La Corte Europea dei Diritti dell' Uomo ha emanato lo scorso 13 Febbraio una sentenza di condanna dell’Italia per i ritardi dei procedimenti penali relativi alla Violenza domestica (Ricorso n. 64066/19 - Causa P.P. c. Italia)
Venerdi 14 Marzo 2025 |
In particolare, la decisione verteva sull’accertamento della inefficacia delle indagini svolte e sul mancato rispetto delle garanzie procedurali da parte dell’Italia nei confronti delle Vittime in quanto le Autorità nazionali non avevano agito con la tempestività e la diligenza richieste dal caso né tenuto conto della specificità della violenza domestica con conseguente lesione dell’art. 3 CEDU.
Secondo la Corte, gli Stati membri hanno l’obbligo di istituire e di far rispettare efficacemente un sistema di repressione di tutte le forme di violenza domestica e di fornire sufficienti garanzie procedurali alle vittime, con una particolare diligenza nella gestione delle denunce, specie quando il caso è relativo a tale delitto.
In particolare, le Autorità nazionali devono tenere conto della situazione di preca- rietà e di particolare vulnerabilità, sia morale, fisica e/o materiale, della Vittima e, in conseguenza, valutare la situazione il più rapidamente possibile.
Tale tempestivo intervento non si era verificato nel caso in questione per cui, con la sentenza, la Corte ha censurato il modo in cui le Autorità nazionali hanno gestito le denunce di violenza domestica in danno della ricorrente ed il mancato avvio di un’indagine approfondita al fine di garantire che l’autore fosse perseguito e punito senza alcun indebito ritardo.
La Corte, con un’ampia motivazione della decisione, deplora che, nello svolgimento dell’indagine penale, le Autorità non abbiano fornito una risposta proporzionata alla gravità dei fatti denunciati dalla ricorrente con la conseguenza che l’autore del reato ha goduto di una totale impunità, grazie anche alla maturazione della prescrizione del reato allo stesso contestato dai Giudici.
A parere della Corte, i reati relativi alla violenza domestica devono essere inclusi tra i reati più gravi per i quali deve ritenersi incompatibile, con gli obblighi procedu rali derivanti dall’art.3 CEDU, che le indagini su tali reati si concludano per prescri zione a causa dell’inattività delle Autorità.
Per contro, spetta allo Stato organizzare il proprio Sistema Giudiziario in modo tale da consentire ai propri Tribunali di soddisfare i requisiti della Convenzione anche in ragione della particolare gravità dei reati di violenza domestica, maltrattamenti e violenza sessuale.
Infatti, per la Corte, è dovere dello Stato non solo combattere il sentimento di impunità di cui gli aggressori possono credere di godere ma anche preservare la fiducia e il sostegno dei cittadini nello Stato di diritto, in modo tale da impedire qualsiasi apparenza di tolleranza o collusione rispetto agli atti di violenza.
Ciò posto, vale la pena di approfondire l’importante decisione. che attiene alla lunghezza dei processi nella delicata materia, che determinano, i taluni casi, persino la ritrattazione delle accuse da parte delle malcapitate Vittime delle Violenze fami liari, come commentato di recente su questa Rivista da chi scrive.
In sintesi, il ricorso sottoposto alla CEDU riguardava gli obblighi positivi derivanti dagli articoli 3 e 8 della Convenzione, in un contesto di violenza e atti persecutori subiti dalla ricorrente tra il 2007 e il 2009,per i quali la stessa lamentava una mancanza di effettività della indagine penale e l’inosservanza delle garanzie procedurali che hanno causato la declaratoria di estinzione per prescrizione dei reati contestati al responsabile.
Secondo la ricorrente tanto era accaduto poiché l’Autorità Giudiziaria non avrebbe agito con la tempestività e la diligenza richieste dalla pur grave vicenda.
Inoltre, l’interessata aveva affermato, nel ricorso che, nel condurre l’indagine penale, le Autorità nazionali non avevano preso in considerazione il problema speci fico della violenza domestica, tenuto conto del fatto che il reato di atti persecutori non esisteva fino al 2009.
Secondo la ricorrente, procedendo in tal modo, le Autorità non avrebbero fornito una risposta proporzionata alla gravità dei fatti denunciati, sulla base di un’analiti ca ricostruzione dei fatti posti a base delle doglianze della malcapitata Vittima.
