Riflessioni sul criterio “Oltre ogni ragionevole dubbio”.

Avv. Nadia Gentili.
Riflessioni sul criterio “Oltre ogni ragionevole dubbio”.
Sabato 27 Aprile 2024
  1. Le Radici storiche

possono essere rintracciate nell’epoca greco-romana, nella teologia morale del Medioevo, nei fondamenti filosofici della ragione e dell'illuminismo.

Successivamente, questa frase era intesa a rassicurare il giudice ed i giurati negli ordinamenti di common law sul fatto che potevano condannare l’imputato senza rischiare la propria salvezza a patto che i loro dubbi sulla colpevolezza non fossero ragionevoli.

Tutt’oggi serve a ridurre al minimo le possibilità che una persona innocente venga condannata, tuttavia, le posizioni assunte dagli studiosi sul suo significato e sulla corretta applicazione sono tutt’altro che armoniche e nonostante esista già un’ampia e finissima letteratura in merito e possa sembrare improbabile che ci sia ancora altro da dire sul postulato giuridico e si è alla continua ricerca di un consenso largo sull’interpretazione migliore, quantomeno accettabile.

Rigorosamente l’esistenza di un dubbio, non importa quanto esso sia leggero, dovrebbe indurre il giudice ragionevole ad assolvere, sebbene il criterio della ragionevolezza gli suggerisca di basare la sua decisione sull’analisi di tutte le prove disponibili e a far seguire la dichiarazione di responsabilità penale soltanto laddove il saldo probatorio sia tale da escludere ipotesi alternative idonee a superare la soglia probabilistica di condanna.

Ovviamente la valutazione delle prove non è totalmente libera ma si basa sull'osservanza dei principi e criteri decisionali caratterizzanti il nostro procedimento giudiziario, tra cui quello in “dubio pro reo” che impone al giudice di assolvere l’imputato in presenza di dubbi rimanenti. Chi indaga ed accusa deve provare ogni elemento del reato (onus probandi incumbit ei qui dicit) con prove che convincono fermamente e non lasciano alcun ragionevole dubbio in favore o sfavore dell’mputato.

Il postulato "in dubio pro reo", costituisce un corollario del favor rei, che impone la pronuncia di una sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato l’ha commesso, che il fatto costituisce reato, che il reato è stato commesso da persona imputabile (art. 530 c.p.p.); ovvero quando sussiste una causa di non punibilità (art. 129 c.p.p.) o qualora nella deliberazione della sentenza, in caso di parità di voti, prevale l’opinione più favorevole all’imputato (art. 527 c.p.). Tutto ciò nel rispetto del principio generale del giusto processo, quale quello complessivamente delineato in Costituzione e, in particolare, della presunzione di innocenza. La presunzione di non colpevolezza – o se si preferisce, il principio del nulla poena, nulla culpa sine iudicio – è il principio fondamentale su cui si fonda l’equo processo: la persona imputata non potrà essere condannata fintanto che la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata in contraddittorio.

Il principio della presunzione di innocenza, che si estende ad ogni fase del processo, è uno dei principi più importanti dei diritti umani (L'articolo 11, paragrafo 1, della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (UDHR) recita: "Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa"; L’art. 6 paragrafo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) prevede che “Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”); L'articolo 27 co.2 della Costituzione italiana stabilisce che «l'imputato non può essere considerato colpevole fino alla decisione definitiva del giudice»; L'articolo 533, co. 1 del codice di procedura penale recepisce tale principio stabilendo che «i giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli "al di là di ogni ragionevole dubbio"». L'articolo 530 co.2 del codice di procedura penale stabilisce che l'imputato deve essere assolto se le prove mancano, sono insufficienti o contraddittorie a dimostrare la sua colpevolezza, sottintendendo al di là di ogni ragionevole dubbio; L’art. 530 co. 1 del codice di procedura penale sotto la rubrica “formule di assoluzione” enuclea infine le ipotesi mancanti dell’elemento oggettivo (se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso); quelle scriminate per l’effetto di una causa di giustificazione (se il fatto non costituisce reato); casi di abolitio criminis prodotta o da una legge di riforma o anche da una sentenza della Corte Costituzionale (non è previsto dalla legge come reato); situazioni in cui viene meno l’imputabilità del reo (se il reato è stato commesso da persona non imputabile); infine quelle di non punibilità (non punibile per un’altra ragione).

