La Vittimizzazione secondaria nelle decisioni giudiziarie

La Commissione Parlamentare sul Femminicidio e sulla violenza di genere, in occasione della discussione sui provvedimenti di legge da assumere per tali reati, ha presentato i risultati della indagine svolta con la “Relazione sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale”.

Lunedi 15 Dicembre 2025

Uno dei temi principali esaminato dalla Commissione sul rilevante argomento è stato quello della disciplina normativa nazionale e internazionale in base alle risultanze dell’indagine compiuta presso i Tribunali civili e penali ordinari e presso i Tribunali per i minorenni e le criticità emerse dall’esame di casi specifici.

L’inchiesta è nata anche su sollecitazione di numerose madri vittime di violenza e dalla consapevolezza che solo una risposta coerente di tutte le Istituzioni possa arginare la diffusione della violenza domestica e di genere.

Intervenendo sui contenuti della Relazione, l’ex Ministro della Giustizia Cartabia ha definito la violenza di genere “una sconfitta della nostra Civiltà”, affermando come il punto di partenza sia “Il diritto fondamentale della vittima di violenza a non essere violata una seconda volta nella sua dignità come sancito da un principio stabilito dalla Corte di Strasburgo, proprio in pronunce che riguardano direttamente il nostro Paese, ovvero l’ulteriore vittimizzazione della vittima di violenza da parte delle Istituzioni o degli individui che dovrebbero essere chiamati a proteggerla”.

Non è infatti ammissibile reprimere la violenza a livello penale per poi tollerare che l’autore di tali condotte, da una parte sia indagato e condannato per quanto dallo stesso commesso, e dall’altra sia considerato un genitore idoneo, al pari di quello che ha subito violenza.

La Commissione, invero, aveva il compito di monitorare la concreta attuazione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, adottata a Istanbul l’11 maggio 2011[...] e di accertare le possibili incongruità e carenze della normativa vigente per la tutela delle vittime della violenza e degli eventuali minori coinvolti.

All’esito dell’inchiesta della Commissione è emersa l’esigenza di un radicale mutamento all’approccio culturale sul tema, individuando strumenti che consentano di riconoscere la violenza domestica in maniera tempestiva, con l’invito a tutti gli Operatori coinvolti a “riappropriarsi dei fatti”, omettendo ogni riferimento alle vicende che li hanno generati nelle decisioni assunte, come afferma la Dottrina più recente, poiché le stesse potrebbero comportare un caso di grave Vittimizzazione, come avvenuto di recente a Torino, di cui si dirà oltre.

A tal fine, la Relazione ha evidenziato una serie di linee guida e buone prassi volte ad incrementare la formazione specifica degli Operatori, tra cui:

  • la specializzazione obbligatoria dei soggetti istituzionali coinvolti (forze dell’ordine, magistrati, avvocati, consulenti, operatori dei servizi sociali), con corsi di formazione sulla violenza domestica e di genere e sulla normativa nazionale e sovranazionale in materia;

  • l’attuazione di percorsi di formazione condivisa tra magistratura (inquirente e giudicante; ordinaria e minorile), Forze dell’ordine, avvocatura, servizi sociali, servizi sanitari, centri e associazioni anti-violenza, per diffondere conoscenze atte ad individuare gli indicatori della violenza.

  • La Vittimizzazione secondaria

In effetti, in base all’art 18 della citata Convenzione, gli Stati firmatari si sono impegnati ad evitare la “vittimizzazione secondaria", che consiste nel far rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato, che spesso è riconducibile alle procedure giudiziarie a seguito di una denuncia o, comunque, all'apertura di un procedimento giurisdizionale.

Inoltre, un’altra puntuale definizione di vittimizzazione secondaria si rinviene anche nella Raccomandazione n. 8 del 2006 del Consiglio d’Europa secondo la quale la «vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell'atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima».

Va sottolineato che la vittimizzazione secondaria è spesso sottovalutata proprio nei casi in cui le donne sono vittima di reati di genere e l'effetto principale è quello di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte della stessa.

A tal fine, appare necessario garantire l’adozione di provvedimenti normativi e giudiziari coordinati, nella consapevolezza che l’efficacia deterrente per reprimere condotte di violenza domestica si realizza verificando la sussistenza di tali condotte nell’ambito dei procedimenti penali civili e minorili che hanno per oggetto domande relative ai figli minori, con immediati riflessi, nei casi di volenza assistita, .

