La recente normativa sulla parità retributiva uomo-donna

Prof. Mario Meucci.
La recente normativa sulla parità retributiva uomo-donna

1. Cenni di sintesi

Sulla Gazzetta ufficiale n. 275 del 18 novembre 2021 è stata pubblicata la legge 5 novembre 2021, n. 162, intitolata “Modifiche al codice di cui al d. lgs. 11 aprile 2006 n. 198, e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo”, frutto della sintesi di diverse proposte di legge, avanzate dal 2018 ad oggi. 

Martedi 23 Novembre 2021

Tale provvedimento è composto da 6 articoli.

L'art. 1 prevede che il Consigliere o la Consigliera nazionale di parità sottoponga, ogni due anni, al Parlamento una relazione che esprima un giudizio valutativo sull'applicazione della legge.

L'art. 2 individua ulteriori casi di discriminazione sul lavoro rispetto a quelli già previsti, includendo tra le forme di "discriminazione indiretta" anche gli atti di natura organizzativa e oraria delle aziende, che - nel caso delle lavoratrici con figli - possono limitare la loro progressione di carriera.

L'art. 3  estende alle aziende con più di 50 dipendenti (in precedenza erano quelle con più di 100), l'obbligo di redigere il cd. “rapporto” sulla situazione delle pari opportunità e delle retribuzioni, nel quale le aziende dovranno indicare (in forma anonima) la consistenza numerica dei lavoratori e delle lavoratrici occupate, le differenze tra gli stipendi, l'inquadramento contrattuale, le mansioni. Dovranno essere indicati anche i metodi di reclutamento del personale e le misure per la conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita. E' prevista una multa per chi non trasmette i dati o fornisce informazioni non veritiere.

Possono redigere il precitato rapporto, anche le aziende più piccole, con meno di 50 dipendenti, tuttavia su base volontaria, senza alcun obbligo come ricorrente, invece, per quelle dimensionate oltre i 50 dipendenti. Le aziende cd. “trasparenti” beneficeranno della menzione sul sito del Ministero del lavoro.

L'art. 4  dispone che – a far data dal primo gennaio 2022 - verrà istituzionalizzata la cd. "certificazione delle parità di genere". Si dispone e si anticipa che i parametri minimi per ottenere la certificazione (afferenti alla retribuzione, alle opportunità di carriera e alla conciliazione fra tempi di lavoro e tempi di vita) verranno stabiliti successivamente, comunque a breve.

L'art. 5  prevede che le aziende che otterranno la “certificazione di parità di genere”, avranno accesso a sgravi contributivi in ambito previdenziale (con un massimo di 50 mila euro all'anno), con una dotazione complessiva di 50 milioni di euro.

L'art. 6  stabilisce che queste norme sono da applicarsi anche alle società controllate da pubbliche amministrazioni (non quotate).

La legge, dunque, introduce una certificazione, accompagnata da un beneficio di natura economica, volto a premiare quelle aziende che documentino di aver rispettato e diffuso buone pratiche in materia di pari opportunità.

2. La preesistente normativa paritaria e antidiscriminatoria

L’obbiettivo primario che la recentissima normativa si ripropone (unitamente ad altri di natura paritaria ed antidiscriminatoria), è l’eliminazione o la riduzione dello svantaggio retributivo – connotato da supposta natura discriminatoria, volontaria o di fatto, cioè diretta o indiretta – tra i guadagni dei prestatori di lavoro di sesso maschile e quelli di sesso femminile. Quello, cioè a dire, di combattere il cd. “gender pay gap” (acronimo GPG) o “gender wage gap” (che più correttamente dovrebbe qualificarsi “gender earnings gap”).

Le rilevazioni statistiche – effettuate a livello macroeconomico, afferenti al semplice raffronto tra la massa salariale guadagnata dalla compagine nazionale dei lavoratori maschi e quella guadagnata della compagine nazionale delle lavoratrici femmine, carenti di qualsiasi indagine (sulle) o specificazione delle causali del divario riscontrato – evidenziano senza dubbio la sussistenza di uno svantaggio (cd. Gap) a danno delle donne, divario che, peraltro, mentre nei Paesi dell’Unione europea raggiunge la soglia di circa il 14,1%, vede l’Italia meritoriamente (in senso comparativo) attestarsi sul 4,7% (1).