I giudici devono rendere conto pubblicamente delle loro decisioni e la loro credibilità richiede una sapiente combinazione di elementi: l’applicazione delle norme di legge, la discrezionalità, il controllo del materiale probatorio e la motivazione. Il processo decisionale non è soltanto norma, ma esperienza ed intuizione, attività intrinsecamente costruttiva ed è basato sulla motivazione, vale a dire sul ragionamento delle prove disponibili per le quali occorre cercare le relazioni causali ed intenzionali con le circostanze fattuali.

Ai fini decisionali nulla può esser tralasciato, persino l'ordine in cui le prove vengono presentate ed analizzate durante la celebrazione del processo è rilevante. Non basta ricostruire il fatto storico e tener conto della sua bontà occorre altresì evitare una sopravvalutazione delle informazioni disponibili oppure una sottovalutazione delle prove a discarico od ancora di polarizzare i dati raccolti che possano portare ad uno spostamento di coerenza.

Una base fattuale incompleta, l’incompatibilità con le prove disponibili, la dicotomia tra i fatti formanti il processo e la persuasione di una posizione dovrebbero far sì che il giudice non si limiti ad illustrare le ragioni utili a dimostrare l’interpretazione logica più sfavorevole ma anche i motivi per cui un’eventuale opzione interpretativa favorevole all’imputato non possa plausibilmente prevalere.

Occorre tener presente che la plausibilità narrativa del racconto ipotizzato dal pubblico ministero precede sempre la presentazione di quello della difesa, dominandola, pertanto, per essere credibile, necessita di un quadro probatorio più snello rispetto a quello di cui necessita la tesi difensiva, la quale potrebbe addirittura vedersi ribaltata la situazione a seguito del vecchio trucco dell’inquirente che tenta di spostare il proprio onere sull’accusato.

La pronuncia di condanna dell’imputato alle spese processuali in forza di una motivazione secondo la quale qualora non fosse intervenuta l’archiviazione la condotta posta in essere dal reo avrebbe molto probabilmente comportato la sua responsabilità penale, pur in totale assenza di accertamento formale senza che questi possa aver esercitato il proprio diritto di difesa in ordine all’imputazione, viola senz’altro il principio della presunzione di non colpevolezza in quanto si fonda su false convinzioni.

Anche quando le prove prese in considerazione dal pubblico ministero possano far sembrare probabile la colpevolezza non vuol dire che il livello da esse raggiunto sia sempre soddisfacente potendo l’imputato sovrapporre agli elementi del capo di imputazione ulteriori dati idonei a reindirizzare la scelta della criminalizzazione e a creare vuoti nell’accusa.

In altre parole chi è accusato di un comportamento penalmente rilevante non può essere ritenuto responsabile semplicemente sulla base di presupposti che non siano in grado di dimostrare la colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio e se l’accusa non soddisfa questo elevato onere della prova, il solo in grado di assicurare all’imputato di ricevere un processo equo, condannerebbe sulla base di prove non corroborate anteponendo un tipo di vittima ad un altro tipo di vittima non giustificato né giustificabile. Si pensi ad una falsa accusa di reato domestico o sessuale che può rovinare carriere e reputazioni, può stigmatizzare socialmente l’accusato in maniera permanente, creandogli un danno culturale e finanziario e di riflesso alla sua famiglia quando l'etichetta di "molestatore sessuale" o "stupratore" viene falsamente applicata.