Nella casistica, essa colpisce le donne che hanno subito violenza soprattutto in ambito familiare e nelle relazioni affettive e, a differenza dalla vittimizzazione ripetuta da attribuire allo stesso autore, si ritiene che ssia causata dalle Istituzioni con cui la vittima viene in contatto, qualora operino senza seguire le direttive internazionali e nazionali, e non garantiscano comportamenti rispettosi e tutelanti, tali da non ledere la dignità personale, la salute psicofisica e la sicurezza della vittima, sia essa la donna sia esso il minore vittima di violenza assistita.

La violenza denunciata, oltre a costituire oggetto di un percorso giudiziario parallelo in un procedimento penale, viene considerata all’inizio come causa della separazione o dell’allontanamento della donna dal domicilio comune con il partner.

Le denunce sono, in taluni casi, coeve al momento della separazione o della cessazione della relazione mentre in altri casi sono successive all'inizio del procedimento civile di separazione o di affidamento del figlio nato fuori del matrimonio.

Tali denunce sono in prevalenza delle madri non coniugate e con un minor tempo trascorso nella relazione mentre le denunce successive riguardano in prevalenza donne coniugate con maggior tempo trascorso nella relazione di coppia, probabilmente in ragione della maggiore difficoltà e resistenza emotiva della madre coniugata a denunciare il padre dei suoi figli.

Un preoccupante elemento comune a tutti i casi, è che nelle denunce penali archiviate nei confronti dei padri le motivazioni fanno spesso riferimento alla valutazione effettuata che considera la violenza del padre come esito di una conflittualità scaturita dai comportamenti materni ostili all’affidamento condiviso.

Al contrario, il procedimento penale dovrebbe rappresentare un campanello d'allarme idoneo ad una lettura tempestiva della violenza nei confronti del partner prevenendo condotte peggiori che possono cagionare anche la morte, come è avvenuto di recente.

La particolare gravità della problematica evidenziata è stata oggetto anche di analisi da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, tanto che, nella Risoluzione del 2021, si indica la necessità di una specifica formazione in materia di violenza ed uno stretto coordinamento tra processo penale e civile nel caso di denunce di violenza.

Nei confronti di una metà delle madri dei casi esaminati sono presenti anche denunce dei padri che, nel corso della separazione, lamentano l’allontanamento dei figli o altri reati e che fanno da contraltare alle denunce delle madri per i reati tipici della violenza di genere.

  • La sentenza del Tribunale di Torino

Una recente quanto sconcertante sentenza arricchisce la casistica della Vittimizzazione secondaria in ambito giudiziario, innanzi accennato.

Invero Il Tribunale di Torino, Sez. III penale, con la sentenza 24 luglio 2025 n.2356 (v. allegato), che ha avuto ampio risalto mediatico per i suoi contenuti controversi, ha assolto un imputato dalla contestazione di maltrattamenti in famiglia, condannandolo solo per il reato di lesioni (v. dello stesso Autore, Vittime di violenza familiare, una vicenda scandalosa decisa con una sentenza sconcertante, su questa Rivista Sett 025)

Il caso sarebbe stato considerato come una delle ordinarie storie di “ordinaria follia” tra coniugi, divenute ormai comuni nelle Aule di Giustizia, seguite dalle separazioni e dai divorzi, se non avesse suscitato forti perplessità sulla decisione assunta dai Giudici in base ad una ricostruzione alquanto riduttiva e giustificativa delle violazioni commesse dall’imputato nei confronti della consorte, ed ancor più, poiché avvenuta alla presenza dei figli minori della coppia, il tutto motivato dai Giudici con un linguaggio utilizzato nella sentenza alquanto offensivo nei confronti della Vittima.

Il grave episodio risale al 28 luglio 2022 e risulta molto grave perché, in appena sette minuti di violenza nei confronti della Vittima, una donna di 44 anni, la stessa ha subito, da parte del coniuge, una grave lesione del nervo oculare e il volto sfigurato, in seguito, ricostruito con 21 placche di titanio, che, di per sé, denota la gravità dell’offesa arrecata per il quale il responsabile meritava un diverso quanto più pesante trattamento sanzionatorio.

Inoltre i colpi inferti, senza alcun limite, al viso della donna dall’energumeno, hanno provocato un indebolimento della vista e, per tale ragione, la donna ha perso anche il lavoro.

La denuncia della malcapitata all’A.G. di quanto accaduto, ha generato un processo, a carico dell’imputato, per maltrattamenti e per le gravi lesioni personali arrecate al coniuge, reati per i quali la stessa PM, incaricata del caso, aveva chiesto una condanna a quattro anni e sei mesi di carcere del prevenuto.

