Premessa
I crimini d'odio, definiti, in generale, come "hate crimes", sono reati commessi nei confronti di una persona o un gruppo di persone a causa della loro appartenenza ad un gruppo sociale specifico, come, ad esempio, razza, religione, orientamento sessuale, identità di genere, etnia, nazionalità o disabilità, orientamento politico.
Giovedi 5 Giugno 2025 |
Sono reati tutti motivati da pregiudizi ed intolleranza e non si tratta, semplicemente, di un crimine commesso contro un individuo ma di un attacco alla sua identità e al gruppo di appartenenza.
Pertanto, un crimine d'odio costituisce reato tanto quanto un furto, una rapina o una aggressione, commesso contro una persona o un gruppo di persone a causa della loro appartenenza (reale o presunta) a un gruppo specifico e che può essere qualificato come un crimine d'odio se commesso con la motivazione del pregiudizio.
La motivazione di un crimine d'odio è, comunque, sempre il pregiudizio nei confronti della Vittima.
L'aggressore sceglie la Vittima in base alla sua appartenenza a un gruppo, e non a causa di un conflitto personale con l'obiettivo, non solo di causare danno alla vittima, ma anche di minare l'identità culturale, etnica o sessuale della Vittima e, con essa, del gruppo sociale di riferimento.
La presenza di un movente discriminatorio, ovvero il pregiudizio verso la Vittima, può costituire un'aggravante in molti Paesi, compresa l'Italia (v.infra).
La consapevolezza dell’esistenza dei crimini d'odio è molto importante per proteggere le minoranze e combattere la discriminazione in generale.
È anche importante la distinzone tra crimini d'odio (azioni ) e discorsi d'odio (parole).
Il discorso d'odio, anche se non sempre viene considerato un reato, contribuisce a creare un ambiente di odio e intolleranza che può portare a crimini anche gravi.
Occorre, tuttavia, evidenziare che, più di recente, tale crimine va sempre più diffondendosi nella nostra Società contemporanea ttraverso l’utilizzo dei Social in uso tra i più giovani e non solo, facendo affidamento ad una sorta di anonimato dell’offensore che dovrebbe proteggerne l’identità dell’autore dei messaggi, anche se non è così.
Si tratta del c.d.“hate speech online”che è caratterizzato dall'uso di un linguaggio offensivo e discriminatorio proprio attraverso i Social, spesso diretto a gruppi specifici, con l'obiettivo di diffondere pregiudizi, incitare all'odio e ad istigare alla violenza verso persone o cose.
Vittima di questa violenza aberrante, che non trova alcuna giustificazione, deve ritenersi anche la Premier dell’attuale Governo in carica, destinataria di minacce sul web per la propria Famiglia.
Tale fenomeno è, purtroppo, caratterizzato da:
Utilizzo di termini denigratori, insulti e stereotipi negativi per attaccare individui o gruppi speciifici.
Riduzione dell'identità delle persone a una singola caratteristica (razza, religione, genere, ecc.) e uso di questo per giustificare la discriminazione.
Invito diretto o indiretto a compiere azioni violente o discriminatorie contro i bersagli dell'hate speech Online.
Utilizzo di informazioni false o fuorvianti per alimentare pregiudizi e sostenere narrazioni discriminatorie.
Creazione di ambienti virtuali in cui le vittime di hate speech si sentono minacciate e intimidite.
L'utilizzo di piattaforme online, prive di ogni controllo, per diffondere contenuti offensivi in modo anonimo, rendendo più facile la diffusione e la perpetuazione dell'odio.
L'hate speech online può generare, così come realizzato, gravi conseguenze come:
può erodere la fiducia nella società e generare un clima di paura e incertezza.
Le vittime possono sperimentare isolamento, depressione e altri problemi di salute mentale.
può incitare alla violenza fisica e all'aggressione, sia online che diretta.
può alimentare la polarizzazione sociale e rendere più difficile il dialogo e la coesistenza nelle Comunità di appartenenza.
L’hate speech ossia i discorsi d’odio
Quest ultima fattispecie d’odio merita una analisi particolare del rapporto di specie a genere con gli hate crimes.
L’hate speech, in effetti, può essere definito, secondo le indicazioni del Consiglio d’Europa, come«qualsiasi forma di espressione che diffonde, incita, promuove o giustifica odio razziale, xenofobia, antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza».