L’art. 190 del codice di procedura penale afferma “Le prove sono ammesse a richiesta di parte. Il giudice provvede senza ritardo con ordinanza escludendo le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti”. Questo comporta che spetta alle parti ricercare le fonti, valutare la necessità del mezzo di prova a sostegno della propria tesi e chiederne al giudice l’ammissione, ad eccezione di quelle ammissibili d’ufficio i cui casi sono giuridicamente disciplinati.

La presunzione di innocenza è uno dei pilastri non negoziabili, insieme al principio del contraddittorio e di quello secondo cui tutti dovrebbero essere uguali davanti alla legge. Essere accusati di un reato è un'accusa, niente di più. Di per sé ed in assenza della celebrazione di un giusto processo, non è una prova di colpevolezza.

  1. Il criterio “oltre il ragionevole dubbio” come rafforzativo delle garanzie dell’equo processo.

E’ indubbio che la regola in questione sia considerata un motivo di orgoglio per le democrazie e pietra angolare per la giustizia penale. Dunque, tutt’altro che un inutile orpello, anche se all’indomani dell'entrata in vigore della Legge n. 46/2006 era riscontrabile da parte di alcuni autori della dottrina, ma anche nelle prime sentenze della Corte di Cassazione, una certa propensione a negare un vero valore innovativo al criterio espresso nell'articolo 533 co. 1 del codice di procedura penale per essere lo stesso già enunciato nell’art. 530 co. 2 del codice di procedura penale secondo cui: “Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”.

Gradualmente si è fatta strada una diversa interpretazione che ravvisa in esso un valore fortificativo delle garanzie fornite dal processo equo, un paradigma di razionalità rispetto all’iter logico seguito dal giudicante per individuare un esito probatorio insufficiente o contraddittorio sì da consentirgli di giungere ad una decisione non vincolata alla sua mera percezione soggettiva o lasciata alla buona coscienza di ciascun giudice.

E’ stato anche sostenuto che l’applicazione di detto criterio potrebbe comportare il rischio di una neutralizzazione delle accuse o, per converso, l’obbligo di emettere una sentenza di condanna tutte le volte che le prove ottenute lascino fuori solo la remota possibilità che l’affermazione della responsabilità penale non trovi la minima convalida rispetto alle risultanze processuali. Tuttavia, a ben riflettere, l'aggettivo "ragionevole" non equivale di per sé a restringere il campo di valutazione piuttosto ad ampliarlo di modo da lasciar pochissimo spazio a dubbi reali.

L’errore più frequente da parte degli inquirenti è l'approccio esplicativo dei fatti. I resoconti probabilistici spesse volte si concentrano sul prodotto finale della decisione piuttosto che sul processo per arrivarci. Questo li espone ad errori possibili.

Se è vero che non esiste una procedura penale che porti ogni volta alla conclusione corretta in modo oggettivo ed imparziale in quanto non si può esser certi sempre di non aver trascurato nulla, altrettanto vero è che soltanto sciogliendo tutti i nodi sulle ricostruzioni fattuali e giuridiche antagoniste e sulle prove è possibile avere un adeguato controllo sull'eventuale esposizione alternativa in grado di portare all'esclusione di un margine di "ragionevole dubbio" sulla colpevolezza dell'imputato.

Orbene, la regola contenuta nell’art. 530 co. 1 del codice di procedura penale funge, per l’appunto, da guida per l'esercizio del potere discrezionale del giudice definendo i limiti entro i quali tale potere deve essere esercitato affinché sia schivato l’abuso di discrezionalità dinanzi ad un dubbio “onesto e reale”, non un dubbio immaginario, sulla colpevolezza dell'imputato.

E’ evidente che una procedura che elimini tutti gli errori soddisferebbe il duplice interesse di proteggere gli innocenti e di punire i colpevoli senza generare conflitti tra i due ma pur in presenza di un quadro probatorio apparentemente schiacciante di colpevolezza il criterio della ragionevolezza suggerisce al giudice di vagliare adeguatamente (in maniera completa ed equa) le prove presentate verificando la catena dei ragionamenti dalle prove alle ipotesi.

