Se è vero che il riconoscimento di un figlio alla nascita da parte dei genitori naturali è un atto di natura discrezionale, è altrettanto vero che quella discrezionalità non deve tradursi in un mezzo per sfuggire ai propri doveri di genitore.
Per questo il nostro ordinamento giuridico permette, in primo luogo al figlio, ma anche al genitore nel suo interesse o agli eredi del medesimo, di agire in giudizio per far dichiarare lo status di figlio. L’azione è volta ad ottenere una sentenza che dichiari la filiazione naturale, producendo gli stessi effetti del riconoscimento, di modo che il figlio naturale possa godere dei medesimi diritti di un figlio legittimo.
Il fondamento di tale azione risiede nel diritto di una persona alla propria identità personale, necessaria per il corretto instaurasi e svolgersi della propria vita di relazione e della propria personalità, previsti dall’art. 2 della Costituzione e dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’’uomo.
Allo stesso tempo, tuttavia, il nostro ordinamento, attraverso una pluralità di disposizioni normative, e non solo, riconosce anche il diritto della madre biologica a mantenere l’anonimato al momento del parto.
Lo prevede per esempio la legge sulla privacy, che consente il rilascio della cartella clinica contenente i dati della madre solo dopo che siano decorsi cento anni dalla formazione del documento, e anche una sentenza della Corte Costituzionale del 2013, che ha stabilito che il diritto di anonimato della madre è finalizzato a salvaguardare la madre medesima ed il neonato da qualunque perturbamento possa creare pericoli alla salute psicofisica o all’incolumità degli stessi.
E allora come bilanciare due diritti così importanti e di rango primario? Quale tra i due deve prevalere nell’ambito di un’azione di accertamento giudiziale della maternità?
Di tale questione è stata investita di recente la Corte di Cassazione che con sentenza n. 19824/2020, in attuazione dei principi della tutela della vita e della salute della madre e del nascituro già sanciti dalla Corte Costituzionale, ha ritenuto in ogni caso prevalente il diritto all’anonimato della madre per tutta la durata della vita di quest’ultima.
Il diritto all’anonimato della madre, sempre secondo la recente pronuncia della Corte di Cassazione, può essere superato, pertanto, solo in due ipotesi: in caso di morte della madre, ovvero nel caso di revoca della rinuncia alla genitorialità giuridica da parte della medesima, non essendovi più in entrambi i casi elementi ostativi per la conoscenza del rapporto di filiazione.
In tali casi, dunque, il diritto del figlio alla propria identità personale acquista prevalenza. La Corte individua così anche i diritti in gioco dopo la morte della madre, costituiti da un lato dall’interesse degli eredi della donna alla conservazione della di lei identità sociale, in relazione al nucleo familiare costituito successivamente al parto, e dall’altro lato dal diritto del figlio alla propria identità personale.
Operando il bilanciamento tra gli interessi coinvolti, la Corte afferma che il diritto degli eredi della donna al mantenimento della identità sociale della stessa è recessivo rispetto al diritto del figlio a ricostruire la propria identità personale che, dunque, ritorna ad avere prevalenza rispetto ai diritti altrui e, nello specifico, di quello degli eredi.