La Raccomandazione del Consiglio d’Europa n.19 del 15 settembre 1999, frutto di una elaborata ed annosa sperimentazione, è sicuramente la fonte più importante e significativa in tema di mediazione penale, perchè fornisce una serie di indicazioni agli Stati membri per l’introduzione in ciascun ordinamento del predetto istituto.
Giovedi 5 Marzo 2020 |
La «mediazione reo-vittima» è, infatti, uno dei possibili servizi di giustizia riparativa per la risoluzione dei conflitti, il cui esito positivo può condizionare anche la fase dell’esecuzione penitenziaria.
In realtà, il concetto di mediazione penale vede la sua nascita intorno agli anni ’60/’70 prima negli Stati Uniti e successivamente in Europa. Alcuni giuristi negli Usa, seguendo un percorso antropologico, avevano ritenuto che il superamento del conflitto, successivo alla commissione di un reato, potesse avvenire non all’interno del processo penale con i suoi mezzi rituali e spettacolari, ma nell’incontro tra le parti, in cui ciascuna, partecipando attivamente, si faceva delle reciproche concessioni. Sulla scorta di tali considerazioni, il movimento abolizionista, le cui tesi in alcuni casi sono da considerarsi molto radicali, ha affermato come la pena fosse una extrema ratio non avendo alcuna efficacia preventiva.
L’istituto della mediazione penale nasce dalla necessità di superare il pensiero della scuola classica e della scuola positiva del diritto penale. La prima, diffusasi nel periodo dell’illuminismo, parte dal presupposto che il reato è un’offesa nei confronti dello Stato e rivendica, quindi, un diritto penale garantista dei diritti dell’uomo. I principi della scuola classica sono ancora oggi alla base del diritto penale moderno e pongono la pena come afflittiva, determinata, inderogabile e proporzionata alla gravità del reato; il soggetto che commette il reato è l’unica figura suscettibile di conoscenza all’interno del processo penale.
La scuola positiva punta invece la sua attenzione sulla figura del “delinquente”; il reato è espressione di un comportamento inserito in un contesto sociale e da questo in qualche modo condizionato. Ciò che accomuna i due sistemi è il completo disinteresse per la vittima del reato. Lo sviluppo del concetto di giustizia riparativa nasce dall’esigenza di considerare la vittima come una parte importante sia del fatto reato che della fase processuale.
Sulla base delle predette considerazioni, anche grazie alla spinta delle pressioni politiche dei movimenti a favore delle vittime, ha visto la luce dapprima la Raccomandazione del Consiglio d’Europa n.11 del 1985 che ha posto l’attenzione sulla posizione della vittima nell’ambito del processo penale, cercando modi per attenuare, se non rimuovere, i problemi causati dal reato. La predetta Raccomandazione ha suggerito a ciascuno Stato membro di improntare la propria legislazione penale su quattro principi cardine:
1. inserire il concetto di risarcimento quale forma di assunzione di responsabilità da parte del reo;
2. offrire alla vittima la possibilità di partecipare al processo penale con un ruolo influente;
3. introdurre, prima dell’inizio del processo penale, procedure di mediazione, riparazione e risarcimento del danno;
4. creare forme di assistenza per le vittime di reato.
La Raccomandazione n. 19/99 si è inserita in tale contesto normativo e per prima ha tracciato le linee guida che i singoli Stati membri avrebbero dovuto adottare per rendere la mediazione penale possibile ed attuabile. Preliminarmente, ogni Stato avrebbe dovuto riconoscere il fine pubblico e sociale dell’istituto della mediazione garantendo l’erogazione di fondi pubblici. I centri di mediazione avrebbero dovuto infatti agire in un contesto pubblico offrendo un servizio gratuito.
L’art. 1 della Raccomandazione n.19 ci fornisce la definizione di mediazione penale come quel procedimento che permette alla vittima e al reo di partecipare attivamente, se vi consentono liberamente, alla soluzione delle difficoltà derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo indipendente. In questo modo, attraverso l’istituto della mediazione, le parti, vittima e reo, si “riappropriano” del conflitto. Ciò determina una posizione di parità tra le parti che, interfacciandosi, devono condividere il fatto accaduto, confrontandosi sugli aspetti dello stesso e cercando, con l’aiuto di un soggetto terzo, di addivenire ad una soluzione che aiuti la vittima a ricreare un ambiente di fiducia con il mondo esterno ed il reo a riconoscere gli errori della propria condotta, a percepirne gli effetti e, ove possibile, a porne rimedio.