In diritto un'ipotesi è una proposizione da dimostrare ("factum probandum") ed in linea di principio può essere dimostrata vera o falsa (ad esempio, in un caso di omicidio l'accusa deve dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che la vittima è morta; che è stato un atto illecito a causarne la morte; che l'imputato è l’autore del fatto criminoso; che l'imputato ha agito con dolo o colpa). Ordinariamente, la proposizione principale (l’accusato è colui che ha cagionato la morte della vittima) ricomprende tutta una serie di ulteriori proposizioni ognuna delle quali deve essere dimostrata per giungere alla decisione finale. La loro dimostrazione richiede il superamento dei dubbi che da esse possono scaturire attraverso inequivocabili giustificazioni per ogni collegamento di ragionamento.

La prova della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio è una prova che deve lasciare fermamente convinti tutti della colpevolezza dell'imputato da non avere alcun ragionevole dubbio sull'esistenza di “qualsiasi” elemento del reato o sull'identità dell'imputato come persona che lo ha commesso evitando che la decisione si basi su speculazioni infondate o possa essere influenzata da pregiudizi (soggettivi e/o oggettivi).

  1. Peso probatorio e giudizio di probabilità.

Come è noto, il processo penale è actus trium personarum caratterizzato dalla dialettica tra le parti davanti ad un giudice indipendente (in medio cognoscens) di talché l'onere probatorio a carico dell’accusa si aggiunge alla necessità di confutare le spiegazioni contrarie della difesa anche quando non siano supportate da prove solide.

Visto che il peso della prova non può essere espresso né misurato in termini di grammi o qualsiasi altra misura fisica precisa andrà rappresentato in termini di probabilità e soppesato rispetto ai possibili effetti pregiudizievoli scaturenti dalla condanna di responsabilità penale. Tutto questo lo richiede l’insieme delle garanzie procedurali e sostanziali le quali oltre a migliorare la credibilità del processo di accertamento della verità servono a ridurre il rischio che un innocente possa essere giudicato colpevole ed un colpevole possa restare impunito.

Normalmente, nella vita di tutti i giorni le persone gestiscono in automatico le possibilità di errore, senza pensarci esplicitamente facendo semplicemente leva sulla personale evidenza, ma quando le possibilità di errore riguardano fatti processuali e la libertà personale è necessario vagliare il livello di dettaglio del materiale probatorio e ciò che influenza la forza di ciascuna di esse.

Più l’interrelazione delle prove raccolte è salda, vale a dire tale da rappresentare una catena di anelli in piena armonia, più sarà lineare per il giudice giungere alla conclusione che l’imputato abbia con una probabilità molto affidabile commesso il reato oggetto dell’imputazione. Viceversa, laddove sia configurabile l’esistenza di un’ipotesi alternativa che non abbia la caratteristica di una mera possibilità logica o di un'ipotesi ad hoc ma il carattere della razionalità pratica e della fattibilità e le prove raccolte risultino pertinenti e rilevanti, non rimarrà che assolverlo.

Generalmente il peso delle prove varia a seconda della loro tipologia, ad esempio per quelle scientifiche dovranno essere soppesati gli studi positivi esistenti rispetto a quelli precedenti giudicati metodologicamente meno validi oppure più linee di prova e metodologie interpretative consolidate che racchiudono meta-analisi, criteri causali e di qualità specifici, schemi di ponderazione qualitativi e quantificativi.

Molti tipi di prove forensi, dalle impronte digitali all'analisi delle macchie di sangue all'identificazione delle armi da fuoco, non sempre sono supportate da un controllo scientifico accurato a monte e successivamente in sede di conservazione che le renda indiscutibili. Le stesse tecniche forensi potrebbero sollevare dubbi sostanziali sull'adeguatezza delle prove raccolte.

