegno, deresponsabilizzante e attendista, di chi si limiti ad aspettare opportunità di lavoro riversando sul coniuge più abbiente l’esito della fine della vita matrimoniale.