Vittime della seduzione del male

Vittime della seduzione del male

L’espressione “fascino del carnefice” designa un fenomeno psico-culturale di notevole complessità, la cui comprensione e spiegazione risultano tutt’altro che agevoli.

Giovedi 6 Novembre 2025

Alla luce dei fatti di cronaca riportati quasi quotidianamente dai mass media, ci si interroga con crescente frequenza sulle ragioni che conducono a comportamenti violenti e, parallelamente, sulla mancata reazione della vittima, la quale spesso non si sottrae all’aggressore neppure di fronte alle prime avvisaglie del pericolo.

Le motivazioni di tali dinamiche sono molteplici e la loro analisi affonda le radici in riflessioni non recenti. In particolare, Friedrich Nietzsche (1844–1900) affronta la distinzione tra bene e male, individuando in quest’ultimo una forza vitale, un elemento di eccezione rispetto alla realtà ordinaria, che deve essere affrontato e superato attraverso una radicale rivalutazione dei valori umani (Al di là del bene e del male,1886).

Hannah Arendt, nel suo celebre saggio La banalità del male (1963), approfondisce ulteriormente la riflessione sulle origini del male, evidenziando come esso non derivi necessariamente da un’indole maligna radicata nell’animo umano, bensì dall’inconsapevolezza e dalla mancanza di riflessione sul significato delle proprie azioni. È proprio tale inconsapevolezza – la rinuncia a pensare criticamente e a valutare moralmente le proprie condotte – che, secondo l’autrice, costituisce la vera essenza di ciò che definisce “la banalità del male”.

Questa prospettiva offre un contributo di rilievo anche all’analisi giuridica e criminologica del comportamento umano, in quanto richiama l’attenzione sull’importanza della coscienza e della consapevolezza nell’agire, elementi fondamentali per la valutazione della responsabilità individuale. In tal senso, la riflessione arendtiana si pone in dialogo con il diritto penale, che riconosce nella capacità di intendere e di volere il presupposto imprescindibile della colpevolezza.

Numerosi sono gli autori che hanno affrontato il tema del male e della sua manifestazione nei rapporti umani. Tra questi, merita particolare menzione Albert Camus (1913–1960), il quale individua nel carnefice lo specchio oscuro dell’uomo, espressione dell’oppressione e dell’assurdità che insidiano la dignità umana.

Nella sua visione esistenzialista, il male non è soltanto una realtà esterna, ma una possibilità sempre presente nell’essere umano, il quale può smarrire il senso della misura e della giustizia quando abdica alla propria responsabilità etica.

Tale prospettiva, se trasposta sul piano giuridico, consente di riflettere sul rapporto tra libertà individuale e limite normativo: l’uomo, in quanto soggetto di diritto, è chiamato a riconoscere nel rispetto della dignità altrui il fondamento della convivenza civile.

L’agire criminoso, in questo senso, rappresenta non soltanto una violazione della norma penale, ma anche una frattura del patto sociale e della responsabilità morale che lega l’individuo alla comunità.

Analizzare il fascino del male significa indagare la complessità della natura umana, che non può essere semplicemente condannata, ma deve essere compresa e studiata nei suoi momenti di ambiguità, laddove paura e desiderio si intrecciano in modo indissolubile. Comprendere tali dinamiche non implica una giustificazione del male, bensì la necessità di coglierne le radici psicologiche e sociali, al fine di prevenirne le manifestazioni più distruttive.

In questa prospettiva, il diritto e la criminologia assumono un ruolo centrale: da un lato, il sistema giuridico è chiamato a sanzionare la condotta illecita, tutelando la vittima e ristabilendo l’ordine sociale violato; dall’altro, la scienza penalistica e la psicologia criminale devono farsi strumenti di conoscenza, capaci di penetrare nelle zone d’ombra dell’agire umano per comprendere le cause profonde del comportamento deviante.

Solo attraverso tale duplice approccio — repressivo e conoscitivo — è possibile affrontare in modo consapevole il problema del male, riconoscendo che la sua comprensione rappresenta, prima ancora che un dovere intellettuale, una condizione essenziale per la giustizia e per la tutela della dignità della persona.