Per quanto concerne quelle umane (la testimonianza) il peso potrebbe variare a seconda della credibilità ed affidabilità del dichiarante, della sua capacità di dimostrare il fatto materiale ovvero offrire l'informazione utile per rispondere a una questione rigorosa da affrontare. E così il suo peso dipenderà ad esempio dalle informazioni già note al testimone; dalla sua capacità di osservazione degli eventi e circostanze oggetto della testimonianza; dal suo disinteressamento al risultato ovvero intento speculatorio e di parte; dalle qualifiche specifiche e conoscenza degli argomenti oggetto del suo esame; dal tipo di atteggiamento e contegno espressi durante la testimonianza.

Il peso di una prova non va confuso con la sufficienza della prova. L'insieme delle prove relative a un fatto contestato è considerato "sufficiente" se il suo peso cumulativo giustifica la constatazione dell'esistenza del fatto. La valutazione della sufficienza richiede l'esercizio di un giudizio che varia da caso a caso. L’importante è che ogni prova venga soppesata alla luce di tutte le prove disponibili e delle questioni da decidere. La valutazione delle prove, infine, deve essere in linea con la visione di una giustizia equa e di un giusto processo. Alle prove può essere attribuito un peso pieno, un peso parziale, un peso maggiore o minore rispetto ad altre prove o nessun peso. In definitiva, i pesi delle varie prove saranno utilizzati per determinare se l'onere della prova può ritenersi soddisfatto oppure meno in relazione a ciascun elemento giuridico-fattuale del processo.

Non è necessario che un elemento probatorio sia direttamente collegato ai fatti oggetto di discussione nel processo. Si pensi al caso in cui gli inquirenti s’imbattano in una prova oggettiva che potrebbe rafforzare un’ipotesi di sospetto e aggravamento della posizione dell’imputato, rilevando sulla decisione dell’autorità (ad esempio una foto pubblicata sui social network dell'imputato o terza persona che mostra quest’ultimo in rapporti amicali con altri sospettati) che quantunque inferiore a causa di una correlazione indiretta con i fatti processuali, potrebbe tuttavia essere ritenuta tutt’altro che irrilevante unitamente alle altre disponibili.

Il peso delle prove potrebbe variare anche in conseguenza di altri fattori che possono minare in tutto o in parte il processo di formazione e raccolta della prova e riflettersi sull’accuratezza e veridicità delle informazioni in essa contenute. Si pensi alle prove artatamente formate (documenti falsificati, immagini ritoccate, campioni di sangue confusi, manipolazione delle registrazioni, errori di trasmissione, cause varie di interruzione della catena di custodia che ne garantiscano l’autenticità) oppure frutto di un mal funzionamento del dispositivo per generarle (si pensi ai rilevatori della velocità di un veicolo o di un apparecchio di registrazione, di videosorveglianza) idoneo a compromettere l’ "affidabilità" della prova per errori di misurazione e stima statistica del dato acquisito.

L’art. 192 co. 1 del codice di procedura penale stabilisce che “il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”.

Se è pur vero che al giudizio di colpevolezza non è mai possibile conferire una certezza assoluta ma un grado di probabilità più o meno sostanziale, altrettanto vero è però che tale "probabilità" non è meramente quantitativa (somma algebrica degli elementi probatori) ma scaturisce da una relazione logica tra i dati raccolti disponibili e le accuse da verificare. Dinanzi ad un certo quadro probatorio l’esaminatore dovrebbe chiedersi se le informazioni raccolte siano nella loro univocità in grado di condurre ad una condanna dell’accusato oppure di scagionarlo perché significativamente incomplete e non esaurienti lo spazio delle probabilità possibili.

Persino il medico che dinanzi a certi sintomi stima la probabilità che il suo assistito abbia una certa patologia è consapevole che la sua diligenza non può arrestarsi lì ma dovrà approfondire la causa prescrivendo al suo paziente ulteriori esami e test diagnostici i quali non sono di per sé infallibili se non vuole che l’originaria probabilità resti congelata al punto di partenza portandosi seco i dubbi reali.