Nel nostro Paese - che è uno dei più avanzati sul tema della legislazione sulla parità di trattamento ed antidiscriminatoria – i principi generali di essa, si trovano codificati in numerosi atti normativi. In primis :

- nell’art. 3 della nostra Costituzione che, al comma 1°, così dispone: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»;

- nell’art. 37, sempre della nostra Costituzione, che afferma: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione».

In successione temporale, si registrano:

- la Legge n. 903 del 9/12/1977 (titolata, Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), tramite cui il Parlamento italiano dispose l’uguaglianza del trattamento economico sia per lavoratori che per lavoratrici che svolgono la stessa mansione (principio recepito in tutti i contratti collettivi di lavoro) e vietò qualsiasi forma discriminatoria fondata sul sesso, per quel che riguarda l’accesso al mondo del lavoro;

- la Legge n. 125 del 10/4/1991 (dal titolo, Azioni positive per la realizzazione della parità uomo – donna nel lavoro), che introdusse e istituì il “Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici”;

- Il D.lgs. n. 198 dell’11/4/2006 (titolato, Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), avente lo scopo di contrastare tutti quei comportamenti discriminatori basati sul sesso che vanno a compromettere e impedire il riconoscimento e l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico e sociale. L’articolo 28 di tale decreto riprende quello che è l’articolo 141 del Trattato di Amsterdam del 1977 (2), che previde che gli enti pubblici e le aziende private con oltre 100 dipendenti (dalla nuova legge in commento abbassato a 50), fossero tenuti alla predisposizione di un rapporto, da redigere almeno ogni 2 anni, riportante la situazione del personale maschile e femminile in relazione alle assunzioni, alla formazione, ai licenziamenti nonché l’effettiva retribuzione corrisposta e percepita dalle due compagini di prestatori (di cui viene garantito l’anonimato). Venne previsto, altresì, che tale rapporto venisse, poi, trasmesso alle rappresentanze sindacali e alla consigliera e al consigliere regionale di parità.

Ed è sul contenuto di questo articolo 46 che si è innestata la nuova legge del 2021, effettuandone un aggiornamento e dotandolo di maggiore incisività e cogenza (tutta da verificare, peraltro, alla prova dei fatti).

Ai provvedimenti innanzi sopracitati, hanno fatto seguito:

- il D.lgs. n. 216 del 9/7/2003 (dal titolo, Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro);

- la Legge n. 120 del 12/7/2011 (titolata, Modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria), afferente la parità di accesso agli organi di amministrazione e controllo delle società quotate in mercati regolamentati, tramite cui si è inteso tutelare la parità di genere nell’accesso ai predetti organi delle società quotate in mercati regolamentati, con lo scopo di riequilibrarne la consistenza, a favore delle donne. Concretizzando, sostanzialmente, la richiesta delle cd. “quote rosa”, tramite l’obbligo secondo cui, nella composizione dei Consigli di Amministrazione, almeno un terzo degli amministratori eletti debba essere del genere meno rappresentato, accordando poi alla Consob la facoltà di diffida e di sanzione, al riscontro di inosservanza di tale obbligo.

3. Necessità o superfluità del provvedimento?

Numerose sono le causali (omesse nelle rilevazioni statistiche a livello macroeconomico) del “divario retributivo” tra le compagini lavorative dei due sessi – divario riscontrato a livello macroeconomico, non già a livello individuale – oggettivamente svantaggioso per il genere femminile, ma, con larga probabilità, insuscettibile di essere qualificato acriticamente discriminatorio e/o ascrivibile a responsabilità esclusiva in capo alle aziende. Parimenti, per bilanciamento, va detto che non può qualificarsi superfluo l’impegno, anche a livello normativo – tipico dell’attuale nuova legge - teso ad annullare o ridurre incisivamente tale divario, atteso che qualsiasi sforzo compiuto, nella direzione di un miglioramento della condizione delle appartenenti al genere femminile, risulta pienamente apprezzabile e meritorio di sfociare in concreta realizzazione.

Conviene, tuttavia - a questo punto - dissipare un perdurante quanto strumentale equivoco comodamente mantenuto dagli enfatizzanti il cd. “gender wage gap”, facendo rilevare che, nel nostro Paese, il divario svantaggioso tra le retribuzioni dei prestatori dei due sessi, non esiste a livello individuale, in quanto in qualsiasi azienda che applichi i contratti collettivi stipulati quantomeno (ma non solo) dalle Organizzazioni sindacali Cgil-Cisl-Uil (cd. Confederali), il trattamento retributivo della donna è – a parità di mansione e livello di inquadramento categoriale - del tutto identico a quello del collega maschio.