Sta di fatto che il 21 dicembre 2009 la ricorrente sporgeva denuncia dichiarando di essere stata vittima dal 2007 di violenze fisiche, atti persecutori e molestie da parte del suo ex compagno ed, in particolare, di essere stata aggredita dallo stesso in tre distinte occasioni.
Un primo episodio violento si era verificato il 29 marzo 2008 in cui l’imputato si era scagliato contro la ricorrente, mentre quest’ultima era in bicicletta, facendola cadere e prendendole con la forza la borsa, determinando l’intervento delle Forze dell’Ordine grazie ad alcuni testimoni presenti all’aggressione.
Un secondo episodio violento si era verificato il 26 ottobre 2008,in cui lo stesso ex compagno aveva afferrata violentemente per il collo la vittima e fatta salire in macchina con la forza.
La ricorrente aveva chiamato la Polizia e si era recata in Ospedale, dove erano stati riscontrati dei graffi sulla schiena, degli arrossamenti attorno al collo, abrasioni multiple e stato di shock per i quali le veniva prescritta dai Sanitari una sospensione dell’attività lavorativa per cinque giorni.
Infine, si era verificata una terza aggressione fisica il 30 novembre 2008,mentre la ricorrente era con sua sorella ad una Conferenza, ed in tali circostanze la donna veniva afferrata per i capelli dall’ex compagno che aveva anche cercato di impossessarsi del suo telefono cellulare costringendola a fuggire per sottrarsi alle ire dello energumeno.
Nella denuncia la ricorrente affermava, inoltre, che lo stesso soggetto sorvegliava i suoi spostamenti, la seguiva in auto, perquisiva il suo telefono, controllava la sua biancheria intima, la sminuiva, la insultava, la allontanava dalla sua famiglia e la minacciava, e definiva tale comportamento come il tentativo di tenerla sotto controllo e di coercizione.
La stessa indicava con precisione la data e l’ora dei messaggi e delle chiamate intimidatorie che aveva ricevuto (più di 2.500 messaggi), e comunicava anche l’identità dei testimoni che potevano confermare le sue dichiarazioni.
Il reato (notitia criminis) veniva, pertanto, iscritto in ritardo nel Registro notizie di reato il 4 marzo 2010 con l’avvio delle indagini.
Tuttavia, la ricorrente non veniva sentita dal P.M.designato e l’unico atto di indagine compiuto era stata l’acquisizione delle registrazioni delle telecamere di controllo del traffico del Comune di Pisa, mentre non veniva acquisita alcuna copia dei messaggi e delle chiamate telefoniche effettuate in danno della stessa.
Tre anni e mezzo più tardi (!!), e più precisamente il 7 maggio 2013,il Procuratore della Repubblica chiedeva il rinvio a giudizio dell’indagato unicamente per il reato di molestia, ai sensi dell’articolo 612 bis del codice penale, commesso nei confronti della ricorrente tra il 2007 e il 2009 e la ricorrente si costituìva parte civile nel procedimento penale e la prima udienza veniva fissata al 7 novembre 2013.
La sentenza di primo grado veniva emessa alcuni mesi dopo, in data 8 gennaio 2016,e il Tribunale di Pisa assolveva l’imputato, osservando anzitutto che, al mo mento dei fatti, la ricorrente e il suo ex compagno vivevano una relazione senti mentale «tossica e tormentata» e che non sussistesse l’elemento materiale e/o psicologico del reato di atti persecutori, in quanto la ricorrente non aveva interrotto la sua relazione ma si rendeva persino disponibile ad incontrarlo lavoro, nonostante il comportamento oggettivamente molesto usato nei suoi confronti.
Il Tribunale, ritenendo, che l’imputato, comunque, non fosse consapevole di causare alla Vittima un disagio psichico e morale e che l’elemento materiale del reato di molestie non risultava provato, lo assolveva in base alla motivazione che il fatto non sussisteva.(!!)
Neppure l’Appello serviva ad accertare le responsabilità dell' imputato, poiché anche la Corte di Appello di Firenze, in data 20 Maggio 2017,assolveva lo stesso essendo i fatti commessi anteriori all’entrata in vigore della legge 25 febbraio 2009 n.69 (c.d. Codice Rosso) che ha introdotto il reato di atti persecutori e comunque estinti per prescrizione i fatti commessi dopo tale data, pur condannando l’imputato a risarcire la ricorrente nella misura determinata dai giudice civile.