I Giudici, invece, hanno deciso, in maniera apodittica, di assolvere l’ex marito dal primo reato e di condannarlo solo per il secondo ad un anno e sei mesi, sospendendo finanche la pena comminata.

Invero, i Giudici Torinesi hanno ritenuto che le frasi ingiuriose rivolte al coniuge quali «sei una puttana», «non vali niente», «non sei una madre» persino davanti ai figli, sarebbero giustificabili per essere state pronunciate«nel loro specifico contesto dall’amarezza per la dissoluzione della comunità domestica, e che, in tali circostante, sarebbe umanamente comprensibile» (sic!!).

Peraltro, per i Giudici, anche il pugno sferrato dall’uomo con violenza alla donna, si legge nella sentenza, va considerato “nel contesto e ricondotto alla logica delle relazioni umane», ossia al fatto che la donna avesse una relazione con un nuovo compagno andato a vivere con lei e i figli, che costituirebbe una condizione umana per la quale «l’imputato si sentiva vittima di un torto, sentimento molto umano e comprensibile per chiunque», ma certamente non tali al punto da giustificare le percosse inflitte al coniuge, a giudicare dalla loro gravità desumibile dai danni arrecati (NdR).

Il tutto è accaduto prescindendo da una sia pur minima valutazione del comportamento contra legem dell’imputato per il reato di maltrattamenti, sebbene contestato dal PM.

Per contro, proprio le parole offensive riportate dai Giudici a sostegno della infausta decisione, hanno scatenato numerose critiche a livello nazionale, e causato l’intervento della citata Commissione parlamentare sui Femminicidio, che ha richiesto gli atti del procedimento e l’audizione dell'estensore dello stesso mentre la Procura ha impugnato la sentenza formulata in senso giustificativo delle gravi ingiurie rivolte dall’imputato al coniuge.

La decisione è stata fortemente criticata anche negli stessi ambienti giudiziari e dalla Dottrina (v.ex multis, M.T. Zampogna, Violenza di genere e linguaggio sessista nelle sentenze, in Giurisprudenza Penale Web,2025)

Nei commenti si afferma che, alla luce delle motivazioni adoperate nella decisione, e del linguaggio intriso di stereotipi di genere, ultronei e gratuiti senza che ciò avesse rilievo per l’accertamento della responsabilità, emergerebbe un grave caso di vittimizzazione secondaria ai danni della persona offesa definita come “portatrice di macroscopici interessi personali e patrimoniali”.

La sentenza, infatti, da un lato ha colpevolizzato la vittima in quanto donna adultera, con il ricorso a giudizi morali circa l’ipotesi che la stessa avesse iniziato la relazione col nuovo compagno prima di comunicare al marito la sua intenzione di separarsi, mentre per altri versi ha minimizzato la violenza dell’imputato, definendola come “espressione del risentimento di un uomo ferito dalla condotta della moglie“, “risentimento – molto umano e comprensibile per chiunque – derivante dal sapere che un estraneo trascorreva del tempo nella casa che per 20 anni era stata la sua dimora familiare e si sostituiva a lui nel rapporto con i figli” a causa “dellamarezza per la dissoluzione della comunità domestica era umanamente comprensibile”.

Nel commento citato, si ricorda che la CEDU ha condannato più volte l’Italia, sottolineando l’importanza del ruolo della Magistratura nella lotta alla violenza maschile contro le donne, in ossequio alla Convenzione di Istanbul nonché alle Direttive, Raccomandazioni e Risoluzioni del Parlamento Europeo.

Per la Corte EDU, infatti, i processi e le sanzioni comminate con le sentenze, hanno un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta alla disuguaglianza di genere.

Prtanto, “é essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni dei tribunali, minimizzando la violenza di genere ed esponendo le donne a una vittimizzazione secondaria attraverso l’uso di un linguaggio colpevolizzante e moraleggiante che mina la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario” (vedi sent. CEDU 27.5.21, J.L. c/Italia, ricorso n.5671/16).

Tali principi erano in parte già stati espressi con la sentenza CEDU 28.5.15, Y. c/Slovenia (ricorso n. 41107/10) e sono stati ribaditi, in un caso di violenza sessuale commessa sul posto di lavoro, nella recente sentenza CEDU del 4.9.25 XX c/Francia (ricorso n. 30556/22), con cui si è affermato che nello svolgimento del procedimento, parallelamente alla garanzia dell’effettivo rispetto dei diritti della difesa, “le autorità giudiziarie devono garantire la tutela dell’immagine, della dignità e della vita privata delle presunte vittime”.

