La Corte di Cassazione nell'ordinanza n.1282/2019, affronta nuovamente la problematica connessa all'accertamento del “danno parentale” e dei presupposti per la sua risarcibilità.
Venerdi 25 Gennaio 2019 |
Il caso: La Corte d'appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dopo avere disposto una nuova CTU per valutare i postumi di un grave incidente avvenuto presso il chiosco X allorchè a T.R. veniva servito un bicchiere contenente "topazio forte liquido per lavastoviglie" (contenente soda caustica) in luogo del bicchiere d'acqua ordinato, così statuiva:
rideterminava nella misura del 33% i postumi per danno biologico permanente ricevuto, anzichè nel 55/0 rilevato dal CTU nominato in prime cure, ritenendo che i gravi inconvenienti determinati dalla stenosi esofagea, esito della cicatrizzazione delle ustioni subite all'esofago, erano stati in parte risolti con un intervento di ricostruzione dell'esofago;
rivalutava nella misura di 70 gg e 387 gg la invalidità temporanea permanente e parziale, anzichè in 150 gg e 450 gg rilevati dal primo CTU, e ciò sulla base della documentazione prodotta;
escludeva anche l'invalidità lavorativa generica, stimata dal primo CTU nella misura del 15%, posto che non vi erano evidenze di un ritardo nel conseguimento della laurea da parte della vittima, all'epoca studente della facoltà di giurisprudenza iscritto fuori corso, al quale mancavano pochi esami, nè tantomeno di una menomata capacità lavorativa;
riconosceva le spese mediche sostenute sulla base della documentazione tempestivamente prodotta;
escludeva il danno parentale per i genitori e la sorella conviventi di T.R. in quanto riteneva che si fosse trattato di un disagio transeunte e non definitivo, e quindi rientrante nella sfera dei doveri di solidarietà familiare, pertanto non incidente sulla relazione con il proprio parente per il futuro.
Proposto ricorso per Cassazione, i parenti della vittima denunciano violazione o falsa applicazione dell'art. 2059 c.c., art. 2056 c.c., comma 1, art. 1223 c.c., art. 116 c.p.c. per avere omesso di considerare un fatto decisivo, ovvero la sussistenza di un danno riflesso "di rimbalzo" dei congiunti che hanno assistito la vittima per un periodo di oltre tre anni.
La Suprema Corte, nel ritenere infondata la doglianza, osserva quanto segue:
nell'ambito della discrezionalità che gli è propria, il Giudice del merito ha ritenuto che, in mancanza di più specifiche allegazioni, la sofferenza nel vedere il proprio familiare improvvisamente gravemente colpito e sofferente a causa dell'altrui grave negligenza, siano tutti fattori in grado di scatenare disagi, oneri e sofferenze condivise con quelle del proprio caro, non incidenti, nel rapporto familiare, oltre il livello di esigibilità connesso ai doveri di solidarietà familiare;
il danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto leso in modo non lieve dall'altrui illecito, può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva, che deve essere cercata anche d'ufficio, se la parte abbia dedotto e provato i fatti noti dai quali il giudice, sulla base di un ragionamento logico-deduttivo, può trarre le conseguenze per risalire al fatto ignorato;
pertanto, ove manchi il supporto di una seppur minima allegazione, la mera titolarità di un rapporto familiare, in mancanza di ulteriori elementi di prova, non può essere considerata sufficiente a giustificare la pretesa risarcitoria, occorrendo di volta in volta verificare in che cosa il legame affettivo sia consistito e in che misura la lesione subita della vittima primaria abbia inciso sulla relazione fino a comprometterne lo svolgimento;
peraltro, il danno morale "parentale" non può essere certamente confuso con gli oneri patrimoniali che i parenti hanno sostenuto nel periodo preoperatorio.
Cassazione civile Sez. III Ordinanza n. 1282 del 18/01/2019