Secondo la più recente Raccomandazione CM/Rec 2022 16 (1) (art. 1, comma 2), del Consiglio d’Europa il discorso d’odio va inteso come «qualsiasi forma di espressione mirante a stimolare, promuovere, diffondere o giustificare la violenza, l’odio o la discriminazione nei confronti di una persona o un gruppo di persone, o a denigrare una persona o un gruppo di persone per motivi legati alle loro carat- teristiche o situazioni personali, reali o presunte, quali la “razza”, il colore della pelle, la lingua, la religione, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere e l’orientamento sessuale».
La Dottrina, più recente, si è interrogata sull’opportunità dell’utilizzo dello strumento penale nel contrasto di tali fenomeni, capaci, secondo la ricerca criminologica, di creare un clima favorevole alla hate violence.
Il ricorso al diritto penale per la tutela delle Vittime d’odio, molto spesso, rischia infatti di generare un conflitto con diritti fondamentali tra i quali, nel caso dell’hate speech, la libertà d’espressione di ogni individuo.
Sotto il profilo specificamente penalistico, poi, altri problemi si pongono quanto al rispetto del principio di offensività, laddove le condotte incriminate comportino il rischio di creazione di nuovi reati d’opinione.
Tuttavia, qualora si scelga la via della criminalizzazione, ulteriori problemi sorgono quanto alla formulazione delle fattispecie poiché, molto spesso, tali incriminazioni si dimostrano in contrasto con il principio della sufficiente determinatezza della fattispecie penale incriminatrice.
Inoltre, trattandosi di reati che si distinguono in ragione del motivo d’odio che li anima, essi pongono problemi anche sotto il profilo dell’accertamento degli stessi.
In un documento dell’European Union Agency for Fundamental Rights viene affrontato il tema dell’utilizzo del diritto penale per combattere l’hate speech, ossia l’incitamento all’odio e alla discriminazione, quale crimine prodromico rispetto agli hate crimes. ed esso chiarisce come vi sia consenso unanime in seno al Consiglio d’Europa sulla necessità di garantire la promozione di una cultura della tolleranza e del rispetto e di porre in essere tutti gli sforzi per combattere l’hate speech, da intendersi secondo la definizione, già ricordata, attribuita dalla Raccomandazione n.(97) 20 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ed atttualmente dalla Raccomandazione CM/Rec 2022 16.
Viene inoltre chiarito nello stesso documento come l’hate speech non trovi alcuna tutela nell’art.10 della CEDU, che sancisce invero il diritto alla libertà d’espressione, ma che costituisce un diritto che comporta, come sottolineano i Giudici di Strasburgo, “doveri e responsabilità”anche nel settore della stampa, dell’informazione mediatica e della Rete, laddove «(…) la tolleranza e il rispetto per l’eguale dignità di tutti gli esseri umani costituisce il fondamento di una società democratica e pluralista. Così essendo, in via di principio può essere considerato necessario in certe Società democratiche punire e perfino prevenire tutte le forme di espressione che diffon dano, incitino, promuovano o giustifichino odio basato sull’intol- leranza (compresa quella religiosa), a condizione che (…) le pene inflitte siano proporzionate al legittimo fine perseguito» .
Il quadro normativo dei crimini d’odio si articola in varie norme emanate nel rispetto dei principi contenuti nella Costituzione Italiana, che sanciscono:
il principio di pari dignità sociale (art. 3), la tutela delle minoranze (art. 6), la libertà religiosa (art. 8 e 19) e il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2).
Inoltreml’art. 117,co.1, Cost, obbliga il Legislatore al rispetto dei vincoli derivanti dal diritto internazionale e comunitario tra cui va annoverata la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (ONU,1948) e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU,1950) che pongono il divieto di discriminazione come principio cardine (art. 14; Prot.n. 12).
Particolare rilevanza riveste, inoltre, la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (ICERD,1965), che fornisce una delle definizioni più complete di discriminazione razziale.
Come ricorda la Dottrina (v-L.Goisis, Crimini e discorsi d’odio nell’ottica penalistica) in Italia l’impianto antidiscriminatorio penale poggia sul disposto della c.d. Legge Reale –Mancino, benché l’Ordinamento contempli, ancora, la c.d. legge Scelba nonché la Legge 9 ottobre 1967, n. 962 di attuazione della Convenzione contro il genocidio del dicembre 1948) .