Stessa sorte subiva il ricorso per Cassazione della ricorrente, poiché, con sentenza emessa il 5 giugno 2019,nove anni e mezzo dopo che era stata depositata la denuncia (!!), la Suprema Corte confermava la prescrizione del reato, e rinviava la causa dinanzi ai giudici civili per il risarcimento dei danni patiti dalla Vittima.
Nel 2019 la ricorrente citava in giudizio l’imputato dinanzi alla Corte d'Appello civile di Firenze, chiedendo il risarcimento dei danni subiti, in particolare per quanto riguarda il pregiudizio arrecato alla sua salute che aveva comportato un'incapacità temporanea di lavoro, le offese alla dignità umana e la protezione dei dati personali ma anche danni economici derivanti dalla perdita di reddito, dalle spese mediche e dal danno causato alla sua immagine.
La Corte d'Appello di Firenze, con sentenza emessa nel 2024, riesaminando gli atti commessi dall’imputato dopo l'entrata in vigore della Legge 69/2019,lo ha condannato a versare alla Vittima un risarcimento dei danni di Euro 268.403,26 oltre alle spese di giudizio.
A sostegno della decisione, la Corte ha affermato che la ricorrente era da molto tempo provata e indebolita dalle minacce, dagli insulti e dalle continue intromis sioni dell’ex compagno nella sua vita, colpivano una persona ormai incapace di difendersi e che avevano comportato dei danni psicologici temporanei e divenuti poi permanenti.
Dopo avere esposto sinteticamente i fatti di causa, la CEDU rileva nella decisione in commento che, tra le altre modifiche apportate alla legislazione, alla lista dei reati per i quali il termine di prescrizione è aumentato della metà (invece di un quarto) in presenza di atti interruttivi, sarebbero stati aggiunti alcuni reati introdotti dal c.d. «Codice Rosso», tra i quali gli atti persecutori (articolo 612 bis del codice penale) le lesioni personali volontarie e la deformazione dell’aspetto della vittima mediante lesioni permanenti al viso (articoli 582 e 583 quinquies del codice pena le), reati che si possono considerare gravi quando siano commessi nei confronti del coniuge o di una persona legata da una relazione affettiva, o nel contesto di maltrattamenti familiari o di violenza sessuale.
La Corte condivide le doglianze della ricorrente circa una mancanza di effettività dell’indagine penale e l’inosservanza delle garanzie procedurali che aveva causato la estinzione dei reati contestati per prescrizione poiché, le Autorità non avrebbero agito con la tempestività e la diligenza richieste dal caso.
Inoltre, la Corte sottolinea che le stesse Autorità, quando hanno compiuto l’inda gine penale, non avrebbero tenuto conto del problema specifico della violenza domestica, posto che il reato di atti persecutori non esisteva prima di febbraio 2009 senza così fornire una risposta proporzionata alla gravità dei fatti denunciati.
Il risultato di questa omissione è che l’imputato ha beneficiato di una totale impunità a causa della lunga durata dei procedimenti con la violazione degli articoli 3 e 8 della Convenzione.
Il Governo Italiano, costituito nel giudizio dinanzi alla CEDU avrebbe giustificato la lunga durata del procedimento facendo valere la complessità del caso, il numero di testimoni e le perizie necessarie sulle videocamere di sorveglianza e sul telefono della ricorrente (!!).
Inoltre, nelle proprie difese, il Governo avrebbe sostenuto che la ricorrente ha comunque ottenuto, a titolo di provvisionale, un risarcimento dei danni dalle Giuris dizioni civili, ricordando pure che, prima dell’entrata in vigore, nel 2009, della introduzione del reato di atti persecutori, l’Ordinamento giuridico italiano preve deva che tali reati erano sanzionati dalle disposizioni relative alle lesioni personali (articolo 582 del codice penale), alle percosse (articolo 581 del codice penale), alla violenza privata (articolo 610 del codice penale) e alla molestia (articolo 660 del codice penale).
Pertanto, anche se l’imputato fosse stato accusato di questi reati, vi sarebbe comunque stata ls loro prescrizione, tenuto conto del tempo necessario per svolgere le indagini, per accertare i fatti, per quanto riguarda la fase delle indagini e dato il ritardo del processo di primo grado (!!).