Il riscontro e l’enfatizzazione del “gender wage gap” è, quindi, conseguenza di statistiche che pongono a raffronto la massa salariale/stipendiale guadagnata della compagine dei lavoratori maschi con la corrispondente guadagnata dalla compagine delle lavoratrici, astraendosi da un raffronto a livello individuale e da un’analisi non superficiale delle eventuali causali, che potrebbe evidenziare, invece, la sussistenza di ragionevoli giustificazioni idonee a fugare l’asserita qualificazione ed intenzionalità discriminatoria.

La conseguenza di queste statistiche, come già detto tutt’altro che analitiche, è l’emersione del cd. “gender earning o wage gap”, che, oltre ad essere originata da molteplici fattori socio-economici, può essere spiegata, secondo gli autori di diversi rapporti o studi, (non solo ma anche) sulla base di diverse causali, quali le seguenti:

a) dal riscontro che la più elevata massa stipendiale risultante dalla sommatoria dei guadagni della compagine dei lavoratori maschi rispetto a quella della compagine delle lavoratrici femmine, dipenderebbe dal fatto che gli uomini, di norma, tendono, per coerenza con gli studi di prevalente natura tecnico-scientifica compiuti, ad occuparsi in aziende che applicano CCNL con trattamenti salariali più remunerativi di quelli delle aziende in cui tradizionalmente si impiegano le donne, che hanno effettuato, di preferenza, studi umanistici. I primi, ad esempio, li ritroviamo di preferenza in aziende chimiche, petrolifere, energetiche, siderurgiche, ecc., le seconde, prevalentemente, in aziende di servizi, del commercio, nel settore dell’insegnamento, dell’assistenza infermieristica e della cura delle persone, notoriamente applicanti al personale dipendente CCNL con trattamenti tabellari meno remunerativi. Conviene, per correttezza, tuttavia precisare che l’inserimento occupazionale delle donne in tali settori - caratterizzati da trattamenti retributivi comparativamente deteriori - non sempre risponde a scelta volontaria, ma talora (o spesso) è conseguenza di una serie di condizionamenti riposanti su resistenti e non condivisibili incrostazioni culturali in ordine ai ruoli di genere;

b) dal fatto – si dice ancora - che la massa stipendiale guadagnata dalle lavoratrici è complessivamente inferiore a quelle del lavoratore, anche in ragione delle minori ore lavorate, rispetto a quest’ultimo. Si fa rilevare, in diversi studi, come la donna – anche perché onerata da lavori di cura e assistenza familiare che non sono ancora equamente ripartiti con il coniuge/compagno/convivente in ambito familiare – fruisce del part-time molto di più del lavoratore maschio, così come risulterebbe meno disponibile ad effettuare lavoro straordinario, notturno e simili, tramite le cui indennità l’uomo accresce, invece, il suo stipendio mensile. Da uno studio recente risulterebbe che tra i lavoratori (uomini) a tempo pieno, il 25,1% lavora più di 41 ore settimanali e il 5,8% più di 60 ore, contro rispettivamente il 14,3% e il 2,5% delle lavoratrici. A determinare una misura inferiore dei guadagni delle lavoratrici rispetto ai lavoratori militano, altresì, le riduzioni indennitario/retributive della loro busta paga, correlate ai periodi di astensione per maternità;

c) dal fatto, si fa rilevare, che il lavoratore maschio, - anche per effetto della responsabilità di rivestire, di norma, il ruolo di capofamiglia, che lo spingerebbe a tentare di assicurare ai componenti una convivenza sempre migliore dal lato economico - non rifuggirebbe (e, si dice, a differenza della donna), dal traguardare maggiori stipendi, rendendosi disponibile a trasferte e trasferimenti, accompagnati da diarie e laute forme di cd. rimborsi spese o, addirittura, o dalla ricerca di passaggi dall’azienda di prima occupazione ad altre più solide e più remunerative, che gli offrono anche maggiori prospettive di carriera;

d) dal fatto – si evidenzia ancora - che il lavoratore maschio sarebbe non solo più audace nei cambiamenti di lavoro, ma anche più abile nel negoziare trattamenti retributivi più elevati - sia nella stessa azienda sia in altre nelle quali non esita a spostarsi - mentre la donna sarebbe più acquiescente e disposta ad accontentarsi della situazione occupazionale e stipendiale fruita (anche per la consapevolezza o la mera aspettativa che l’introito economico primario per la famiglia è assicurato, normalmente, dal compagno) o, comunque, nella donna non si riscontrerebbero queste propensioni o analoghe caratteristiche.