Pertanto, la Corte ha ribadito che è essenziale evitare di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni giudiziarie, minimizzando la violenza di genere ed esponendo le donne a vittimizzazione secondaria, utilizzando un linguaggio colpevolizzante e moralizzatore che può scoraggiare la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario.

Qualora l’indagine abbia portato all’avvio di un procedimento dinanzi ai tribunali nazionali, tale obbligo procedurale si estende anche alla fase del processo (vedi CEDU Z. c/Bulgaria,28 maggio 2020, ricorso n. 39257/17).

Orbene, le espressioni sessiste utilizzate nella sentenza del Tribunale di Torino sono intrise di pregiudizi verso la donna fedifraga che avrebbe distrutto il matrimonio, alimentando “una specifica condizione di stress” nell’ex marito, che le avrebbe sferrato un “solo” pugno in una “sola” occasione così minimizzando la brutale aggressione che avrebbe potuto condurre alla morte della donna.

Secondo i Giudici, la violenza usata dal coniuge energumeno (ridotta a mero “sfogo”) deve essere inserita nel “contesto che tenga conto di comportamenti non ineccepibili della vittima”.

Tali affermazioni del tutto fuori luogo comportano un arretramento culturale che fa riaffiorare alla memoria le tristi pagine del nostro Ordinamento, laddove vigeva la discriminazione di genere nel codice penale Rocco con il reato di adulterio solo per la donna (dichiarato incostituzionale nel 1968), l’attenuante del delitto d’onore (abrogata solo nel 1981, unitamente al matrimonio riparatore) e la violenza sessuale, per la quale è stata oggi riconosciuta l’autonomia e l’integrità della donna, anche attraverso il consenso al rapporto sessuale, mentre, in precedenza, l’offesa era considerata un’offesa alla morale e non alla libertà individuale (!!)

  • Conclusioni

Per concludere, alcune doverose annotazioni sul linguaggio usato nelle decisioni giudiziarie in generale.

Si parla, spesso, di vittimizzazione secondaria e si pensa ad un linguaggio giudiziario espressione di formule stereotipate esclusivamente in ambito penale ovvero nel diritto di famiglia ma anche in altri settori del diritto ma questo tema non può e non deve essere trascurato.

In un’epoca storica in cui i temi dell’intelligenza artificiale, quelli dellagiustizia riparativa, dell’avvento della telematica dei sistemi giudiziari sono al centro del dibattito e sono impiegati anche nelle sedi istituzionali per la soluzione dei tanti problemi della giustizia, primo tra tutti quello della durata dei processi, interrogarsi sui temi della lingua e del pregiudizio nel processo potrebbe apparire superficiale ed anacronistico, Tuttavia gli Operatori del diritto più avveduti sanno che per rendere giustizia nelle decisioni è necessario preservare la dimensione umana del processo anche nell’utilizzo di quella algoritmica.

Il processo penale, scandito dalle sue regole e dai suoi tempi, per essere il c.d. “giusto processo”, deve essere frutto di uno sforzo collettivo di tutte le parti ed espressione di neutralità nella decisione, che deve essere rigorosa applicazione della sola logica e debba essere esercitata proprio a garanzia della imparzialità e, quindi, dell’attuazione del modello costituzionale della figura del magistrato, come sancito dall’art 11 della nostra Costituzione.

In questo contesto, riveste notevole importanza il linguaggio usato da chi pone all’attenzione del giudicante i fatti, quello di chi è interrogato e quei fatti descrive come pure quello di chi, con i provvedimenti, è chiamato a dirimere la contesa civile o penale che sia.

Il processo costituisce anche un percorso della comunicazione giuridica attraverso i provvedimenti giudiziari resi dai magistrati e contenuti nelle sentenze.

Ne consegue che il linguaggio utilizzato nel processo può essere oggetto di analisi, così come recenti studi di linguistica confermano.

È possibile compiere un’analisi della lingua di genere ed esaminare i reati cagionati alle donne e chiedersi se in una società costruita, sino al superamento formale del patriarcato, sulla figura maschile i tempi siano maturi per una declinazione della lingua al femminile a tutela delle Vittime del sesso debole.

L’analisi potrebbe riguardare anche quella delle espressioni utilizzate dai magistrati quando l’oggetto della comunicazione sono le donne o quando si parla o si scrive sulle donne, alle donne o per le donne.

Il linguaggio da analizzare, in questi casi, riguarda anche quello impiegato nei provvedimenti giudiziari che, in astratto, dovrebbe essere neutro perché applicativo di quella regola a cui innanzi si faceva riferi- mento, ma che spesso non lo è.