Questo non è un sintomo di incapacità o eccessivo scetticismo, semplicemente che l’oggetto dell’analisi richiede prove più forti del necessario per trovare un alto grado di conferma della colpevolezza.

Si pensi all’ipotesi dell’uccisione di una donna all’interno della propria abitazione avvenuta con un corpo contundente simile ad un martello mentre dalle sommarie informazioni emerge che il presunto colpevole è sprovvisto di alibi e che il giorno dell’assassinio si era recato a casa della vittima per chiederle la restituzione di un prestito non pagato. Indubbiamente tali elementi potrebbero già condurre l’interprete ad un’ipotesi plausibile di colpevolezza dell’indiziato ma il principio del giusto processo ed il criterio dell’oltre ogni ragionevole dubbio imporrà all’accusa di cercare e vagliare ulteriori prove quali ad esempio il referto autoptico ed altre evidenze scientifiche, se vi è stata effrazione, l’esistenza di impronte digitali e di scarpe. Soltanto l’insieme di tutti gli elementi acquisiti, ove convergenti verso il sospettato, potrebbe condurre il giudice a ritenere raggiunta una certa affidabilità di colpevolezza. Viceversa, anche ove un solo elemento probatorio fosse divergente con la ricostruzione giuridico-fattuale di colpevolezza lo scenario prospettato originariamente lascerebbe aperta la porta ad altre plausibili ipotesi da verificare non raggiungendo la soglia di ragionevolezza richiesta dal nostro ordinamento penale.

Il rapporto di probabilità con altre ipotesi alternative non sempre attiene ad uno scenario unico ed univoco. Si pensi al caso in cui viene accertato che il proiettile che ha ucciso la vittima sia stato sparato da una pistola automatica calibro 32 che l’accusato portava con sé quando è stato fermato. Il quadro probatorio potrebbe caratterizzarsi da una iniziale linearità o peso probatorio in termini probabilistici. Tuttavia, la probabilità che il proiettile che ha ucciso la vittima sia stato sparato dalla persona sospettata non esclude la possibilità che ad uccidere possa essere stato qualcun altro che poi ha abbandonato l’arma raccolta dal fermato. La forza probatoria delle due proposizioni dipenderà dalla massa di prove che il processo riuscirà a generare. Alcune prove potrebbero avere una forza probatoria debole, altre più forte, altre ancora una forza probatoria provvisoria, fintantoché non emergeranno ulteriori elementi, oppure una forza per così dire sfocata o di copertura ad altre prove.

Ogni fonte di dubbio rappresenta un anello della catena di ragionamenti che andrà a formare la decisione. Ogni elemento raccolto fornisce qualcosa di prezioso in termini di rapporto di probabilità ma non è detto che ci dica tutto per raggiungere la soglia fissata dalla legge lasciando indefinite le teorie plausibili disponibili per ciascuna parte. Si pensi all’ipotesi che una piccola quantità di cocaina venga trovata in una macchina della polizia, incastrata tra lo schienale del sedile posteriore e la parte inferiore, pochi istanti dopo che un fermato, ammanettato con le mani dietro la schiena, era salito a bordo. Non vengono tuttavia accertate tracce di cocaina sulle mani o sui vestiti dell’arrestato e precedentemente su quel sedile aveva seduto un altro fermato, anch’egli ammanettato nelle stesse modalità. In tal caso, l’assenza di prove necessarie a carico dei due fermati si riducono di fatto ad alcuni indizi che non hanno la qualità necessaria per sorreggere un’imputazione frettolosamente imbastita, pertanto nel rispetto del principio in dubio pro reo e del criterio oltre “ogni ragionevole dubbio” entrambi i fermati andrebbero senz’altro ritenuti non penalmente responsabili.

L’art. 187 del codice di procedura penale ai co. 1, 2 e 3 prevede che “Sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all'imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza”; che “Sono altresì oggetto di prova i fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali”; che “Se vi è costituzione di parte civile sono inoltre oggetto di prova i fatti inerenti alla responsabilità civile derivante dal reato”.