Pertanto, a fronte di non disinteressate enfatizzazioni del “gender pay gap” e del cd. “soffitto di cristallo” (crystal ceiling) - da cui si dice che le lavoratrici vengono schiacciate e rese incapaci di infrangerlo - si registrano altresì posizioni più realistiche e/o pragmatiche (quali quelle reperibili in uno studio del Department of labor degli Stati uniti, intitolato “An analysis of reasons for the disparity in wages between men and women”), che giungono anche alla «conclusione inequivocabile che le differenze nella remunerazione tra uomini e donne sono il risultato di una moltitudine di fattori e che i dati grezzi sul wage gap non dovrebbero essere usati per giustificare un’azione correttiva. Infatti, potrebbe non esserci nulla da correggere. Le differenze che troviamo nei dati grezzi degli stipendi potrebbero essere quasi del tutto il risultato delle scelte individuali dei lavoratori e delle lavoratrici».

E’ una conclusione che non ci sentiamo di condividere nella sua assolutezza ma che, comunque, merita di essere riferita perché evidenzia come l’opposta posizione sostenitrice di una inconfessabile discriminazione a danno delle donne, non sia né l’unica né quella incontestabilmente veritiera.

Una volta evidenziata l’innegabile identità dei trattamenti tabellari per gli stessi inquadramenti e le stesse mansioni sia del lavoratore che della lavoratrice – assicurati dai CCNL applicati in azienda – gli enfatizzanti il cd. “gender pay gap”, ripiegano nell’attribuire il differenziale retributivo all’erogazione dei superminimi e/o premi individuali che le aziende, tramite i responsabili di direzione o settore (cd. preposti), assegnerebbero, di preferenza se non in esclusiva, ai collaboratori di sesso maschile piuttosto che alle collaboratrici, senza una evidente o condivisibile ragione meritocratica. L’addebito appare, invero, poco realistico quando – per comune esperienza – appare più credibile sostenere che, all’opposto, sono beneficiarie di trattamenti di favore, id est non meritocratici, piuttosto le collaboratrici, stante la notoria cedevolezza del dirigente maschio a quelle o a quella che gli sa fare gli occhi dolci, inducendolo a sorvolare sull’eventuale modestia delle capacità e delle attitudini.

Si sostiene, poi, che concorrerebbe altresì a strutturare e/o ad accrescere il divario retributivo fra i due sessi, la preferenza accordata dai datori di lavori ai dipendenti di sesso maschile nelle promozioni e/o avanzamenti di carriera, come apparirebbe desumibile dalla presenza numerica nettamente superiore dei collaboratori maschi, rispetto alle femmine, nelle posizioni dirigenziali o apicali delle aziende. La risultanza matematica non può essere messa in discussione, ma il persistere di questo trend (di origine o retaggio patriarcale, come è stato detto) anche in epoca moderna - seppure con graduali attenuazioni che auspichiamo risultino nettamente più consistenti nel prossimo futuro - lascerebbe presumere, a detta di diversi commentatori, che ci possa essere pure una ragione del fatto che, per conferire gli incarichi nei ruoli decisionali aziendali, l’imprenditore o i consigli di amministrazione abbiano optato o optino più per gli uomini che per le donne. E’ stato ipotizzato, non irragionevolmente, che ciò possa essere dipeso per il riscontro, nel collaboratore di sesso maschile, di doti decisionali più solide, ovvero di una maggior “grinta” (reale o presunta) nelle contrattazioni commerciali, di una maggiore resistenza allo stress lavorativo (indotto da frequenti viaggi e da orari eccedenti l’ordinario), in raffronto alla collaboratrice di sesso femminile.

A conclusione, la recente legge così come non merita l’enfatizzazione ricevuta dai media, al tempo stesso si sottrae alla qualificazione di superfluità, in quanto del tutto apprezzabile se non altro per l’intento condivisibile di perseguire l’obbiettivo di una tendenziale e sostanziale equalizzazione delle condizioni lavorative dei prestatori d’opera dei due sessi, necessaria eminentemente sul versante occupazionale che registra una carenza femminile da colmare in tempi piuttosto rapidi.