La mediazione va ad incidere sulla consapevolezza dell’offensore di valutare la propria condotta ed il proprio errore; consente all’offeso di ridimensionare la gravità dell’offesa. Il principio cardine dell’istituto della mediazione penale è che coloro che vi partecipano, vittima e reo, siano messi nella condizione di partecipare liberamente e volontariamente esprimendo un consenso informato, consapevole e spontaneo nella loro adesione, in ogni momento revocabile.
L’art. 10 della Raccomandazione prevede espressamente che le parti devono essere pienamente consapevoli dei loro diritti, della natura del processo di mediazione e delle possibili conseguenze delle loro azioni. La volontarietà della partecipazione alla procedura di mediazione è elemento essenziale dell’istituto; così come deve essere un atto volontario quello di addivenire ad un accordo che deve rispettare i principi di ragionevolezza e proporzionalità rispetto alla gravità del fatto commesso. L’accordo raggiunto di risarcimento del danno o di riparazione dello stesso deve soddisfare le aspettative di entrambe le parti. Deve essere garantita trasparenza e comprensione della lingua utilizzata durante gli incontri di mediazione al fine di tutelare le parti coinvolte sul significato di ciò che stanno facendo, in modo che l’accordo raggiunto non sia frutto di mezzi non chiari, subdoli o fraudolenti.
A differenza del processo penale che si svolge in forma pubblica, la mediazione deve garantire la confidenzialità (art.2) e non comporta una ammissione di colpevolezza, “la partecipazione alla mediazione non deve essere usata come prova d’ammissione della colpevolezza nelle successive procedure giudiziarie”(art.7). Il principio di innocenza è fondamentale è sta alla base di ogni procedura giudiziaria di uno stato civile e democratico.
Laddove non sia possibile addivenire ad un accordo al termine degli incontri di mediazione, il fascicolo deve essere restituito immediatamente alla autorità giudiziaria procedente senza alcuna conseguenza sanzionatoria. Nel caso, invece, si raggiunga all’esito della mediazione, un provvedimento di archiviazione e di non luogo a procedere deve vigere il principio del ne bis in idem, pertanto è vietato procedere per i medesimi fatti.
La Raccomandazione detta delle linee guida riguardo alla scelta del luogo in cui si svolge la mediazione che deve essere sicuro e confortevole. Gli uffici di mediazione devono essere collocati fisicamente in sedi scevre da connotazioni ideologiche, religiose, politiche, culturali o etniche e possibilmente separate da tribunali, procure, caserme e dagli uffici di pubblica sicurezza. La neutralità della sede permette ai soggetti coinvolti di non ricevere messaggi più o meno espliciti dovuti alle caratteristiche dei luoghi. Se il Giudice all’interno del processo penale è per sua natura neutrale ed equidistante rispetto alle parti - nec utrum, né l’uno né l’altro- il mediatore si pone come equiprossimo alle parti – sia l’uno che l’altro-. Il mediatore penale non deve giudicare, deve usare un linguaggio semplice e rapportato alle parti coinvolte nella procedura. I mediatori devono ricevere una formazione iniziale di base ed effettuare un training di servizio prima di intraprendere l’attività di mediazione.
L’art.24 della Raccomandazione prevede espressamente che i mediatori devono acquisire tecniche di mediazione e di comunicazione, devono avere una conoscenza del sistema penale e degli effetti processuali e penali dei programmi di giustizia riparativa, questo, perché, attraverso il loro lavoro, tra le parti che litigano, ognuna offuscata dal proprio punto di vista sul fatto accaduto, si deve ristabilire la comunicazione.
Con la Raccomandazione n.19/99, il Consiglio d’Europa ha altresì previsto una attività di monitoraggio sul recepimento dell’istituto della mediazione penale all’interno degli Stati membri, al fine di verificare come ogni Stato avesse accolto ed applicato questa nuova forma di giustizia riparativa nella sua legislazione, attraverso lo studio dei risultati ottenuti in termini di accordi raggiunti, reiterazione dei reati e benefici per la comunità. Il controllo doveva essere demandato ad un organo di vigilanza indipendente ed esterno al sistema giudiziario Il follow up svolto ha evidenziato quale forte disarmonia vi sia all’interno degli Stati membri nell’applicazione dell’istituto; unica certezza, è che la mediazione è ritenuta una forma alternativa valida al processo penale inteso nella sua accezione classica e pertanto, anche se attraverso strumenti difformi e con tempistiche diverse, questa forma di giustizia alternativa e riparativa sta trovando sempre più vasti ambiti di applicazione ricevendo sempre più consensi da addetti ai lavori nonché dalla comunità sociale.