In particolare, le disposizioni penali che incriminano le discriminazioni razziali sono contenute nella Legge di ratifica della Convenzione di New York sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del dicembre 1965, la legge 13 ottobre 1975, n. 654, c.d. Legge Reale.
Invero, l’art. 3 della Legge 654/1975 ha introdotto nel nostro Ordinamento giuridico autonome fattispecie di reato caratterizzate dalla matrice razzista che sono:
la propaganda razzista, l’incitamento alla discriminazione razziale e agli atti di violenza nei confronti di persone appartenenti ad un diverso gruppo nazionale, etnico o razziale, il compimento di atti di discriminazione e di violenza nei confronti dei medesimi soggetti e, infine, la costituzione di associazioni ed organizzazioni con scopo di incitamento all’odio o alla discriminazione razziale.
Sono tutte condotte riconducibili, rispettivamente, alla nozione di hate speech e di hate crime, ossia “di discorso d’odio e crimine d’odio”.
Inoltre, una definizione dei crimini d’odio, è quella fornita dall’OSCE per la quale “sono quei crimini commessi nei confronti di determinati soggetti a cagione della loro appartenenza ad un particolare gruppo sociale, identificato in base alla razza, alla etnia, alla nazionalità, alla religione, all’orientamento sessuale, all’identità di genere”.
Il discorso d’odio, la cui definizione, più incerta, emerge dalle indicazioni del Consiglio d’Europa, per le quali va inteso come«qualsiasi forma di espressione che diffonde, incita, promuove o giustifica odio razziale, xenofobia, antisemitismo o altre forme d’odio basate sull’intolleranza»(v, Raccomandazione CM/Rec 2022 16 del Comitato dei Ministri dell’Unione europea sulla lotta all’hate speech.
Un nuovo e più incisivo intervento legislativo a carattere antidiscriminatorio, si è avuto con il D.L. 26 aprile 1993,n.122, convertito nella L. 25 giugno 1993, n. 205 (c.d.Legge Mancino), recante«Misure urgenti in materia di discriminazione raz ziale, etnica e religiosa».
Nella sua formulazione originaria, l’art.3,co.1 citato, in attuazione della disposi zione di cui all’art. 4 della Convenzione di New York, puniva con la reclusione da uno a quattro anni, salvo che il fatto costituisse più grave reato, (lett. a) «chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla su- periorità o sull’odio razziale», ovvero (lett. b) «chi incita in qualsiasi modo alla discriminazione, o incita a commettere o commette atti di violenza o di provocazione alla violenza, nei confronti di persone perché appartenenti a un gruppo nazionale, etnico o razziale».
Il testo attuale dell’art. 3, co.1, della Legge n. 654,novellato dalla Legge Mancino punisce ora:«a) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi raz- ziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».
La novella legislativa, rivolta ad una attenuazione del trattamento sanzionatorio, distingue le condotte di mera «diffusione delle idee» e di mero «incitamento alla discriminazione», punite con una pena meno grave, da quelle di incitamento alla violenza, o violenza, o provocazione alla violenza, punite più gravemente.
Viene, inoltre, dato rilievo alla discriminazione per motivi religiosi, cosicché anche l’odio religioso e i relativi crimini sono oggi puniti in maniera minore la costitu zione di organizzazioni o associazioni con le finalità di cui sopra, tra cui viene con templata anche la discriminazione religiosa.
Sono state, altresì previste, dalla novella, due nuove fattispecie di reato all’art. 2, intitolato «Disposizioni di prevenzione» in base alle quali :
«1. Chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, è punito con la pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da lire duecentomila a lire cinquecentomila. (omissis)
Soprattutto, la Legge in questione ha introdotto, all’art.3,la c.d.“aggravante dell’odio razziale” (etnico, nazionale, religioso) in base alla quale:
«1. Per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di di- scriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che han- no tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino alla metà. 2. Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’art. 98 del codice penale, concorrenti con l’aggravante di cui al comma 1, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante».
Sono state anche previste una serie di pene accessorie, sanzioni che hanno evidente finalità rieducativa, tra le quali spicca il lavoro a favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità.
Una più ampia e organica riforma dei reati di opinione, contenuta nella recente Legge 24 febbraio 2006,n.85,all’art. 13, ha ulteriormente modificato l’art. 3, co.1 della Legge n. 654/1975 in base alla quale, oltre a un’ulteriore diminuzione della pena, vengono modificati i termini della condotta penalmente rilevante poiché “è punito non più chi «diffonde in qualsiasi modo», ma chi «propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico»; non più chi «incita», ma chi «istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi», nonché alla lett. b), chi «istiga» anziché chi «incita» a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” .
