La realtà penitenziaria rappresenta uno degli ambiti più complessi e delicati del sistema sociale, in quanto riflette in modo amplificato le criticità e le disuguaglianze presenti nella società.
Gli istituti penitenziari italiani, oltre a dover fronteggiare un problema strutturale di sovraffollamento cronico, si trovano a gestire la complessa sfida rappresentata dai peculiari disagi dei detenuti appartenenti a diverse etnie.
Lunedi 13 Ottobre 2025 |
Tali soggetti, spesso provenienti da contesti di marginalità e deprivazione, portano con sé esperienze di vita segnate da migrazioni, talvolta irregolari, e da percorsi esistenziali caratterizzati da sofferenze nel Paese d’origine e da difficoltà di integrazione nel tessuto socio-culturale italiano.
In tale contesto si colloca l’etnopsichiatria, disciplina che mira a coniugare la prospettiva psichiatrica con quella della antropologia culturale, nella consapevolezza che la cura autentica non può prescindere da una profonda comprensione della malattia, delle sofferenze individuali e delle rappresentazioni culturali che le determinano e le accompagnano.
Tale approccio risulta particolarmente rilevante in ambito penitenziario, dove la dimensione clinica si intreccia inevitabilmente con quella sociale e interculturale, richiedendo agli operatori una formazione specifica e una sensibilità capace di riconoscere e valorizzare la complessità identitaria dei detenuti.
Il presente elaborato si propone di approfondire il ruolo dell’etnopsichiatria nel contesto carcerario italiano, analizzandone i fondamenti teorici, le applicazioni pratiche e le potenzialità in termini di promozione del benessere psicologico e del processo di reintegrazione sociale delle persone detenute.
In un’epoca in cui la globalizzazione assume un ruolo predominante, risulta più che mai indispensabile esplorare e valorizzare il pensiero della diversità, superando i dogmi della psicologia tradizionale e orientando la riflessione verso dimensioni di natura civica, sociale e interculturale. Tale prospettiva consente di comprendere come le differenze culturali non rappresentino un ostacolo, bensì una risorsa conoscitiva in grado di ampliare l’orizzonte interpretativo della sofferenza psichica e delle dinamiche relazionali che si instaurano nei contesti multiculturali.
In questa direzione, l’etnopsichiatria offre strumenti concettuali e metodologici che permettono di leggere il disagio mentale non come un fenomeno universale e omogeneo, ma come l’espressione di un intreccio complesso tra fattori biologici, psicologici, sociali e simbolici. Essa invita dunque a un ripensamento del paradigma clinico, riconoscendo la centralità del contesto culturale nella costruzione del significato della malattia e nella definizione dei percorsi di cura.
La salute mentale in carcere costituisce una problematica di particolare complessità e rilevanza.
L’ambiente detentivo, per sua natura, comporta una compressione dei diritti individuali, anche di quelli legati alla quotidianità, e determina una condizione di totale dipendenza del detenuto dall’istituzione per ogni necessità materiale e psicologica.
Tale condizione, oltre a incidere negativamente sul benessere psichico delle persone recluse, produce effetti deleteri anche sugli operatori penitenziari e sanitari, i quali si trovano a lavorare in un contesto ad alta tensione emotiva e relazionale.
La dimensione coercitiva e l’assenza di autonomia, elementi intrinseci alla vita carceraria, possono amplificare disturbi preesistenti o favorire l’insorgenza di nuove forme di disagio mentale, spesso connesse a vissuti di isolamento, impotenza e perdita di senso. In tale scenario, la tutela della salute mentale assume un valore non solo clinico, ma anche etico e sociale, poiché rappresenta una condizione imprescindibile per la salvaguardia della dignità della persona e per la realizzazione degli obiettivi rieducativi previsti dall’ordinamento penitenziario.
La tutela della salute mentale non può essere ridotta alla sola dimensione dell’assistenza psichiatrica.
Essa implica, piuttosto, una visione complessiva della persona detenuta, che tenga conto delle sue condizioni di vita, delle relazioni sociali e del contesto ambientale in cui è inserita.
È infatti indispensabile garantire ai ristretti condizioni di detenzione dignitose e il rispetto dei diritti umani fondamentali, elementi che costituiscono la base stessa per qualsiasi intervento terapeutico e riabilitativo efficace.