La terminologia utilizzata nelle decisioni ha uno straordinario potenziale perché non descrive solo la realtà, ma esprime la visione del Mondo di chi parla o scrive ma, nei luoghi istituzionali, come le aule giudiziarie, ha carattere performativo ossia crea un’azione, un modello di comportamento, un giudizio di valore e così definisce la realtà.

Del resto da tempo si registra la tendenza ad attribuire alla giustizia cosiddetta “materiale” carattere sinanche prevalente in materia di diritti fondamentali rispetto ai principi sanciti dalle leggi in senso formale.

Questo dato riflette il ruolo sociale del Giudice ma, al tempo stesso, impone, attraverso l’obbligo motivazionale, scevro da ogni pregiudizio, un controllo dello stesso.

Il Giudice, come affermava il grande Giurista Piero Calamandrei, “costituisce il custode attivo della Costituzione e si esprime attraverso la motivazione dei provvedimenti, obbligatoria in tutti i casi”, così come impone l’articolo 111 comma sesto della Carta fondamentale.

L’obbligo motivazionale è posto, quindi, a presidio della imparzialità e della indipendenza dei giudici e la motivazione deve descrivere l’iter argomentativo seguito per poter giungere alla decisione ed il linguaggio che il Giudice è tenuto ad impiegare nel percorso argomentativo, proprio in attuazione di tali principi, deve essere, quindi, chiaro e sobrio.

Il rischio da evitare è quello che il linguaggio utilizzato dai Giudici nelle decisioni, proprio perché espressione di una visione del Mondo, divenga il maggiore veicolo per la diffusione degli stereotipi perché quando parliamo tendiamo a riprodurre gli automatismi presenti nella nostra mente ossia gli stereotipi da cui scaturisce il pregiudizio, che costituisce il comportamento/atteggiamento derivante dallo stereotipo.

Sta di fatto che l linguaggio giuridico, spesso, non si sottrae alla riproduzione degli stereotipi anzi ne determina la perpetuazione perché la motivazione per essere considerata “giusta” deve essere coerente con il contesto culturale di riferimento.

Proprio per questa ragione, di recente, l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo, come innanzi ricordato, (v.sentenza J.L. contro Italia,21 maggio 2021) che ha rilevato come la sentenza assolutoria della Corte di appello di Firenze, pronunciata a favore di un gruppo di ragazzi imputati del reato di violenza sessuale di gruppo, nel ribaltare l’esito del giudizio di primo grado, abbia fatto ricorso, nella motivazione, ad affermazioni colpevolizzanti, moralizzanti e stereotipate così deter-minando una vittimizzazione secondaria della persona offesa con conseguente violazione dell’articolo 8 della Carta europea dei diritti dell’uomo.

Nella sentenza, la Corte europea ha sottolineato che “sebbene i Giudici hanno facoltà di esprimersi liberamente nelle proprie decisioni, la manifestazione del loro potere discrezionale e della loro indipendenza deve, tuttavia, cedere il passo al rispetto dell’immagine e della riservatezza delle parti, specie quando non ricorrano stringenti necessità relative all’accertamento dei fatti” -

Inoltre, sulla rilevante questione, va ricordato il parere n.11 del 2008 del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei relativo alla qualità delle decisioni giudiziarie, in cui è stato stabilito che “la motivazione di una decisione giudiziaria deve essere priva di qualsiasi apprezzamento offensivo o poco lusinghiero della persona sottoposta al giudizio”.

Del resto la necessità della costruzione di un linguaggio giuridico, scevro da stereotipi di genere, è stata affermata anche nella relazione sul programma di gestione per l’anno 2021 redatta dal Primo Presidente della Corte di Cassazione che, in un passaggio, dichiara apertamente di far proprio il contributo del Comitato per le pari opportunità della Corte ritenendo “non più procrastinabile l’approfondimento sulla costruzione del ragionamento giuridico, sulle categorie da esso utilizzate, sul linguaggio, sulla loro ‘permeabilità’ ai cambiamenti e alle nuove sensibilità maturate nella società con riferimento al tema del pregiudizio di genere e di ogni forma di discriminazione”.

In definitiva, come, peraltro, indicato nella già citata Relazione della Commissione Parlamentare, sarebbe opportuno istituire una formazione obbligatoria specialistica sulla delicata materia di tutti gli Operatori del diritto che si occupano di violenza domestica e di genere.

Nello stesso tempo, il Legislatore dovrebbe modificare la normativa vigente per evitare che le sentenze riportino espressioni ingiuriose o lesive della dignità delle parti, quand’anche provenienti dalle stesse, analogamente a quanto già previsto come divieto per gli scritti difensivi degli avvocati.

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