In ambito criminologico, il fascino del carnefice si manifesta attraverso la costante attenzione mediatica e sociale rivolta prevalentemente alla figura del colpevole, a discapito della vittima, la quale finisce spesso per assumere un ruolo marginale, quasi ornamentale, nella narrazione dei fatti.

Tale dinamica rivela una tendenza culturale a privilegiare l’analisi psicologica, biografica e comportamentale dell’autore del reato, piuttosto che la comprensione del vissuto e della sofferenza della persona offesa.

Questa prospettiva emerge chiaramente anche nell’osservazione di recenti fatti di cronaca giudiziaria, come il caso Pierina Paganelli e il caso di Garlasco, nei quali l’interesse collettivo e mediatico si è concentrato in misura preponderante sulla figura del presunto autore, sulle motivazioni del gesto e sulle dinamiche investigative, relegando la vittima a semplice elemento funzionale alla ricostruzione del delitto.

Si tratta di un approccio che, pur animato dal desiderio di comprendere la genesi del comportamento criminale, rischia di produrre una distorsione percettiva e di contribuire a un processo di spettacolarizzazione del male, in cui il dolore reale viene oscurato dall’attrazione per l’enigma del carnefice.

Tutto ciò può determinare il cosiddetto trial by media, ossia quel fenomeno per cui la pressione mediatica finisce per incidere, in modo più o meno consapevole, sullo svolgimento del procedimento penale e, talvolta, persino sull’orientamento dei giudici.

Si tratta di una dinamica insidiosa, che tende a sostituire il processo reale con un processo mediatico parallelo, in cui l’opinione pubblica, alimentata da narrazioni giornalistiche spesso semplificate o sensazionalistiche, formula giudizi di colpevolezza o di innocenza ancor prima dell’accertamento giudiziario definitivo.

Il trial by media rappresenta, pertanto, una minaccia per i principi fondamentali del giusto processo, in particolare per la presunzione di innocenza sancita dall’art. 27, comma 2, della Costituzione e dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

La spettacolarizzazione della giustizia, favorita dall’immediatezza della comunicazione digitale e dal consumo emotivo delle notizie, rischia di alterare l’equilibrio tra diritto di cronaca e tutela della dignità delle persone coinvolte, siano esse imputati o vittime.

In questo contesto, diventa essenziale riaffermare il ruolo del giudice come soggetto terzo e imparziale, immune da condizionamenti esterni, nonché promuovere una comunicazione responsabile che rispetti i tempi e le garanzie proprie del processo penale. Solo così si può evitare che l’opinione pubblica si trasformi in una sorta di “giuria parallela”, capace di influenzare la percezione della giustizia e di minarne la credibilità.

Dal punto di vista della psicologia giuridica, fenomeni come la sindrome di Stoccolma, la romanticizzazione del carnefice, il maltrattamento, lo stalking e la violenza domestica rappresentano differenti manifestazioni di un medesimo meccanismo di manipolazione e controllo esercitato sulla vittima.

In tali dinamiche, l’aggressore agisce mediante strategie di dominio psicologico che minano progressivamente l’autonomia, la percezione di sé e la capacità di reazione della persona offesa, fino a determinarne una condizione di soggezione emotiva e dipendenza affettiva.

Si tratta, in termini psicologici, di veri e propri fenomeni di trauma bonding, nei quali la violenza si alterna a momenti di apparente affetto, protezione e cura, generando un legame patologico che condiziona profondamente la vittima e ne compromette la capacità di riconoscere l’abuso.

Tale oscillazione tra crudeltà e premura produce un vincolo emotivo che rende difficile la rottura del rapporto e ostacola l’attivazione di percorsi di denuncia o di fuoriuscita dalla relazione.

