Conto cointestato e dovere di reciproca assistenza materiale ex art. 143 c.c.

Commento alla Sentenza del Tribunale di Milano, Sezione V^ n. 9592/2016.
Conto cointestato e dovere di reciproca assistenza materiale ex art. 143 c.c.

La presunzione che le somme versate sul conto cointestato dei coniugi siano inerenti l'obbligo di reciproca assistenza materiale prevale sulla richiesta della restituzione somme avanzata dopo la separazione personale, salvo prova contraria.

Lunedi 22 Maggio 2017

A seguito di sentenza di separazione personale dei coniugi, la moglie conveniva il marito in giudizio per chiedere la restituzione di somme dalla stessa versate, in costanza di matrimonio e ai sensi dell'art. 1854 c.c., su un conto comune e, in subordine, ai sensi dell'art. 2041 c.c. in tema di arricchimento senza causa; resisteva il convenuto, asserendo di nulla dovere poiché le somme versate e prelevate dal conto cointestato vanno a costituire quelle sostanze che soddisfano l'obbligo di reciproca assistenza anche materiale fra coniugi previsto dall'art. 143 c.c.

Nel pronunciarsi, il Giudice premette che, a base della richiesta non risulta allegazione di illeciti endo familiari da parte del convenuto né tanto meno richiesta danni ex art. 2043 c.c. ma la mera presunzione che i prelievi effettuati dal marito per propri interessi personali debbano essere restituiti nella misura del 50%.

Di recente, in merito, la Corte di Cassazione da ultimo con Sentenza n. 809/14 ma, ancor prima, con le pronunce n. 4496/2010 e n. 28839/08, ha chiarito che, se da un lato è vero che quando un conto è cointestato vige una presunzione di contitolarità, dall'altra parte è altresì vero che tale presunzione non è di natura assoluta e pertanto colui che rivendica la titolarità delle somme ben può dimostrare il contrario secondo la figura giuridica dell'inversione dell'onere della prova; la co-intestazione, infatti, attribuisce sì agli intestatari la qualità di creditori e debitori solidali ai sensi dell'art. 1854 c.c. sia nei confronti dei terzi sia nei rapporti interni facendone presumere la contitolarità ex art. 1298, secondo comma c.c., però detta presunzione non è assoluta perché superabile da presunzioni - purché gravi, precise e concordanti - che ne provino il contrario (Cassazione n. 19115/12).

E quindi, al fine di accertare la titolarità delle somme presenti è necessario verificare la provenienza del denaro prelevato piuttosto che quella del versamento effettuato: nel caso di specie, vi era stato un matrimonio in regime di separazione dei beni con un'attività lavorativa gestita da entrambi i coniugi che, in misura uguale, avevano effettuato prelievi e versamenti ed inoltre non c'era nessuna contestazione del fatto che il marito non avesse contribuito ai bisogni comuni; allo stesso tempo la moglie, come sarebbe stato suo onere, non è stata in grado di fornire la prova contraria alla presunzione di contitolarità attraverso l'esibizione di ordini di accreditamento di stipendi, pensioni o versamenti di altra natura a suo esclusivo favore; anzi, addirittura dall'esame delle entrate e delle uscite, risultava che il marito era creditore nei confronti del conto comune.

E' noto, inoltre, che in costanza di matrimonio i rapporti tra i coniugi siano regolati non già da rapporti di debito – credito ma dalle norme che disciplinano i rapporti endo familiari di cui all'art. 143 c.c. che in concreto attua il regime di uguaglianza fra coniugi ai sensi degli articoli 3 e 29 della Costituzione; ebbene, dall'esame della documentazione prodotta è emerso chiaramente che i coniugi avevano sempre condiviso l'unità familiare, entrambi contribuendo alla cura ed amministrazione della stessa ciascuno con modalità diverse ma pur sempre concordate e dunque in maniera legittima secondo i bisogni della famiglia ed in base ai parametri variabili quali le condizioni economiche, la fascia sociale, la capacità lavorativa e l'autonoma disciplina dei coniugi, non sussistendo un limitato e del tutto non elastico obbligo di contribuzione al 50%.

Da quanto sopra emerge, in conclusione, che l'eventuale inadempimento dell'obbligo di contribuzione ai bisogni della famiglia è rilevante solo se la condotta manchevole è in contrasto con una situazione ove ciascun coniuge non contribuisca regolarmente al menàge familiare, viceversa non ravvisandosi alcun inadempimento; anzi la Giurisprudenza insegna (Cassazione n. 27/2008) che gli atti compiuti da un coniuge a sostegno dei bisogni della famiglia, debbano essere tutti ricondotti alla disciplina di cui all'art. 143 c.c., salva la prova contraria: per cui la somma che uno dia all'altro deve essere interpretata come esecuzione di tale obbligo di contribuzione.

Quanto alla domanda volta in subordine, essendo assenti gli elementi costitutivi dell'azione per ingiustificato arricchimento, ossia (a) il danno, (b) l'arricchimento personale, (c) la correlazione fra i due fattori e (d) l'assenza di una giusta causa, è stata rigettata dal Giudice con contestuale condanna delle spese di lite in capo all'attrice.

Allegato:

Tribunale Milano sentenza n.9592/2016

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