Sul punto, tenuto conto della sua giurisprudenza e della natura delle doglianze formulate dalla ricorrente, la Corte ha ritenuto nella decisione che le questioni sollevate nel caso di specie vadano esaminate unicamente sotto il profilo degli obblighi procedurali dell'articolo 3 della Convenzione.
La Corte rammenta di avere già affermato che un’azione civile può portare al versamento di un risarcimento ma non all’azione penale nei confronti della persona responsabile degli atti di violenza domestica, e che, dunque, tale azione non può impedire allo Stato di adempiere all’obbligo procedurale ad esso imposto dall’articolo 3 in materia di indagine sugli atti di violenza in questione .
A questo proposito, il Governo non contesta che la ricorrente sia stata sottoposta ad un trattamento contrario all’articolo 3 della Convenzione. ma le argomen tazioni difensive mirano, piuttosto, a sostenere che le Autorità nazionali hanno rispettato i loro obblighi, abilitando la ricorrente a far esaminare le sue doglianze ed eventualmente ad accordarle una riparazione.
Oltre alle violenze fisiche subite dalla ricorrente, la Corte riconosce anche che le conseguenze psicologiche costituiscono un aspetto importante della violenza domestica ed osserva che il fenomeno della violenza domestica non si considera limitato alla sola violenza fisica, ma include, tra l’altro, la violenza psicologica e gli atti persecutori.
Alla luce di quanto innanzi, la Corte ritiene che i maltrattamenti inflitti alla ricorrente fossero sufficientemente gravi per rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 3 della Convenzione.
In particolare, la Corte ha dichiarato che gli Stati hanno un obbligo positivo di istituire e di applicare effettivamente un sistema di repressione di qualsiasi forma di violenza domestica, e di offrire delle garanzie procedurali sufficienti alle vittime con una particolare diligenza che richiede il trattamento delle denunce dei fatti di violenza domestica, come riconosciute nella Convenzione di Istanbul.
In risposta alle accuse di aggressione, di atti persecutori e di minacce che aveva formulato la ricorrente, l’Autorità giudiziaria ha avviato un’indagine, tuttavia la Corte osserva che sono trascorsi tre mesi prima che la denuncia della ricorrente fosse registrata mentre l’indagato è stato rinviato a giudizio circa quattro anni dopo il deposito della denuncia, ed, infine, che la sentenza di primo grado è stata pronunciata più di sei anni dopo il suddetto deposito e che ben sedici mesi dopo l’adozione della sentenza di primo grado, la Corte d’Appello ha assolto l’imputato per i fatti commessi prima della Legge 69/2019 e ha dichiarato i fatti delittuosi ascritti dopo tale data estinti per prescrizione.
La Corte rammenta di avere già concluso che, nel trattamento giudiziario del contenzioso sulle violenze contro le donne, spetta ai giudici nazionali tenere conto della situazione di precarietà e di particolare vulnerabilità, morale, fisica e/o materiale, della vittima, e valutare la situazione di conseguenza, quanto più rapidamente possibile (S. c. Italia, sopra citata, § 142).
Inoltre la Corte afferma di non essere convinta che, nel caso di specie, le Autorità abbiano dimostrato una volontà reale di impedire analoghi comportamento dell’imputato ma, al contrario, la Corte ritiene che i Giudici nazionali abbiano agito in violazione del loro obbligo di assicurare che l’imputato di minacce e atti persecutori, fosse giudicato rapidamente e non potesse pertanto beneficiare della prescrizione come di evincerebbe dal modo in cui le Autorità hanno trattato le informazioni dalle quali risultava che erano state commesse violenze domestiche nei confronti della ricorrente,
In particolare emergerebbe la loro incapacità di condurre un’indagine e di far sì che l’autore fosse perseguito e punito senza ritardi ingiustificati atteso che, nel condurre l’indagine penale, poiché non abbiano tenuto in debito conto il problema specifico della violenza domestica e, in tal modo, non abbiano dato una risposta proporzionata alla gravità dei fatti denunciati dalla ricorrente, favorendo l’impunità totale dell’imputato in base a tale lacuna.
