La mediazione penale e l'ordinamento italiano.

Avv. Federica Ascione.
Lunedi 6 Aprile 2020

L’art.1 della direttiva 2012/29/UE del Parlamento e del Consiglio Europeo del 25 ottobre 2012 ha definito la giustizia riparativa come quel procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione di questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale.

Simile è la definizione contenuta nella recente Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2018, dedicata alla giustizia riparativa in ambito penale: “qualsiasi procedimento che consente a chi è stato offeso dal reato e a chi è responsabile di tale offesa, se vi acconsente liberamente di partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni sorte con il reato mediante l’aiuto di un terzo imparziale appositamente formato” (facilitatore).

In Italia, la direttiva del 2012 è stata recepita con il Decreto Legislativo n. 212 del 15 dicembre 2015, che ha modificato una serie di norme del codice di procedura penale. La direttiva, fornendo delle definizioni giuridiche appropriate, si è posta l’obiettivo di dare importanza alla figura della vittima del reato, tutelandone i diritti e dettando una serie di linee guida volte alla preparazione e sensibilizzazione di magistrati ed avvocati. L’applicazione dell’istituto della mediazione penale, pur se raccomandata dalle disposizioni comunitarie ed internazionali, in Italia può dirsi ad oggi limitata; alcune brecce significative si sono aperte con il D.Lgs. n. 274/2000 (disposizioni in materia di competenza penale del Giudice di Pace), con il D.P.R. n.448/1988  (riforma del processo minorile) e nella fase di esecuzione della pena (misure alternative alla detenzione ex art.47 Legge n.354/1975).

In questi casi, in verità, ci si riferisce ad istituti con finalità diverse e che non somigliano minimamente alla mediazione; il nostro ordinamento non ha del tutto seguito l’orientamento della direttiva n.29, non prevedendo momenti adeguati di confronto tra vittima e reo volti al superamento del conflitto che tra gli stessi si è generato.

Nel nostro ordinamento la forma più comune di giustizia riparativa è quella prevista dalle disposizioni in materia di competenza del Giudice di Pace, Decreto Legislativo n. 274 del 2000. In particolare, l'art. 29 comma IV stabilisce che “ il Giudice, quando il reato è perseguibile a querela, promuove la conciliazione tra le parti. In tal caso, qualora sia utile per favorire la conciliazione, il Giudice può rinviare l’udienza per un periodo non superiore a due mesi e, ove occorra, può avvalersi anche dell’attività di mediazione di centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio. In ogni caso le dichiarazioni rese dalle parti nel corso dell’attività di conciliazione non possono in alcun modo essere utilizzate ai fini della deliberazione”. L’istituto della mediazione ha trovato in questo settore una prospettiva di applicazione; d’altra parte i reati bagatellari trattati dinanzi al Giudice di Pace Penale sono perseguibili a querela di parte, espressione di microconflittualità tra privati e molto spesso non riguardanti interessi collettivi. L’art. 29, sopra citato, ha tentato, pertanto, di introdurre nel nostro ordinamento l’istituto della mediazione reo-vittima, come tecnica di giustizia riparativa volta alla riparazione e alla riconciliazione tra imputato e parte offesa, nonché al rafforzamento del senso di sicurezza collettivo. L’applicazione dell’istituto della mediazione, nella realtà, viene lasciata alla gestione esclusiva del tentativo di conciliazione e alla effettiva volontà dei giudici di pace di avvalersi, per l’appunto, di «centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio», istituiti conformemente alle linee guida internazionali e dotati di personale qualificato.

Manca purtroppo, una incisiva normativa sulla diffusione territoriale dei centri di mediazione quali strutture idonee, dotate di risorse adeguate e composte da personale qualificato per svolgere l’importante attività riparativa enunciata, voluta fortemente dalla Direttiva n. 29/2012. Laddove le parti esprimano la loro volontà di voler tentare la mediazione,  il Giudice fisserà una data di rinvio di udienza, con un termine non inferiore a due mesi, allo scadere del quale ne verificherà l’esito, che potrà essere negativo o positivo. Nel primo caso, il giudizio riprenderà seguendo il suo normale iter, mentre nel secondo, vi sarà la remissione della querela da parte della persona offesa, con conseguente pronuncia di non luogo a procedere per mancanza di una condizione di procedibilità.