Da ultimo, l’intera materia ha trovato una collocazione, nella sezione dedicata ai Delitti contro l’uguaglianza, negli artt. 604-bis e 604-ter del C.P. alla ci lettura i si rinvia per brevità di esposizione.
Alla luce del nuovo quadro, come sopra delineato, lo stesso concetto di odio razziale su cui si impernia l’aggravante di cui all’art. 604-ter c.p. andrà valutato caso per caso con particolare attenzione se le condotte contengano effettiva mente i segni di una finalità di discriminazione e di odio percepito come tale.
Sul punto, la Cassazione ha affermato che tale “aggravante sussiste allorché l’azione si manifesti come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avuto riguardo anche al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l’origine etnica o il colore e cioè di un sentimento immediatamente percepibile come connaturato alla esclusione di condizioni di parità”.
La stessa Corte ha sottolineato come non può considerarsi sufficiente una semplice motivazione interiore dell’azione, ma occorre che essa, “per le sue caratteristiche intrinseche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti come intenzionalmente diretta e almeno potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri il suddetto sentimento di odio o comunque a dar luogo, in futuro, o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori per ragioni di razza, nazionalità, etnia o religione “.
Per completezza va ricordato che anche il Testo Unico sull’immigrazione (D.Lgs. 286/1998) e la normativa antidiscriminatoria (L.216/2003) hanno recepito le Direttive Europee ampliando la tutela contro le discriminazioni basate su razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, disabilità, età e orientamento ses suale.
Infine, in attuazione della Direttiva 2012/29/UE (“Direttiva Vittime”), è stata riconosciuta alla Vittima di crimini d’odio una “condizione di particolare vulnerabilità” da cui discendono specifiche garanzie procedurali (art. 90 quater CPP.).
Tuttavia, nonostante l’ampiezza delle fattispecie protette dal quadro normativo, alcune aree rimangono ancora scoperte:
la disciplina penale italiana, ad es., non prevede una specifica aggravante per i reati fondati su orientamento sessuale o identità di genere, spesso sussunti nella ’aggravante dei motivi abietti (art. 61, n. 1 c.p.).
L’assenza di una disciplina organica sui “discorsi d’odio online” rappresenta, inoltre, una sfida crescente, a cui si tenta di rispondere con il Protocollo addi zionale della Convenzione di Budapest sulla criminalità informatica (2011) non ancora ratificato dall’Italia.
Infine, fenomeni come l’under-reporting (tendenza delle vittime a non denunciare) e l’under-recording (mancato riconoscimento della matrice discriminatoria da parte delle Forze dell’Ordine) ostacolano un’efficace azione repressiva e preventiva.
Da quanto innanzi esposto, risulta chiaro come l’ambiente digitale alimenti sempre più manifestazioni di pensiero violente, banalizzate e socialmente condivise.
Questo accade perché la Rete e i Social media, in generale, sono diventati anche strumenti che amplificano ciò che accade fra le persone e, spesso, ciò che accade nella vita reale.
In tale ottica appare sempre più urgente la necessità educativa di pensare al digitale come ad una possibilità per iniziare un ripensamento dell’essenza stessa della funzione educativa perché i media digitali realizzano anche«saperi multi mediali, perfettibili e condivisi», come sostiene la Dottrina più autorevole.
Vedere nella Rete delle nuove opportunità educative vuole anche dire considerare il sapere in una prospettiva più ampia nel cui ambito la relazionalità e l’affettività si coordinano con la conoscenza.
Una scuola sostenibile è pertanto una scuola che prende in considerazione la natu ra sistemica delle competenze, non riconducibile alla sola dimensione cognitiva ma estesa alle componenti motivazionali, affettive, metacognitive…
Pur riconoscendo l’imprescindibile e primaria funzione di trasmissione culturale della scuola, risulta emblematico ripensare la progettazione curricolare e didattica nel segno della sostenibilità per valorizzare come altrettanto importante e forma tiva la dimensione comunitaria e solidale.
Occorre comprendere come la scuola possa rappresentare uno dei luoghi formativi per eccellenza per realizzare percorsi formativi in grado di orientare i giovani verso le dimensioni della prossimità, dell’altruismo e dell’empatia.