Altresì meritorio risulta l’obbiettivo che si è riproposta, volto a prevenire e/o a reprimere - sottoponendoli al riscontro esterno sindacale e delle consigliere di parità – comportamenti gestionali aziendali sconfinanti nell’arbitrio incontrollato, tramite favoritismi, benefici economici e di carriera clientelari e/o comunque immeritati.

Dubbi si esprimono, tuttavia, sull’idoneità a conseguire i risultati, ad opera delle rinnovate griglie cartacee (i cd. rapporti riepilogativi degli assetti retributivi dei lavoratori dei due sessi) che le aziende non esiteranno a qualificare come addizionali “lacci e laccioli di natura burocratica” alla discrezionalità gestionale dell’imprenditore e, dei quali, in un modo o nell’altro, cercheranno di vanificare la cogenza o di liberarsi.

Non vanno poi sottaciute le ipotizzabili controindicazioni, rinvenibili nell’ipotesi non astratta che - in ordine ai supermini o premi economici (utilizzati eminentemente dalle aziende quali benefici alternativi alle risicate promozioni) - i gestori assumano la determinazione di non erogarli più a nessuno, giusto per sottrarsi al fastidio di doverli giustificare ad organismi terzi (consigliera di parità e/o sindacati), percepiti come controllori poco o per niente graditi.

Infine, per quanto concerne le promozioni a capo di settori, divisioni, direzioni, dipartimenti, dovrebbe, ragionevolmente, auspicarsi che esse risultino non già il frutto di una libera ed incontrollata scelta gestionale aziendale ma la conseguenza di una verificata osservanza di regole/procedure regolamentari autonome o convenute in sede sindacale nei CCNL o nei contratti aziendali, in modo da occasionare quelle che la Cassazione qualifica “promozioni procedimentalizzate” per merito comparativo (e non a scelta libera), le sole sindacabili giudizialmente per un riscontro di correttezza o di annullamento, in caso contrario. Al riguardo, in carenza pressoché totale di autonome regolamentazioni o procedure aziendali di segno etico – come è dato riscontrare nella stragrande maggioranza delle aziende industriali del Paese - appare indispensabile, altresì, un impegno sindacale volto a conseguire nei Ccnl formulazioni contrattuali astringenti e limitative dell’attuale troppo ampia (e quindi incontrollabile) discrezionalità delle Direzioni aziendali in ordine alle promozioni ed avanzamenti di carriera dei collaboratori alle dipendenze.

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Note

(1) A marzo 2021 l’Istat ha diffuso uno studio sul “gender pay gap” prendendo come riferimento il 2018 e rilevando un divario tra le compagini lavoratrici dei due generi del 6,2 per cento. In quell’anno la differenza si è tradotta in una retribuzione media oraria di 15,2 euro per le donne e 16,2 euro per gli uomini, con una distanza più accentuata tra laureate e laureati: 19,6 euro spettano alle prime e 23,9 euro ai secondi, con uno squilibrio di più di 34 euro in una giornata lavorativa di 8 ore. Tuttavia è abbastanza scontato che l’ingegnere o il chimico (maschio) – lauree prevalenti nella compagine dei lavoratori - guadagna di più dell’insegnante laureata in lettere o di quella con laurea breve in scienze infermieristiche.

(2) Con il Trattato di Amsterdam del 1997 - che prevede una diversa numerazione degli articoli dei trattati che fondarono l’Unione Europea - l’articolo 119 del Trattato di Roma diventa l’articolo 141 CE, a sua volta divenuto poi l’articolo 157 TFUE. In questa versione, leggermente modificata, si afferma che: «Ciascun Stato membro assicura l’applicazione della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale a base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo». In applicazione di detto articolo si è recentemente espressa la Corte europea di Giustizia nella sentenza del 3 giugno 2021, nel cd. caso Tesco, affermando che «L’articolo 157 TFUE deve essere interpretato nel senso che ha efficacia diretta nelle controversie tra privati in cui è dedotta l’inosservanza del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile, (non solo per uno stesso lavoro ma anche, ndr) per un “lavoro di pari valore”, sancito in tale articolo».



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