Il buon esito della mediazione, potendo risolversi nella riparazione del danno causato dal reato, può portare ad una pronuncia di estinzione del reato (art.35 D.Lgs.n.274/2000), come conseguenza delle condotte riparatorie tenute dal reo prima dell'udienza di comparizione. L’ambito nel quale si è registrato il più ampio ricorso alla mediazione in Italia è senz’altro il rito penale minorile, la cui flessibilità ha consentito di ritagliare spazi per l’istituto in questione, pur in assenza di un preciso riferimento normativo in seno al D.P.R. n. 448/1988.

L’esigenza di applicare programmi di giustizia riparativa, tra cui la mediazione, era dettata da quanto sancito dall’art. 31 comma 2 della Costituzione “proteggere l’infanzia e la gioventù, favorendo istituti necessari allo scopo” e dalle numerose sollecitazioni internazionali delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa. In particolare, l’applicabilità dell’istituto della mediazione penale è prevista durante la fase delle indagini preliminari, così come stabilito dall’art. 9 del D.P.R. n.448/88, che prevede una indagine personologica del minorenne autore del reato ma anche all’interno della fase dibattimentale (art.27) nonché nell’udienza preliminare (art.28). In base a quanto stabilito dal nostro legislatore, la mediazione penale minorile si attiva su richiesta della Autorità Giudiziaria, in particolare, il pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, il giudice del dibattimento in sede processuale, ed eventualmente su sollecitazione dell’avvocato difensore o dell’assistente sociale. L’Ufficio di Mediazione deve essere situato in luogo diverso dalla sede del Tribunale e deve verificare la possibilità di un incontro e confronto tra vittima e reo; i mediatori devono essere due, durante gli incontri, con il compito di fornire alla parti tutte le informazioni necessarie ed adeguate relative la procedura che si vuole intraprendere. Al termine dell’incontro i mediatori devono dare riscontro all’Autorità Giudiziaria sull’esito della mediazione; è data la possibilità, nell’ottica riparatoria della mediazione che si rediga anche un accordo economico tra le parti, alla presenza dei rispettivi avvocati, al fine di stilare una vera e propria obbligazione risarcitoria. Nell’ambito del processo penale minorile, larga applicazione della mediazione è stata trovata all’interno dell’istituto della messa alla prova ( art.28 del D.P.R.488/88).

L’ordinamento penitenziario minorile – D.Lgs. n. 121/2018 - dispone che «l’esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità deve favorire percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato». Per la prima volta il nostro ordinamento fa un chiaro riferimento all’espressione “giustizia riparativa”, confinandone l’ambito di operatività alla fase esecutiva della pena. Gli interventi normativi maggiormente significativi si registrano con la Legge n. 67/2014, nel quadro della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova anche per gli adulti; l’art. 464-bis comma 4 c.p.p. include infatti nel programma di trattamento, alla cui esecuzione il beneficio è subordinato, anche «le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione». L’inciso “ove possibile” è dovuto alla carenza di strutture idonee per svolgere gli incontri vittima-reo che di fatto rendono inutilizzabile tale istituto, così come previsto dalla normativa. L’art. 90 bis  comma 1 lettera n) c.p.p., tra le informazioni che l’autorità procedente deve fornire alla persona offesa sin dal primo contatto, menziona anche  la «possibilità che il procedimento sia definito […] attraverso la mediazione». Purtroppo, come già detto, manca una normativa all’uopo predisposta e strutture territoriali ove sia possibile l’attuazione dell’istituto.

Anche la Legge n. 103/2017, in materia di riforma dell’ordinamento penitenziario, ha introdotto istituti nuovi ed ha modificato istituti già esistenti, ma contiene deleghe al governo che non hanno ancora visto la luce. Si può concludere questa breve disamina osservando che in Italia l’istituto della mediazione ha trovato applicazione soltanto sulla base di esperienze in alcune aree geografiche, nate su iniziativa di singoli soggetti che con il loro lavoro volontario hanno dato vita a delle prassi di mediazione penale molto efficienti ottenendo dei risultati positivi. L’Italia, pertanto, a differenza del resto degli altri Paesi, in cui lo sviluppo della mediazione ha inciso notevolmente sull’andamento processuale penale, è priva di una legge quadro in materia o anche solamente di una norma di portata generale che tenti di regolamentarla incisivamente.  

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