La Corte di Cassazione con la sentenza n. 22664/2015 conferma l'orientamento prevalente in materia di interessi e rivalutazione monetaria su debiti di valuta.
Giovedi 12 Novembre 2015 |
Brevemente: la controversia de quo ha ad oggetto la risoluzione di un contratto preliminare di compravendita di un immobile stipulato tra le parti per colpa del promittente venditore, con conseguente condanna di quest’ultimo al risarcimento del danno; avverso la sentenza di appello il promissario acquirente propone ricorso per cassazione, lamentando, tra i vari motivi, che la Corte territoriale non ha riconosciuto la rivalutazione monetaria sulla somma che parte convenuta è stata condannata a restituire all’attore (in conseguenza della pronuncia di risoluzione del preliminare).
In particolare la Corte non avrebbe tenuto conto che, nelle obbligazioni pecuniarie, il maggior danno ai sensi dell’art. 1224 comma 2 cod. civ. è riconoscibile anche in via presuntiva allorché il tasso medio di rendimento annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali.
La Corte di Cassazione ritiene infondata la doglianza e conferma quanto già statuito in precedenti pronunce: infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, condivisa dal Collegio, l’obbligo restitutorio relativo all’originaria prestazione pecuniaria (anche in favore della parte non inadempiente) – conseguente ad una pronuncia di risoluzione del contratto per inadempimento – ha natura di debito di valuta e, come tale, non è soggetto a rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior danno – da allegarsi e provarsi dal creditore – rispetto a quello soddisfatto dagli interessi legali, ai sensi dell’art. 1224 cod. civ. (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 5639 del 12/03/2014, Rv. 630187).
Nelle obbligazioni pecuniarie, infatti, prosegue la Cassazione, il fenomeno inflattivo non consente un automatico adeguamento dell’ammontare del debito, né costituisce di per sé un danno risarcibile, ma può implicare – in applicazione dell’art. 1224, secondo comma, cod. civ. – solo il riconoscimento in favore del creditore, oltre che degli interessi, del maggior danno che sia derivato dall’impossibilità di disporre della somma durante il periodo della mora, nei limiti in cui – tuttavia – il creditore medesimo deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre quegli effetti economici depauperativi che l’inflazione produce a carico di tutti i possessori di denaro (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 255 del 11/01/2006, Rv. 586609).
Sul punto, le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di precisare che il creditore di una obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l’onere di domandare il risarcimento del ‘maggior danno’ ai sensi dell’art. 1224, secondo comma, cod. civ., e non può limitarsi a domandare semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest’ultima una conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta (Sez. U, Sentenza n. 5743 del 23/03/2015, Rv. 634625).
Peraltro, nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224, secondo comma, cod. civ. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali, fermo restando l’onere del creditore – che domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato – di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva (Sez. U, Sentenza n. 19499 del 16/07/2008, Rv. 604419).
Nel caso di specie, però, il ricorrente non ha assolto l’onere in quanto, pur censurando la sentenza impugnata per la mancata liquidazione del maggior danno ai sensi dell’art. 1224 cod. civ., non ha allegato e trascritto le sue deduzioni contenute nell’atto di citazione in primo grado e nell’atto di appello, in modo da consentire alla Corte di verificare che, con riguardo alla sua pretesa restitutoria, non si fosse limitato a proporre domanda congiunta di interessi e rivalutazione monetaria (come se si trattasse di un credito di valore), ma avesse anche allegato (e successivamente provato) il maggior danno da svalutazione monetaria.