In questa prospettiva, il sociologo americano Travis Hirschi, nel suo volume Causes of Delinquency (1969), analizza il fenomeno attraverso la teoria del controllo sociale, sostenendo che il comportamento criminale è fortemente influenzato dall’intensità e dalla qualità dei legami sociali dell’individuo. Secondo Hirschi, il carnefice può esercitare fascino e potere proprio perché riesce a indebolire o recidere i legami sociali della vittima, favorendo così l’instaurarsi di comportamenti devianti e di dinamiche di dipendenza psicologica.

Tali legami sociali si articolano in quattro elementi fondamentali:

  1. l’attaccamento affettivo, ossia il vincolo emotivo che lega l’individuo alle figure di riferimento;

  2. l’impegno (commitment), inteso come investimento di tempo ed energie in relazioni o in obiettivi socialmente condivisi;

  3. il coinvolgimento (involvement), che si riferisce al grado di partecipazione alle attività socialmente accettate;

  4. la credenza (belief), cioè l’adesione ai valori e alle norme del contesto sociale di appartenenza.

Quando anche uno solo di questi legami viene a mancare, anche gli altri vengono progressivamente indeboliti — come accade nelle relazioni di dominio o abuso — l’individuo risulta maggiormente vulnerabile alla manipolazione e all’influenza del carnefice, trovandosi privo dei riferimenti sociali e morali che potrebbero sostenerlo nella resistenza o nell’allontanamento.

Si può riscontrare il fascino maligno anche all’interno del contesto carcerario, dove i comportamenti tipici del killer o dell’aggressore si manifestano in forme diversificate, dal silenzio all’autolesionismo, dalla aggressione alla seduzione. In tale ambiente, caratterizzato da costrizione e controllo istituzionale, il carnefice può comunque esercitare manipolazioni e carisma, influenzando compagni di detenzione, operatori e, più in generale, l’intero contesto carcerario.

Queste dinamiche evidenziano come il potere psicologico e la capacità di controllo non si limitino al mondo esterno, ma trovino spazio anche in contesti chiusi, dove la vittima e gli altri soggetti sono obbligati a una convivenza forzata.

Da un punto di vista criminologico, ciò conferma l’importanza di considerare non solo il comportamento deviante, ma anche le relazioni interpersonali e i meccanismi di influenza esercitati dall’individuo autore di reati.

Sul piano giuridico, tali osservazioni rafforzano la necessità di politiche penitenziarie attente alla gestione del rischio e alla tutela della sicurezza di tutti gli individui coinvolti, prevedendo interventi che contrastino la manipolazione, l’intimidazione e la creazione di gerarchie abusive all'interno dell’istituto carcerario.

In tal senso, il fascino maligno non è solo un fenomeno psicologico, ma assume rilevanza concreta anche nel diritto penale e nella criminologia operativa, richiedendo strategie preventive e correttive mirate.

Tutto ciò premesso, permette di affermare che il “male del carnefice” esercita un’attrazione inquietante, incarnando i lati oscuri dell’animo umano, spesso repressi dalla società e per questo tanto potenti e seduttivi.

Dietro ai criminali violenti si cela una complessa combinazione di fattori: bisogni psicologici profondi, piacere derivante dall’atto criminale, ribellione alle norme sociali e ricerca di autorealizzazione attraverso il potere.

Queste dinamiche sociali e individuali contribuiscono ad alimentare l’aura carismatica del killer e la curiosità morbosa del pubblico, fenomeno che trova riscontro tanto nella rappresentazione mediatica quanto nella attenzione criminologica.

In conclusione, comprendere il fascino del carnefice non significa giustificare il male, ma analizzarne le radici psicologiche, sociali e culturali, così da favorire interventi di prevenzione, tutela della vittima e gestione consapevole del fenomeno criminale, sia nel contesto sociale che in quello giuridico (rif: www.istitutopsicoterapie.com)


Iscriviti gratis alla nostra newsletter


Aggiungi al tuo sito i box con le notizie
Prendi il Codice





Sito ideato dall’Avvocato Andreani - Ordine degli Avvocati di Massa Carrara - Partita IVA: 00665830451
Pagina generata in 0.008 secondi