Come sottolineato dal Comitato Nazionale per la Bioetica, la promozione della salute mentale in ambito penitenziario non può prescindere da un approccio integrato e multidimensionale, in cui la cura medica sia accompagnata da misure volte a preservare la dignità, la sicurezza e la partecipazione attiva della persona detenuta.
Tale prospettiva sottolinea la necessità di una politica penitenziaria orientata non solo al contenimento e al controllo, ma anche alla prevenzione del disagio e alla promozione del benessere psicologico e relazionale.
In questo quadro si inserisce l’etnopsichiatria delle migrazioni, che si configura come uno strumento insostituibile nello incontro tra linguaggi, contesti di provenienza, radici storiche e sistemi di credenze religiose profondamente differenti.
Essa rappresenta un ponte epistemologico e relazionale tra culture, consentendo di comprendere come il disagio psichico e il dolore dell’esperienza migratoria assumano forme, significati e modalità di espressione diversi a seconda delle coordinate culturali di riferimento.
Secondo quanto evidenziato dalla Fondazione Hapax, l’etnopsichiatria delle migrazioni non si limita a tradurre un sintomo o a mediare una comunicazione, ma promuove un’autentica comprensione interculturale, favorendo un incontro terapeutico che riconosce e valorizza la pluralità dei codici simbolici e dei sistemi di senso.
In tal modo, essa diviene uno strumento fondamentale non solo per la cura, ma anche per la costruzione di un dialogo rispettoso e paritario tra individuo e istituzione, soprattutto in contesti di forte vulnerabilità come quello penitenziario.
Si tratta di un fenomeno in costante crescita, come dimostrano i più recenti dati diffusi dal Collegio Nazionale dei Dipartimenti di Salute Mentale (novembre 2024), secondo i quali oltre il 15% della popolazione carceraria, presente sul territorio italiano, presenta rilevanti patologie psichiatriche, pari a un numero compreso tra 6.000 e 9.000 detenuti su un totale di circa 62.000 persone ristrette.
Tali cifre delineano un quadro allarmante, che evidenzia l’urgenza di politiche di intervento mirate e di un potenziamento dei servizi di salute mentale all’interno degli istituti penitenziari.
Secondo una stima elaborata dall’Associazione Antigone, tra i detenuti affetti da disturbi mentali una quota significativa è costituita da persone di origine straniera: si stima, infatti, che il loro numero oscilli tra 2.800 e 3.200 ristretti.
Questi dati confermano la rilevanza del fattore culturale nella comprensione del disagio psichico in carcere e la necessità di adottare approcci terapeutici sensibili alle differenze etniche, linguistiche e religiose.
L’etnopsichiatria, disciplina fondata sul dialogo tra antropologia e psichiatria, affonda le proprie radici in un lungo percorso di elaborazione teorica e osservazione clinica. Le sue origini risalgono alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX, quando lo psichiatra tedesco Emil Kraepelin (1856-1926), considerato uno dei padri della psichiatria moderna, elaborò le prime riflessioni sulle differenze culturali nella manifestazione dei disturbi mentali. Durante i suoi viaggi di studio in Asia, Kraepelin ebbe modo di confrontare le modalità di espressione e di classificazione delle patologie psichiche in contesti culturali profondamente diversi da quelli occidentali, giungendo così a formulare il concetto di “psichiatria comparata”.
Tale prospettiva aprì la strada a una nuova modalità di indagine, in cui la malattia mentale cessava di essere considerata un fenomeno universale e uniforme, per divenire un’esperienza fortemente mediata dal contesto sociale, linguistico e simbolico di appartenenza. Da questa impostazione si svilupparono, nel corso del Novecento, le basi teoriche dell’etnopsichiatria contemporanea, che avrebbe poi trovato ulteriore impulso grazie ai contributi dell’antropologia culturale e della psicologia clinica interculturale.
Tuttavia, l’approccio di Emil Kraepelin presentava limiti significativi, in quanto ancorato a una visione eurocentrica della psichiatria e della cultura. Egli tendeva infatti a considerare i popoli non europei come appartenenti a stadi “arretrati” di sviluppo psichico e sociale, interpretando le differenze culturali in termini di distanza evolutiva rispetto al modello occidentale. Tale impostazione, pur rappresentando un primo tentativo di comparazione transculturale, risentiva profondamente dei presupposti coloniali e positivistici del suo tempo.