L’art. 189 del codice di procedura penale prevede che “Quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona”.

Nessuna pronuncia dovrebbe mai sacrificare la presunzione di innocenza perché equivarrebbe ad ammettere una debolezza fondamentale del sistema penale tutt’altro che uniformato alle tutele e garanzie sul piano dei diritti fondamentali.

  1. La testimonianza delle persone “protette” nel complesso delle garanzie processuali.

La percezione delle persone, come è noto, è altamente fallibile e la capacità di ricordare con precisione l’aspetto di uno sconosciuto con cui si è avuto una brevissima interazione è molto bassa. Alcuni risultati scientifici hanno evidenziato che i testimoni oculari invitati ad identificare un sospettato da una scaletta o da una foto sbaglia in circa il 20% dei casi di riconoscimento. A ridurre la capacità identificativa possono concorrere diversi fattori quali: la presenza di un'arma, le condizioni di scarsa luminosità dei luoghi, un travestimento dell’autore del fatto criminoso, l’assenza di familiarità col sospettato, la sensibilità all’osservazione del teste, la capacità obiettiva di rievocare determinate circostanze fattuali, la brevità temporale d’interazione con l’autore del crimine. Anche la razza potrebbe acutizzare il problema delle identificazioni errate. Insomma, la credibilità di un testimone è sempre una possibile fonte di dubbio e si può rendere una testimonianza equivoca del tutto involontariamente.

Ad incidere sullo standard qualitativo delle sentenze penali, oltre ai suddetti fattori, vi sarebbe anche il c.d. ridimensionamento del diritto dell'imputato di controinterrogare efficacemente alcune categorie di testimoni che dichiarano contro di lui testimonianze protette, vale a dire persone fragili, vulnerabili, minori, malati di mente, testimoni di giustizia, testimoni anonimi (come gli agenti sotto copertura).

L’esigenza di tutelare queste categorie di persone dagli effetti pregiudizievoli che potrebbero derivare dal confronto dialettico in giudizio comporta un’attività di controllo da parte del giudice tra cui la selezione delle domande ammissibili che saranno calibrate in ragione delle specifiche e diversificate esigenze di protezione richieste, di modo da escludere quelle ritenute lesive o fuorvianti. Al contempo però restringere quest’attività di controllo, oltre a tradursi in un netto aumento del livello di complessità dell’esame condotto dal difensore dell’imputato, rischia di precludere a quest’ultimo la possibilità di approfondire alcuni punti controversi utili nel caso specifico e di ottenere dichiarazioni qualitativamente meno attendibili perché troppo condizionate dalle esigenze di tutela. Si pensi all’esame testimoniale di un minorenne o di persona offesa in condizione di particolare vulnerabilità che abbia già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio o in dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, ovvero dichiarazioni i cui verbali sono stati già acquisiti. Il loro esame è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengano necessario sulla base di specifiche esigenze. Oppure si pensi ai casi in cui l'esame della persona ritenuta fragile/vulnerabile venga effettuato attraverso uno specchio di vetro in una stanza separata collegata tramite citofono (c.d. “udienza schermata”). Non vi è dubbio che le risposte rese ed i tratti paralinguistici che l'accompagnano vengono mediati rendendo impossibile cogliere certune sfumature del discorso.

La perplessità che la prova, negli esempi citati, si formi davvero nel pieno contraddittorio, ai sensi dell’art. 111 co. 3 della Costituzione italiana, è più che giustificata.

“Nel processo penale la legge assicura che la persona accusata di un reato... abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore.