Uno degli obiettivi dell’Agenda 2030,posta a base della innovazione educativa, fa riferimento alla necessità di una educazione equa e inclusiva, che sia in grado di dare a tutti opportunità di apprendimento.
Questa sfida può essere affrontata dal mondo dell’educativo mettendo a disposizione dei saperi che, coordinandosi con il digitale, permettano di individuare metodi e strategie per creare percorsi formativi adatti alla complessità della società attuale.
In tale senso la relazionalità, essendo una delle dimensioni della Rete più significative da un punto di vista sociale, si pone anche, per gli educatori, come una delle dimensioni su cui riflettere maggiormente.
Le giovani generazioni, infatti, hanno la libertà di decidere sia a quali parti del proprio network collegarsi, sia scegliere con quali modalità connettersi agli altri.
La Rete, puntando sulla comunicazione di gruppo, come settore essenziale del suo funzionamento, evidenzia una grande differenza, rispetto al passato, poiché gli individui oggi gestiscono moltissimi legami sociali, sostenuti con grande facilità dalle opportunità di gestione offerte dalle tecnologie.
La relazionalità, dunque, si pone come una dimensione complessa poiché da una parte può alimentare situazioni di odio online ma dall’altra, se saggiamente orientata dagli adulti di riferimento, può spingere i giovani verso la necessità di confrontarsi per riflettere sull’approfondimento di situazioni e contenuti.
Un altro documento importante che focalizza l’attenzione sulla funzione educativa della scuola in relazione ad un uso corretto delle tecnologie, è il Programma di Educazione Civica Digitale che risale al 2018.
Nel documento si fa riferimento sia all’educazione ai media, ovvero come educare gli studenti allo sviluppo di azioni e comportamenti consapevoli quando navigano in Rete, sia all’educazione all’informazione, cioè come spingere i giovani a riflet tere criticamente sulle dinamiche che animano, ad esempio, la rapida diffusione di fake news e di information cocoons.
Ecco perché gli ambienti digitali, essendo diventati luoghi di incontro dove si creano relazioni e si realizzano vere e proprie comunità, necessitano di solide strategie educative che insegnino a comprendere e analizzare criticamente quali siano le loro regole di funzionamento.
Queste considerazioni sull’esigenza di una saggezza digitale che possa ispirare il mondo della scuola si rifanno alla necessità educativa di realizzare strategie pedagogiche flessibili, immaginate, cioè, per rispondere a quelle specifiche realtà nelle quali chi si occupa di educazione deve agire per coordinare le dinamiche relazionali che contraddistinguono l’hate speech Online.
Tali strategie educative devono porsi come una vera e propria sfida per contenere le tante forme di violenza che oggi animano le relazioni umane anche perché i giovani, soprattutto in riferimento a quella sorta di “inconsapevolezza” che spesso li spinge ad aderire a manifestazioni di hate speech, dimostrano di non possedere i mezzi cognitivi per affrontare i cambiamenti sociali, culturali e antropologici che attraversano, oggi, la conoscenza e l’esperienza.
Da qui scaturisce la necessità di investire anche su forme di educazione che possano svilupparsi in modi diversi dalla didattica tradizionale, proprio perché questa consapevolezza possa rappresentare una utile risorsa per tutti, dalle istituzioni ai cittadini.
L’analisi dei crimini d’odio impone un approccio interdisciplinare, che tenga conto della dimensione filosofica, psicologica, sociologica e giuridica del fenomeno. L’odio, in quanto costruzione sociale e culturale, può essere decostruito solo attraverso il rafforzamento degli strumenti legislativi, la promozione di una cultura dell’empatia e la responsabilizzazione dei media e delle istituzioni.
Come ammonisce una Relazione alla Camera dei Deputati:“L’escalation dell’odio nasce dalla frustrazione, dalla disinformazione e dalla mancanza di consape volezza del fatto che i diritti umani sono universali e sono riconosciuti a tutti gli esseri umani indistintamente” (Camera dei Deputati,2017, p. 15).
La sfida è dunque quella di promuovere una Società inclusiva, in cui il ricono scimento dell’altro sia fondamento di civiltà, e la repressione dei crimini d’odio non rappresenti mera sanzione, ma un efficace strumento di tutela della dignità umana e della coesione sociale.