Sarà proprio contro questa prospettiva che si svilupperà, a partire dalla metà del XX secolo, l’etnopsichiatria critica, orientata a decostruire la concezione gerarchica delle culture e a riconoscere la pluralità dei sistemi di significato attraverso cui ogni società elabora e interpreta la malattia mentale. Questa corrente, influenzata dagli studi antropologici e dalle riflessioni di autori come Georges Devereux, segnerà una svolta epistemologica fondamentale, ponendo le basi per un approccio realmente interculturale alla sofferenza psichica.
Una figura centrale nello sviluppo dell’etnopsichiatria contemporanea è Georges Devereux (1908-1985), considerato il vero fondatore della disciplina in senso moderno. Psicoanalista e antropologo di origine ungherese, Devereux elaborò un approccio innovativo che mirava a superare i limiti del modello kraepeliniano, integrando la prospettiva psicoanalitica con quella antropologica. Secondo la sua visione, ogni comportamento umano, compreso quello patologico, può essere compreso solo se analizzato nel contesto culturale in cui prende forma.
Con la sua opera principale, Reality and Dream: Psychotherapy of a Plains Indian (1951), Devereux dimostrò come la relazione terapeutica debba necessariamente tener conto dei codici simbolici, delle strutture di significato e delle credenze che costituiscono l’universo culturale del paziente.
Egli introdusse il concetto di “complementarismo”, secondo il quale la dimensione psicologica e quella culturale non si escludono, ma si completano a vicenda nella comprensione dei fenomeni mentali.
Il contributo di Devereux fu decisivo per liberare la psichiatria dall’impostazione etnocentrica dominante e per porre le basi di una vera e propria clinica interculturale, nella quale il terapeuta è chiamato a riconoscere e rispettare la diversità del paziente come parte integrante del processo di cura. La sua eredità intellettuale influenzerà profondamente le generazioni successive di studiosi, tra cui Tobie Nathan, che svilupperà in Francia il modello dell’etnopsichiatria applicata e dell’“atelier di traduzione culturale”.
Negli anni Ottanta del Novecento, l’opera di Tobie Nathan (n. 1948), psicologo e allievo di Georges Devereux, segna un ulteriore sviluppo dell’etnopsichiatria, che assume una dimensione più applicativa e istituzionale.
Nathan fonda a Parigi il primo Centro di Etnopsichiatria Clinica presso l’Ospedale Avicenna, dove viene sperimentato un nuovo modello di intervento terapeutico basato sull’incontro e sulla traduzione dei linguaggi culturali.
La sua prospettiva, fortemente influenzata dall’antropologia e dalla psicoanalisi, introduce il concetto di “atelier di traduzione culturale”, uno spazio clinico collettivo nel quale il paziente, il terapeuta e i mediatori culturali collaborano per tradurre i sintomi, i racconti e i simboli della sofferenza in un linguaggio condivisibile.
In questa visione, il disturbo psichico non è interpretato come una semplice disfunzione individuale, ma come un messaggio che proviene da un universo culturale dotato di proprie logiche e rappresentazioni.
L’etnopsichiatria di Nathan si configura, dunque, come una pratica di negoziazione interculturale della cura, in cui il terapeuta si fa interprete di una pluralità di mondi simbolici, rinunciando a qualsiasi pretesa di neutralità o superiorità epistemologica.
Tale approccio, profondamente radicato nella realtà multiculturale europea, ha esercitato una notevole influenza anche sul contesto italiano, dove l’aumento dei flussi migratori ha reso sempre più urgente la formazione di professionisti capaci di leggere e gestire il disagio psichico in chiave transculturale.
Nel sistema penitenziario, questa prospettiva si rivela particolarmente preziosa: l’incontro tra detenuti di diverse provenienze e sistemi di valori genera spesso incomprensioni, conflitti e forme di sofferenza difficilmente interpretabili secondo i criteri della psichiatria occidentale tradizionale. L’approccio etnopsichiatrico consente invece di riconoscere la pluralità dei significati della sofferenza, offrendo strumenti per una presa in carico più rispettosa, dialogica e realmente terapeutica.
Alla luce di tali premesse teoriche, l’applicazione dell’etnopsichiatria in ambito penitenziario assume un valore strategico e profondamente umano.