Le garanzie riconosciute dal nostro ordinamento all’accusato, operanti lungo tutto l'arco del procedimento, ivi comprese le eventuali fasi, sia incidentali che di impugnazione, tanto di merito quanto do legittimità, mirano a far sì che ad accusa e difesa sia riconosciuta una posizione di parità. L’esigenza di tutelare chi rende il suo contributo attraverso la testimonianza non dovrebbe mai collocare in una posizione di svantaggio l’imputato costretto a fronteggiare un interrogatorio disagevole ed incompleto, incidente significativamente sul diritto di difesa.

Con ciò non si vuole sostenere che si assiste ad una minore affidabilità in astratto dei testimoni protetti, purtuttavia il pericolo che le dichiarazioni da essi rese possano non essere autentiche è verosimile. La normativa italiana è ancora carente in termini di controlli sull’attività di testare la vulnerabilità di un soggetto determinato ed i criteri per detta valutazione forniti a livello europeo (e recepiti dal legislatore italiano) sono alquanto generici e lasciano eccessiva discrezionalità al giudicante.

Conclusioni.

Oggi il concetto di "ragionevole dubbio" deve fare i conti con le evidenze scientifiche, che tendono a superare l'esperienza comune e richiedono basi più solide per la decisione di colpevolezza. Questo dovrebbe da un lato rassicurarci poiché lo spazio rimanente all'incertezza dovrebbe andarsi a restringere in favore di una tutela giurisdizionale più effettiva, dall’altro lato, però, si è detto che elevandosi il livello probatorio le stesse autorità potrebbero trovarsi in difficoltà a dimostrare una violazione delle norme penali, ciò a maggior ragione se si considera che anche la scienza può fallire e far diventare il processo il luogo in cui gli esperti e tecnici rivelano le lacune di quelle stesse discipline che dovrebbero invece orientare correttamente le decisioni dei giudici penali.

Si è visto nei paragrafi precedenti che nel sistema del contraddittorio la possibilità di alternative non concepite ma sufficienti a far scattare le garanzie del giusto ed equo processo potrebbe dipendere da varie ragioni, quali la qualità dell’indagine, la difficoltà del caso e del problema scientifico da esaminare, la raccolta di abbondanti informazioni che potrebbero adombrare le ipotesi rilevanti a favore di quelle irrilevanti inducendo in errore gli inquirenti, le facoltà immaginative di questi ultimi o, viceversa, la loro eccessiva scrupolosità, l’esorbitante dogmaticità degli scienziati in un dominio, il lasso temporale dedicato alla ricerca di ipotesi alternative.

Forse la forbice degli errori potrebbe ulteriormente ridursi se lo Stato fosse in grado di assicurare un apparato giudiziario proattivo, dotato di sufficienti forze operative ed investigative, di mezzi e strumenti adeguati e, da ultimo, uno svolgimento ordinato di processi e udienze.

Tuttavia, quand’anche le criticità si riducessero al minimo e il progresso scientifico-tecnologico compisse ulteriori spiccati salti in avanti l’elenco dei fattori che possono contribuire a condanne ingiuste potrebbe non esaurirsi a quelli elencati cui vanno aggiunti i limiti umani e conoscitivi.

Se è vero che una falsa assoluzione è meno costosa di una falsa condanna allora il giudicante dovrebbe assolvere ogniqualvolta non gli è possibile credere di non aver trascurato nulla a discarico dell’accusato, in dubio pro reo.

Bertrand Russell affermava che "Nessuna delle nostre convinzioni è del tutto vera, tutti hanno almeno una penombra di vaghezza ed errore. L’unico modo per avvicinarsi alla verità è quello di non dare mai per scontata la certezza".

Per quanto alta ed affidabile possa apparire la probabilità di un’ipotesi di colpevolezza essa a ben riflettere contiene in sé sempre un chiaroscuro che malgrado tutto connoterà un dato processo e quando una premessa appare indefinibile il tentativo di definirla diventa ambiguo. A questo punto compito del giudice è di decidere responsabilmente evitando derive soggettivistiche, facendo tutto il possibile per non cadere egli stesso vittima delle proprie false rappresentazioni e della sensazione che la sua regola di prova sia l'unica praticabile.

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