Nella sentenza S. c. Italia (sopra citata, § 144), la Corte ricorda di avere affermato che lo scopo di una protezione efficace contro i maltrattamenti, comprese le violenze domestiche, non si può considerare raggiunto quando un procedimento penale è chiuso in quanto i fatti sono prescritti (sent Valiulien?, sopra citata, § 85).
Questa constatazione non modifica il fatto che, come nel caso di specie, può essere accordato un risarcimento danni per dei reati prescritti, sebbene la ricorrente non abbia ancora ottenuto un risarcimento da parte del suo ex compagno dopo un lungo procedimento che non si è ancora concluso.,
la Corte rammenta che i reati legati alle violenze domestiche devono essere considerati, anche se sono commessi da privati, tra i reati più gravi per i quali la giurisprudenza della Corte considera che è incompatibile con gli obblighi procedurali derivanti dall’articolo 3 che le indagini su tali reati si estinguano per effetto della prescrizione a causa dell’inerzia delle autorità (per quanto riguarda la concessione dell’amnistia in caso di violenza sessuale commessa da privati, si veda la sentenza E.G. c. Repubblica di Moldavia, n. 37882/13, § 43,13 aprile 2021).
La Corte ha anche sottolineato nella decisione che spetta allo Stato gestire il proprio sistema giudiziario in modo tale da permettere ai propri tribunali di rispondere alle esigenze della Convenzione, in particolare quelle relative agli obblighi derivanti dall'articolo 3 della Convenzione, osservando con preoccupazione le conseguenze del sistema italiano in materia di prescrizione e dei ritardi nei procedimenti e condivide le perplessità secondo le quali tali fattori comportano la prescrizione di un numero importante di cause anche in ambito di violenza domestica, ad esempio i maltrattamenti, gli atti persecutori e le violenze sessuali (S. c. Italia, sopra citata, § 147).
La Corte rammenta che essa si aspetta che gli Stati siano particolarmente severi quando sanzionano anche i responsabili di violenze domestiche, in quanto è in gioco non soltanto la questione della responsabilità penale individuale degli autori perciò, le Autorità giudiziarie interne non devono in nessun caso dimostrarsi disposte a lasciare impunite delle violazioni dell'integrità fisica e morale delle persone.
Lo Stato ha anche il dovere di lottare contro il sentimento di impunità di cui gli aggressori possono pensare di beneficiare, e di mantenere la fiducia e il sostegno dei cittadini nello stato di diritto, in modo tale da prevenire qualsiasi apparenza di tolleranza o di collusione delle autorità rispetto agli atti di violenza (Okkal? c. Turchia, n. 52067/99, § 65, CEDU 2006-XII).
Infine, la Corte ritiene, nella causa all’esame della stessa, che dagli elementi sopra esposti, dal modo in cui le autorità interne hanno mantenuto un sistema nel quale la prescrizione è strettamente legata all'azione giudiziaria, anche dopo l'avvio di un procedimento, e, dall'altra, hanno condotto l'indagine penale con una passività giudiziaria incompatibile con il suddetto quadro giuridico, non possa soddisfare le esigenze dell'articolo 3 della Convenzione (S. c. Italia, sopra citata, § 150) con violazione del profilo procedurale di tale disposizione.
Inoltre, la Corte constatato che, nel caso di specie, sussistono delle circostanze eccezionali che richiedono che sia riconosciuta una somma per danno morale a titolo di equa soddisfazione, anche in assenza di una «domanda» debitamente formulata, atteso che la ricorrente ha senza dubbio provato angoscia e disagio a causa della violenza domestica subita e dell’inosservanza da parte delle autorità del loro obbligo positivo di condurre un’indagine effettiva.
Peraltro secondo la Corte non vi è alcuna prova che sia stata versata alcuna somma alla ricorrente in seguito alla sentenza risarcitoria emessa dalla Corte d’appello di Firenze.
In conseguenza, la CEDU respinge l’argomentazione del Governo secondo la quale si dovrebbe tenere conto delle somme già accordate dalla Corte d’appello, in quanto le giurisdizioni interne possono, se necessario, in caso di riparazione integrale, tenere conto della somma riconosciuta dalla Corte.
Deliberando in via equitativa, la Corte ha riconosciuto alla ricorrente la somma di Euro 10.000 per il danno morale da lei subìto maggiorato di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali.