L’istituzione carceraria, infatti, rappresenta un microcosmo complesso in cui si intrecciano esperienze di sofferenza, marginalità e diversità culturale. In questo contesto, l’etnopsichiatria si propone come strumento di prevenzione del disagio psichico e di promozione del benessere relazionale, favorendo l’ascolto, la comprensione e la mediazione tra sistemi simbolici differenti.
L’intervento etnopsichiatrico, basato sull’ascolto attivo e sulla valorizzazione del racconto individuale, permette di restituire dignità e senso alla parola del detenuto, riconoscendone la storia, la lingua e le appartenenze culturali. Tale metodologia non solo contribuisce a ridurre le tensioni e i conflitti derivanti da incomprensioni interculturali, ma costituisce anche un ponte terapeutico tra la persona reclusa e l’istituzione, rendendo possibile una comunicazione più empatica e rispettosa.
Inoltre, l’etnopsichiatria offre agli operatori penitenziari e sanitari un’importante occasione di formazione e riflessione critica sul proprio ruolo, aiutandoli a decostruire stereotipi, pregiudizi e automatismi interpretativi. L’obiettivo ultimo è quello di costruire un modello di cura e di relazione fondato sul riconoscimento reciproco e sulla responsabilità condivisa, elementi indispensabili per un autentico percorso di riabilita zione e reintegrazione sociale.
In questa prospettiva, la salute mentale in carcere non è più intesa come semplice assenza di malattia, ma come processo dinamico di equilibrio tra individuo, comunità e cultura. L’etnopsichiatria, dunque, diviene non solo una disciplina clinica, ma una vera e propria pratica etica e sociale, capace di restituire umanità a uno spazio – quello penitenziario – troppo spesso percepito come luogo di esclusione e silenzio.
L’analisi condotta ha evidenziato come l’etnopsichiatria rappresenti uno strumento imprescindibile per comprendere e affrontare la complessità della salute mentale in ambito penitenziario.
In un contesto caratterizzato da pluralità culturale, disagio sociale e sofferenza psichica, essa offre una chiave di lettura capace di andare oltre la dimensione clinica tradizionale, ponendo al centro la persona nella sua interezza – biologica, psicologica, sociale e culturale.
Il carcere, luogo di privazione ma anche potenzialmente di trasformazione, impone un ripensamento dei modelli di cura e di relazione.
L’approccio etnopsichiatrico, fondato sul dialogo e sulla comprensione interculturale, consente di restituire dignità, voce e significato alle esperienze dei detenuti, contribuendo non solo alla prevenzione del disagio psichico, ma anche al processo di riabilitazione e reintegrazione sociale.
Promuovere la salute mentale in carcere significa, in ultima analisi, promuovere la giustizia e i diritti umani.
L’etnopsichiatria, nel suo intreccio tra antropologia e psichiatria, offre un paradigma di cura profondamente etico, capace di riconoscere la diversità come risorsa e non come ostacolo.
Essa invita istituzioni, operatori e comunità scientifica a un impegno condiviso nel costruire un sistema penitenziario più umano, inclusivo e orientato alla comprensione dell’altro.
Solo attraverso questa prospettiva – attenta, rispettosa e dialogica – è possibile trasformare il carcere da spazio di esclusione a luogo di incontro, crescita e reale rieducazione.
Associazione Antigone (2024). Rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia (https://www.associazioneantigone.it)
Collegio Nazionale dei Dipartimenti di Salute Mentale (2024). Dati sulla salute mentale in ambito penitenziario.
Comitato Nazionale per la Bioetica (2024). La tutela della salute mentale nelle carceri italiane (http://bioetica.governo.it)
Fondaz Hapax (2024). L’etnopsichiatria delle migrazioni (https://www.fondazionehapax.org)
Devereux, G. (1951). Reality and Dream: Psychotherapy of a Plains Indian. New York: International Universities Press.
Kraepelin, E. (1904). Comparative Psychiatry. Leipzig: Barth.
Nathan, T. (1986). La folie des autres: Traité d’ethnopsychiatrie clinique. Paris: Dunod.
Nathan, T. (1996). L’influence qui guérit. Paris: Odile Jacob.
Nathan, T. & Stengers, I. (1995). Médecins et sorciers. Paris: Les Empêcheurs de penser en rond.