Conclusioni
Si tratta di una sentenza lapidaria delle gravi carenze dello Stato italiano nella amministrazione della Giustizia, come altre in passato.
Neppure la introduzione nel c.d.Codice Rosso del reato di “atti persecutori” ha costituito uno stimolo ad accelerare i procedimenti per evitare che ricadano nella prescrizione.
Di recente, la stessa Corte Costituzionale ha stabilito un principio importante per chi subisce violenza domestica:“L’interesse alla conservazione dell’unità del nucleo familiare non può prevalere rispetto alla necessità di tutelare i diritti fondamentali delle singole persone che ne fanno parte”.
Si tratta di una decisione importante per tutte le donne che subiscono violenza nelle relazioni di intimità e che subiscono azioni violente e ritorsive anche dopo la separazione.
La Corte il 6 febbraio scorso ha rigettato siccome infondata la eccezione di illegittimità costituzionale del sesto comma dell’articolo 605 del codice penale (sequestro di persona), sollevata da un Gup di Grosseto che doveva decidere sulla responsabilità penale di un uomo che era stato rinviato a giudizio per sequestro di persona, lesioni e minaccia aggravata nei confronti della ex moglie e del suo nuovo compagno per fatti risalenti al 2023.
L’imputato aveva atteso l’ex moglie e il suo nuovo compagno in strada poi li aveva costretti a rientrare in casa e li aveva minacciati di morte con una pistola, poi li aveva percossi ripetutamente alla testa con un casco.
Le violenze erano durate circa una quindicina di minuti prima che li lasciasse andare. Dopo la denuncia, sia l’ex moglie che il suo compagno, avevano ritirato la querela contro l’imputato che, nel frattempo, si era offerto di risarcire i danni.
Secondo la Consulta “la remissione della querela non aveva prodotto effetto, tra l’altro, rispetto al reato di sequestro di persona commesso in danno della moglie dell’imputato”.
In effetti, la Riforma Cartabia ha reso in via generale il sequestro di persona procedi bile a querela di parte ma ha mantenuto la procedibilità d’ufficio nel caso che il reato sia commesso nei confronti del coniuge, di ascendenti o discendenti o di un minore mentre il Gup di Grosseto riteneva la norma incostituzionale poiché secondo il Magistrato, le ragioni che hanno indotto il legislatore del 2022 a subordinare la punibilità del sequestro di persona alla querela della persona offesa con l’intento di favorire una conciliazione bonaria tra le parti, varrebbero a maggior ragione nell’ipotesi in cui autore e vittima siano uniti in matrimonio e, comunque, a garanzia del valore dell’unità familiare, riconosciuto come tale dall’articolo 29 della Costituzione.
Per contro, nel giudizio dinanzi alla Corte, l’Associazione D.iRe, Donne in Rete contro la violenza, aveva depositato una memoria, rilevando che il caso riguardava un contesto di violenza domestica e, quindi, dal Giudice prima e della Corte poi, doveva essere presa in considerazione la normativa della Convenzione di Istanbul.che, all’art 55 prevede che le indagini e i procedimenti penali per i reati di violenza fisica “non dipendano interamente dalla segnalazione o da una denuncia da parte della vittima quando il reato è stato commesso in parte o in totalità sul loro territorio, o che il procedimento possa continuare anche se la vittima dovesse ritrattare l’accusa o ritirare la denuncia”.
Infatti le vittime di violenza nelle relazioni di intimità possono essere ostacolate nella richiesta di giustizia da minacce, ricatti (economici o per esempio quello di non vedere più i figli) e sono in una situazione di maggiore vulnerabilità rispetto ad altre vittime perché hanno avuto legami con gli autori di violenza.
La Consulta, rigettando l’eccezione di incostituzionalità, a sottolineato che “il legislatore ha mantenuto il regime di procedibilità d’ufficio di alcune ipotesi aggravate di sequestro di persona in cui vi siano particolari esigenze di tutela della vittima nel contesto di relazioni familiari per cui, nell’ambito di queste relazioni esiste un concreto rischio che i soggetti più vulnerabili siano esposti a pressioni indebite, affinché non presentino querela o la rimettano.
Proprio per tale ragione, la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia nel 2013, vieta agli Stati che ne sono parte di subordinare alla querela della parte i procedimenti penali e stabilisce che il processo penale debba continuare anche quando la vittima ritiri la propria denuncia”.